L’arrivo della divisione fascista “San Marco” in provincia di Savona

Altare (SV). Fonte: Mapio.net

“I Leoni della San Marco spazzeranno via tutti i ribelli e i traditori della Patria”. Con queste parole la stampa di regime annunciava l’arrivo imminente della nuova divisione, fiore all’occhiello delle Forze Armate repubblicane <90.
I 600 ufficiali e i 12000 sottufficiali e soldati della “San Marco” erano inizialmente comandati dal generale di brigata Princivalle, poi silurato il 23 agosto e sostituito dal suo pari grado Amilcare Farina (ex comandante del Centro Addestramento Reparti Speciali) per essere entrato in urto con i generali tedeschi von Lieb, comandante della divisione “Brandenburg”, Jahn, comandante del Corpo d’armata “Lombardia” e von Alberti, responsabile del DVK <91
(Deutsche Verbindungskommando, comando tedesco di collegamento; lo stesso von Alberti venne rimpiazzato da Hildebrand <92). La divisione constava di due reggimenti di fanteria e uno di artiglieria.
Ma vediamone l’organizzazione in dettaglio <93. I principali comandi e servizi divisionali furono posti fin dalla fine di luglio ad Altare, sulla strada Savona – Torino a dominio del Colle di Cadibona. Qui si trovavano il Comando di Divisione, gli ufficiali superiori addetti al Comando stesso e alle informazioni militari, il DVK con gli interpreti, due sezioni di polizia militare, il Tribunale divisionale (cui certo non mancò il lavoro), il 4° gruppo di artiglieria, una compagnia distaccata della GNR, la Gendarmeria e i principali servizi della divisione. Questi erano composti da un gruppo collegamenti che constava del comando di gruppo più due compagnie e una colonna leggera, un gruppo rifornimenti composto dal comando di gruppo, un plotone comando, una compagnia autieri, una compagnia rifornimenti, una compagnia officina e tre colonne di salmerie, un battaglione complementi su 4 compagnie più una compagnia comando, un battaglione raccolta su tre compagnie più la compagnia comando, e ancora due compagnie di sanità, un plotone autoambulanze, una compagnia di amministrazione, una compagnia panettieri, una compagnia macellai e una compagnia veterinaria. Il carcere militare aveva sede a Cairo.
Quanto ai reparti operativi, come accennato, erano organizzati in due reggimenti di fanteria, uno di artiglieria, un gruppo di esploratori ed un battaglione di pionieri. Il 3° gruppo Esploratori Arditi, unità d’élite comandata successivamente dai tenenti colonnelli Mario Baggiani e Vito Marcianò, aveva il proprio comando a Piana Crixia, tra Cairo e Acqui Terme, e si suddivideva in un reparto comando e tre squadroni. Il 3° battaglione Pionieri, affidato al capitano Suardi, si trovava a Ferrania, piccolo centro industriale non lontano da Altare, e contava, oltre naturalmente alla compagnia comando, su due compagnie e una colonna leggera. Il 5° Reggimento, comandato dal colonnello Alberto Serraglia, ebbe sede dapprima a Quiliano, poi, da settembre, al colle del Giovo, tra Albisola e Sassello; come l’altro reggimento di fanteria era composto da una compagnia comando e tre battaglioni di 5 compagnie ciascuno. Completavano il reggimento una compagnia di distruttori di carri e una colonna leggera. I suoi battaglioni erano così disposti: il I° (maggiore Antonio Zocchi; tenente colonnello Alfredo Cantella) a Varazze; il II° (maggiore Giuseppe Santoro; maggiore Marco Federico Nasso) a Stella, tra Albisola ed il Giovo; il III° (maggiore Enrico Modenesi; maggiore Giovanni Blotto) a Savona città. Il 6° Reggimento, al comando del tenente colonnello Cristoforo Palma e poi del colonnello Cesare Chiari, ebbe inizialmente sede ad Ortovero, nell’entroterra ingauno, poi fu trasferito a Calice Ligure. Il I° battaglione (capitano Carlo Mozzone; tenente colonnello Guido Falconi) si insediò a Finale Ligure (e avremo modo di rilevare il pesante giudizio che ne darà il Maresciallo Caviglia); il II° (capitano di fregata Luigi Uccelli) ad Andora, al di fuori della zona studiata dalla presente tesi; il III° (maggiore Giorgio De Zorzi), con sede a Calice Ligure, era formato da 5 compagnie di Cacciatori di Bande espressamente addestrati alla controguerriglia tra cui un ristretto nucleo d’élite che si guadagnò una fama sinistra con il nome di “Controbanda”. Infine, il 3° Reggimento di artiglieria, comandato dal tenente colonnello Giuseppe De Martiis poi rilevato dal maggiore Francesco Viviani, era situato a Cadibona ed era schierato su 4 gruppi: il 1° (capitano Gori) a Cimavalle, presso il capoluogo, e a Spigno Monferrato; il 2° (capitano Ildefonso Secchi) a Monte Cinto, poco sopra Savona; il 3° (maggiore Renato Andriani) a Santuario, sulla strada di Montenotte, e a Stella; il 4° (maggiore Ronchi; maggiore Viviani; maggiore Carobulo), come detto, ad Altare. Il tutto era accompagnato da una forte quantità di armamento e munizionamento, sostanzialmente paragonabile a quella di una divisione di fanteria della Wehrmacht.
