Gruppi comunisti dissidenti nella Resistenza italiana

Quello del radicalismo classista è un aspetto del movimento resistenziale italiano ancora oggi affrontato con superficialità all’interno del dibattito storiografico ufficiale. Ne sono una riprova la scarsa presenza di testi monografici dedicati all’argomento e l’esiguità di fonti attendibili e rintracciabili, uniti al forte imbarazzo che questa parentesi di dissidenza ha creato per molti anni tra le fila dei partiti storici della sinistra.
Di primaria importanza è stato il silenzio del Partito Comunista Italiano, il cui percorso di istituzionalizzazione intrapreso a partire dalla cosiddetta “svolta di Salerno” imposta da Togliatti nel 1944 ha richiesto una rimozione obbligata di quelle esperienze.
Secondo lo storico Arturo Peregalli però, la grande maggioranza dei gruppi comunisti dissidenti individuava la rottura rispetto alle politiche classiste ben prima di quell’anno, con strascichi di risentimento derivanti persino dall’esperienza del “biennio rosso” e dalla fondazione del PCI da parte di Amadeo Bordiga nel 1921. L’autore sostiene che: «Per questi movimenti la “svolta” di Salerno non rappresentava una vera e propria novità nella politica comunista, ma la consideravano solamente un adeguamento tattico che allargava il ventaglio delle alleanze anche ai monarchici e ai fascisti “pentiti”. La loro critica riguardava piuttosto la strategia complessiva del PCI, che risaliva a molto prima del marzo 1944» <13.
Tutto ciò impone un ripensamento rispetto all’incidenza del concetto di “guerra civile” per quanto concerne i fatti che andremo ad esaminare.
Accettando la tripartizione suggerita da Claudio Pavone <14 per quanto riguarda la Resistenza in Italia, ci interessa qui approfondire i forti intrecci che il fenomeno della lotta di classe ha avuto con il lungo scontro che ha visto contrapporsi lo squadrismo fascista ai militanti della sinistra socialista e comunista a partire dal 1919. Citando lo stesso Pavone: «Da questo punto di vista c’è una caratteristica specifica della Resistenza italiana rispetto a quella di altri paesi europei: in Italia avviene come una sanguinosa resa di conti nella partita che si era aperta con lo squadrismo fascista tra il 1919 e il 1922, che è l’anno della marcia su Roma. Dopo quella data il fascismo la violenza l’aveva esercitata tramite tutta la forza dell’apparato statale, la quale si sommò a quella illegale prima esercitata con la protezione della poca equanime politica dei ceti dirigenti, in particolare degli apparati polizieschi che nel periodo dello squadrismo davano mano libera alle bande fasciste, e invece reprimevano quei socialisti che avessero tentato di opporsi. Così l’idea che finalmente si poteva combattere ad armi pari fu forte incentivo della Resistenza italiana» <15.
Negli anni che separano la presa di potere del fascismo dal crollo di quest’ultimo si era infatti andata formando nella classe operaia la «dottrina secondo la quale il fascismo era il braccio armato della reazione capitalistica e costituiva l’ultima reazione della borghesia» <16, per cui divenne fin troppo facile individuare negli squadristi i responsabili più immediati delle vessazioni del proletariato. In questo senso, le sanguinose modalità con le quali Mussolini aveva imposto il silenzio alle organizzazioni della sinistra e la debole risposta delle classi lavoratrici avevano lasciato una cicatrice aperta in tutti gli antifascisti italiani della prima ora.
E’ qui importante ricordare come alcune fonti individuino proprio nella disfatta della sinistra tra il 1919 e il 1922 l’origine di una lunga “guerra civile”, il cui sanguinoso epilogo avrebbe avuto luogo dopo l’8 settembre 1943. A favore di questa tesi può essere presa d’esempio la disorganizzazione del Partito Socialista Italiano e del neonato Partito Comunista, che scontarono negli anni del cosiddetto “biennio rosso” una sottovalutazione del fenomeno fascista, tale da provocare quella che può essere considerata la prima grande sconfitta, anche militare <17, del fronte antifascista italiano.
Dopo vent’anni di dittatura dunque, fu quasi automatica un’identificazione tra il nemico di classe impersonato dalla borghesia padronale e il fascista nemico della patria, soprattutto nel momento in cui quest’ultimo aveva accettato l’occupazione del suolo nazionale da parte di un esercito straniero.
