Burocrazia e parastato tra Ventennio e secondo dopoguerra

Ma come abbiamo avuto modo di vedere, la scelta della continuità col vecchio regime assume anche il significato di una stretta alleanza tra governo e burocrazia, sia centrale che periferica.
L’appropriazione da parte degli esecutivi dell’Italia liberata della dottrina della neutralità amministrativa dello Stato, assieme alle necessità della ricostruzione e del ripristino del controllo statale, comporta anche una rinegoziazione dei poteri tra vecchio e nuovo regime, tra antiche élites locali, funzionari degli enti pubblici e di quelli paralleli, da un lato, e nuova classe dirigente, dall’altro.
Se si assume la dimensione locale come angolo d’osservazione ci si avvicina a una comprensione maggiore del fenomeno: “la commistione tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ che si verifica negli anni del passaggio dal regime alla Repubblica è probabilmente più dettagliabile se al centro dell’attenzione viene posto un settore o un ambito dell’apparato statuale e un territorio specifico […]. Così si può ‘scomporre’ il problema della continuità, porlo in relazione ai cambiamenti tumultuosi di quegli anni e provare ad interpretare l’evoluzione delle strutture e degli apparati dello Stato nel loro ‘intreccio con la società civile’.” <655
Intreccio con la società civile e alleanza col governo, che arricchiscono il significato storico della continuità e del suo riflesso nel sistema di potere repubblicano: “Non solo quindi transizione dal fascismo alla Repubblica, ma, come suggerisce Sabino Cassese, un’attenzione allo Stato negli anni del regime come Stato ‘ponte’, cioè uno Stato fascista permeato esso stesso da consistenti persistenze provenienti dallo Stato liberale poi trasferite allo Stato repubblicano.” <656
Un concetto di continuità molto intrecciato con le costanti di lungo periodo, che si sarebbero manifestate nel dopoguerra soprattutto attraverso la straordinaria longevità di quel ceppo originario di leggi e istituti che l’Italia unita si era data sin nella sua stagione costituente (con l’integrazione del periodo crispino). Quell’insieme di norme e istituzioni avrebbe esercitato la sua duratura influenza sugli assetti organizzativi dell’amministrazione della seconda metà del XX secolo. <657
A questo proposito ha osservato Paul Ginsborg: “il funzionamento dell’amministrazione italiana si basava sul principio tedesco del Rechtsstaat: ogni azione condotta in nome dello Stato doveva essere inserita nella cornice della legge amministrativa. La storia della burocrazia italiana divenne così la storia della minuziosa regolamentazione dell’attività amministrativa attraverso la promulgazione di leggi, statuti, circolari e direttive interne. […] Esistevano circa 100 mila leggi e direttive che avrebbero dovuto governare l’attività amministrativa e si era creata una gerarchia di funzionari pubblici in cui i gradi più bassi erano quasi incapaci di prendere iniziative o di muoversi al di fuori della camicia di forza dei regolamenti”. <658
Proprio dal punto di vista del nostro oggetto, il conflitto sociale e le culture dello Stato e del mondo del lavoro che lo animano, si mostra il permanere del potere delle élites locali: strutture di mediazione tra le istanze sociali del territorio e lo Stato centrale, pienamente inserite nel sistema di potere burocratico-governativo, alla base anche di un processo di inclusione selettiva secondo logiche strettamente clientelari. Uno Stato forte e debole al tempo stesso, che ha la necessità anche in questo secondo dopoguerra di affidarsi al notabilato tradizionale per il controllo sociale, soprattutto nelle zone più povere e che non hanno vissuto il movimento di Liberazione.
Infine, un altro elemento che non può essere ignorato quando si parla della struttura che regge e compone il sistema di potere in Italia, è tutto quell’insieme di enti burocratici paralleli che rientrano nella categoria giuridica del ‘parastato’. Lo sviluppo di burocrazie parallele agli enti pubblici centralizzati è precedente al fascismo, ma fu sotto Mussolini e in particolare negli anni Trenta che il fenomeno crebbe fino a moltiplicarne le braccia. Alcuni osservatori hanno rilevato come proprio la creazione di enti di diritto privato diversi dalla tradizionale burocrazia ministeriale e statale, cui venne affidata l’amministrazione di servizi sociali e attività di intervento economico, abbia costituito la più profonda rivoluzione burocratica affrontata in Italia: “è indubbio che si consumò allora la rottura dello Stato amministrativo compatto e uniforme, di tipo napoleonico, e della relativa burocrazia, e si assistette alla nascita di ‘nuove burocrazie, aventi un impianto che oggi diremmo più tecnocratico’ e al sorgere di un ‘pluralismo amministrativo’ caratterizzato da ‘correlazioni di nuovo tipo fra momento politico e momento amministrativo'”. <659
E aggiunge Ginsborg: “Al posto di una struttura relativamente unificata per la gestione dei servizi pubblici crebbe così una serie di istituzioni semi-indipendenti, ognuna con la propria burocrazia, ognuna gelosa dei propri poteri e della propria sfera d’influenza. Le ragioni per la creazione di questa giungla amministrativa furono diverse […]. La necessità di evitare la mano morta della burocrazia tradizionale fu certamente importante, ma lo stesso può dirsi per il desiderio di creare nicchie di potere autonomo entro lo Stato. Fu durante il fascismo che si assisté alla crescita più impetuosa di questi enti autonomi; tra il 1922 e il 1940 ne vennero fondati 260, che andavano dal gigantesco Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), alle agenzie di servizi pubblici che costituivano il cosiddetto parastato, ai più piccoli enti che equivalevano a poco più di feudi privati”. <660
Questa ‘giungla amministrativa’, che nel 1947 arriva a contare 841 enti pubblici, centinaia di enti locali e il vastissimo sottobosco delle aziende autonome che amministravano trasporti e comunicazioni, formò numerosi corpi separati e paralleli dallo Stato, intrecciati col potere politico, alcuni di creazione fascista (più legati dunque al PNF che all’amministrazione), altri antecedenti.