La “San Marco” era inquadrata nel Corpo d’armata “Lombardia” del generale tedesco Jahn, facente parte a sua volta, insieme al 75° Corpo d’armata del generale Schlemmer, dell’armata “Liguria” posta a presidio del Nordovest <94. All’interno del Corpo d’armata “Lombardia”, di cui facevano parte anche le divisioni tedesche 34a e 148a e l’italiana “Monterosa” (anch’essa addestrata in Germania, come l'”Italia” poi mandata di rinforzo tra l’Emilia e la Lunigiana e la “Littorio” inviata a dar man forte al 75° corpo in Piemonte), la “San Marco” era incaricata della difesa costiera contro eventuali tentativi nemici di sbarco tra Genova ed Imperia e, naturalmente, della repressione del movimento partigiano nel quadrilatero Genova – Acqui Terme – Pieve di Teco – Imperia. Un magro destino, se paragonato con le reiterate promesse delle autorità della RSI, per mesi impegnate ad assicurare che le divisioni di Graziani sarebbero state inviate al fronte contro gli Alleati. In sostanza, la “San Marco” avrebbe dovuto occuparsi dei “lavori sporchi” che i tedeschi non intendevano sobbarcarsi più dello stretto necessario: sradicare la Resistenza e resistere ad oltranza ad un eventuale sbarco nemico in attesa che la 34a divisione tedesca, prudentemente schierata nell’interno, passasse al contrattacco. Un altro fondamentale compito dei “marò” era quello di tenere aperte le vie di fuga verso il Piemonte, tanto più che il Savonese presenta i valichi più agevoli e bassi di tutto il Ponente. La cruciale importanza di questo aspetto fu messa pienamente in luce dagli eventi occorsi nei giorni della Liberazione, quando la “San Marco” e due divisioni tedesche riuscirono a sfuggire sostanzialmente intatte dal Ponente, venendo alla fine bloccate solo nell’Alessandrino dai partigiani locali e dalla distruzione dei ponti sul Po.
La gestazione della “San Marco” era stata quantomeno drammatica. Fermamente voluta dal Maresciallo Graziani, desideroso di ricostruire le Forze Armate ma soprattutto di crearsi un suo spazio di potere nella complessa policrazia nazifascista, la divisione era stata formata con un modesto nucleo di volontari (reclutati tra gli ex ufficiali del Regio Esercito aderenti alla RSI, i militi, i marò della Decima Mas di Borghese) posti al comando di migliaia di uomini riluttanti, rastrellati a forza in tutta Italia o liberati dagli stalag a patto che accettassero di combattere per la RSI. E’ superfluo dire che nessun esercito avrebbe potuto nemmeno lontanamente raggiungere un’adeguata tensione morale con uomini così demotivati. Per la gran parte dei “sammarchini” la scelta era stata semplice e brutale: l’arruolamento o il lager. Particolarmente penosa era stata la situazione di chi, prigioniero in Germania o in Polonia dopo l’8 settembre, stremato dalla fame, aveva aderito alla RSI per salvarsi la vita e tornare in Italia, esponendosi senza dubbio alla riprovazione dei compagni di prigionia che conducevano una loro personalissima Resistenza fatta di silenzio e sopportazione. Si trattò comunque di una piccola minoranza dei settecentomila che languivano negli stalag: a tutti coloro che nemmeno l’opportunismo spinse all’adesione all’arruolamento per la RSI va dato atto che compirono una scelta coraggiosa e degna di essere ricordata come una delle pagine più nobili nella storia delle Forze Armate italiane.