Il problema si presentò in termini più complessi quando la politica di unità nazionale, imposta direttamente dal Comitato di Liberazione Nazionale, costrinse a rivedere i rapporti con la borghesia, imponendo un’alleanza interclassista perseguita anche dai maggiori partiti della sinistra.
«Per gli operai più o meno politicizzati – sostiene ancora Pavone – il nemico ideale, la figura più chiara e riassuntiva di nemico, sarebbe stata quella di un padrone che fosse anche fascista e sfacciatamente servo dei tedeschi, e come tale non più vero italiano». <18
Nemico non facile da individuare, sia per l’abile trasformismo di quei padroni pronti in qualunque momento a cambiare bandiera purché non venissero lesi i propri interessi economici, sia per l’effettiva difficoltà nel definire fino a che punto la fornitura di beni e materiali ai tedeschi fosse frutto di collaborazione e non piuttosto di paura e intimidazioni <19.
Peraltro alcune fonti <20 riferiscono di come spesso nelle brigate partigiane non tutti i tedeschi venissero considerati come nemici della classe, ma occorreva distinguere tra i nazisti “intransigenti” (volontari, SS) e i giovani arruolati a forza nell’esercito, con i quali potevano esserci delle convergenze ideologiche dettate dalla medesima condizione sociale nonostante l’acquiescenza nei confronti del regime di Hitler. Il medesimo discorso valeva, anche in maggiore misura, per l’esercito di Salò, all’interno del quale erano ben individuabili i reparti più organici (X Mas, Brigate nere, legione Muti), la cui deferenza e lealtà nei confronti del Duce li poneva decisamente su un piano differente rispetto ai giovani di leva arruolati con la forza dopo l’armistizio.
La lettura che legava indissolubilmente la lotta di liberazione a quella anticapitalista, fatta propria dal PCI e dalla Terza Internazionale, vedeva nell’Unione Sovietica di Stalin il baluardo delle libertà per i popoli oppressi dalla tirannia delle forze reazionarie e del grande capitale finanziario. Questa stessa presa di posizione venne assimilata dai gruppi comunisti dissidenti, che fecero dell’oltranzismo classista una colonna portante della loro proposta politica, per poi vederlo divenire il maggiore motivo di scontro con le forze di sinistra legate al CLN.
[NOTE]
13 PEREGALLI A., “La sinistra dissidente in Italia nel periodo della Resistenza”, in Conoscere la Resistenza, Edizioni Unicopli, Milano, 1994, cit., p.73
14 Le “tre guerre” individuate da Pavone sono: una guerra patriottica in cui il nemico era rappresentato dal tedesco invasore e il cui obiettivo consisteva nella liberazione del territorio nazionale; una guerra civile che aveva come nemico il fascista e come obiettivo la liberazione del popolo italiano dal fascismo; una guerra di classe il cui nemico principale era il padronato e l’obiettivo il capovolgimento dei rapporti sociali. Cfr. PAVONE C., Il movimento di liberazione e le tre guerre, in Conoscere la Resistenza, Milano, Edizioni Unicopli, 1994, pp.11-18
15 Ibidem, p.14
16 Ibidem, p.16
17 Ricordo qui l’ampio dibattito che attraversò la sinistra rispetto all’utilizzo e all’egemonia della violenza per contrastare l’imminente ascesa di Mussolini. Il disconoscimento di organizzazioni paramilitari quali gli “Arditi del popolo” o le “Guardie rosse operaie” da parte dei vertici del PSI e del PCI (ad eccezione di Antonio Gramsci) creò non poche ambiguità, permettendo il via libera definitivo al dilagare dello squadrismo fascista. E’ bene però non confondere questi aspri momenti di scontro politico con le vicende che derivarono dall’8 settembre 1943, la cui intensità e partecipazione ebbero tutt’altro impatto rispetto ai tumulti del periodo ’19-’22.
18 PAVONE C., Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, cit., p.314
19 «Dicevano gli industriali: per non licenziare, dobbiamo tenere in funzione le fabbriche; per tenerle in funzione dobbiamo accettare le commesse che ci vengono offerte; gli unici che offrono oggi commesse consistenti sono i tedeschi. Quindi delle due l’una: o licenziamo o lavoriamo per i tedeschi. Ma, in questo caso, non veniteci a dire che siamo dei collaborazionisti: se lo fossimo, lo saremmo per lo meno quanto lo sareste voi operai». PAVONE C., Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, cit., p.347
20 Ibidem
Tommaso Rebora, Oltre il PCI: “Stella Rossa” e i gruppi dissidenti nella Resistenza italiana, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2012/2013