Il parastato è dunque un soggetto plurale (o una molteplicità di soggetti) che è impossibile ignorare quando si affronta il tema del potere in Italia e della continuità, non limitabile ai soli vertici istituzionali. La conferma e la sopravvivenza in età repubblicana di questo sottogoverno burocratico, parallelamente al ruolo politico dei prefetti e al rimando nell’attuazione dell’ordinamento regionale, svuotarono ancora di più le istituzioni locali di funzioni e possibilità di intervento sui temi centrali dei servizi sociali e dell’intervento economico. Segno, ancora una volta, di una cultura del governo e dello Stato per molti versi a-democratiche. Ma non solo: l’esistenza di un potente politico finanziario-industriale al vertice e di una poderosa macchina parastatale con un ruolo centrale svolto dai privati, determinò una progressiva privatizzazione dell’interesse dello Stato e una parallela operazione culturale tesa a presentare come pubblici quelli che erano di fatto interessi privati: “da una parte abbiamo assistito ad un progressivo estendersi del settore pubblico dell’economia, dall’altra non solo ad un parallelo infittirsi della commistione fra pubblico e privato, ma alla tendenza a far battere in prevalenza l’accento, in questa commistione, sul privato. Il fenomeno non può essere definito soltanto nell’ambito del diritto, ma ha una dimensione economica […] e una dimensione ideologica. Mentre infatti l’ideologia del fascismo era statalista […], nel postfascismo è avvenuto che il capitalismo in ripresa si sia disinibito anche sul piano ideologico, e che una pubblica amministrazione rimasta vecchia e polverosa abbia perso credito e prestigio fino al punto che gli avviliti burocrati statali sono comparsi fra i più zelanti e sprovveduti propagandisti della superiore efficienza delle aziende private”. <661
Il quadro descritto ci permette alcune considerazioni conclusive: il sistema repubblicano conosce una convivenza di continuità, costanti di lungo periodo, policentrismo di poteri, stretta commistione tra potere politico-governativo, burocrazie dello Stato, interessi privati, élites locali; la cornice di sicurezza, strutturata attorno ai due poli del Viminale (quindi della polizia) e dell’esercito (con i carabinieri e il servizio militare), è innestata nella cornice giuridico-militare del TULPS e del Patto atlantico, con la loro carica ideologica anticomunista.
Da questo punto di vista, ha notato in modo estremamente critico Claudio Pavone che “la Democrazia Cristiana, lungi dal costituire una forza almeno potenzialmente eversiva in senso progressivo, finì col funzionare, proprio per quel carattere di massa di cui la borghesia non può più fare a meno per i suoi partiti, da strumento principale della salvaguardia della continuità dello Stato tradizionale, borghese, censitario, proprietario, conservatore e, a suo modo, risorgimentale”. <662
Sebbene il principio costitutivo sia l’esclusione delle sinistre dal sistema di potere, il policentrismo interno darà vita a numerose lotte intestine allo stesso ‘partito moderato’, al blocco economico sociale egemone e alla competizione tra apparati di sicurezza, dove l’anticomunismo originario a volte finirà quasi in secondo piano. Tuttavia, il contesto in cui nasce e che ne determina le linee costitutive è precisamente quella dualità di poteri conquistata durante la Resistenza dalle classi subalterne e il lungo ciclo conflittuale che si estende fino all’inizio degli anni Cinquanta, dove antagonismo sociale, rivoluzionarismo e sindacalismo restano fortemente intrecciati; le categorie interpretative della ferrea logica bipolare porta alla percezione distorta della conflittualità sociale e alla costruzione del ‘nemico interno’, in uno stato di emergenza permanente che, innestato sulle costanti di lungo periodo e sulla continuità col Ventennio, contribuiranno in modo determinante alla forma e alla cultura politica della repubblica post-fascista lungo tutta la sua storia.
[NOTE]
655 L. Bertucelli, Nazione operaia, op. cit., p. 99
656 Ibidem, p. 100
657 G. Melis, L’amministrazione, in R. Romanelli (a cura di), Storia dello Stato italiano, p. 222, Donzelli 2001, cit. in ivi
658 P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, pp. 193-94, Einaudi 1989
659 C. Pavone, Alle origini della Repubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Bollati Boringhieri, 2005, p. 156
660 P. Ginsborg, op. cit., p. 196
661 C. Pavone, op. cit., pp. 157-58
662 Ibidem, p. 66
Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016/2017