L’addestramento della “San Marco”, curato da sottufficiali tedeschi nel campo di Grafenwohr (una sorta di lager attenuato dove gli italiani dovevano sottostare a tutta una serie di limitazioni, la più spregevole delle quali era l’assoluto divieto di stringere relazioni con donne tedesche) era stato durissimo: alcuni soldati non erano sopravvissuti alle esercitazioni, condotte alla maniera della Wehrmacht (e cioè con largo impiego di munizioni da guerra), e all’esaurimento psicofisico. Ad ogni modo, dopo molte settimane di marce, attacchi e contrattacchi nella neve e nel fango delle foreste tedesche, la “San Marco” aveva raggiunto un livello tecnico – militare precedentemente sconosciuto alle nostre Forze Armate. Il ritorno in Italia, preannunciato da una visita ufficiale del Duce, molto festeggiato, sembrava schiudere ai provatissimi “marò” la possibilità di sentirsi finalmente a casa. Ma la realtà si mostrò subito ben diversa. I rapporti della GNR e dello stesso generale Farina evidenziano a chiare lettere come le tradotte che riportavano in patria la “San Marco” non abbiano fatto una gita di piacere tra due ali di folla festante, come in molti speravano <95. La prima accoglienza fu ad opera dell’aviazione angloamericana, che mitragliò continuamente i convogli dal Friuli fino a destinazione, causando vittime e danni. Nelle stazioni i “marò”, che dopo mesi lontano dall’Italia si attendevano un caloroso benvenuto, erano trattati con gelida indifferenza, quando non con disprezzo o compatimento. Gli unici a mettere una buona parola erano spesso i brigatisti neri. Al passaggio dei convogli si accendeva talora una vera “guerriglia verbale” (così la definisce Pansa): ma sugli insulti prevalevano le esortazioni e gli ammonimenti (“siete carne da cannone”, “vi portano al macello”, “scappate”, “gettate la divisa”, “andate a casa”). Urtati da tanta franchezza, i più fascisti, ma non solo loro, diedero in escandescenze più volte e ne seguirono risse, pestaggi e violenze assortite. Ed era solo l’inizio, perché proprio sul morale scosso ed oscillante di questi uomini fece poi leva la Resistenza per indebolire la “San Marco”, con ottimi risultati, come vedremo. In ultimo, i “marò” furono sfavorevolmente impressionati dalla patologica inefficienza degli organismi militari della RSI, che contrastava nettamente con la rigorosa precisione tedesca cui gli uomini si erano assuefatti durante il lungo periodo di addestramento. Una volta giunti a Savona, a parte l’accorto ed assillante bombardamento propagandistico “disfattista” operato da sapisti, FdG e Gruppi di Difesa della Donna, i soldati della divisione dovettero persino assistere allo spettacolo dei tedeschi che si accompagnavano con donne italiane, mentre a loro, a Grafenwohr, era proibito qualunque contatto con le Fräuleinen locali: ne sortirono “spiacevoli incidenti” che misero vieppiù in luce lo scarso rispetto reciproco tra italiani e tedeschi. Neppure gli ufficiali godevano del rispetto loro dovuto dai colleghi della Wehrmacht: significativa in tal senso fu la dura presa di posizione del maggiore Giuseppe Santoro, comandante del II° battaglione del 5° Reggimento che in un suo rapporto al comando di reggimento datato 18 agosto 1944 <96 (poco prima di essere “silurato”) riferiva come gli uomini sottoposti al suo comando si fossero accorti che le deficienze dell’armamento e della logistica erano in gran parte da addebitarsi ai tedeschi. Il comportamento degli addetti al collegamento era “petulante”, le ingerenze “fastidiose”, le richieste “assillanti”.
Quanto agli altri militari tedeschi, se ne rilevava con amarezza la “fobia (…) nei nostri riguardi”, la “nessuna correttezza” e la “mancanza di ogni cortesia” verso gli ufficiali italiani. In conclusione, “non si [poteva] negare che i tedeschi [facessero] di tutto per non farsi benvolere”. Per di più, l’ufficiale di collegamento di Santoro, il tenente Moeller, pretendeva di essere consultato dall’ufficiale italiano (suo superiore in grado!) prima di prendere qualsiasi decisione. In aggiunta a queste meschinità, la “San Marco” dovette subito fronteggiare l’irriducibile ostilità dei partigiani savonesi di ogni colore politico, per nulla disposti a trattare con riguardo la divisione, che sapevano essere destinata a compiti quasi esclusivamente repressivi. Un primo assaggio di guerra civile lo ebbero ventidue “marò” del primo contingente dei furieri d’alloggiamento, circondati e disarmati da una pattuglia degli “autonomi” di “Bacchetta” il 24 luglio <97. Alla fine del mese ancora gli autonomi si resero protagonisti di una serie di “colpi” clamorosi che li imposero alla preoccupata attenzione delle autorità militari <98. I volontari del 1° battaglione autonomo “Rosso”, “Carnera”, “Boldri”, “Marco”, “Lino”e “Dino”, appostatisi alla stazioncina di Sella, tra Savona ed Altare, bloccarono un treno uccidendo nel corso dell’azione un soldato della Wehrmacht e facendo prigionieri tre tedeschi e altrettanti “sammarchini”. Negli stessi giorni un attacco condotto dai medesimi uomini contro il presidio della “San Marco” di Rocchetta di Cairo, acquartierato nella villa Dotta, requisita al comandante “Bacchetta”, portò alla cattura di numerosi prigionieri e al prelevamento di armi, munizioni, viveri ed equipaggiamento che furono trasportati a Pezzolo Uzzone, in territorio piemontese, dove si trovava il comando degli “autonomi”, che, a giudicare dai loro documenti, potevano già contare su circa cinquecento degli uomini che avrebbero avuto a disposizione per l’insurrezione finale <99. Infine, sempre movendo da Pezzolo, “Dino”, “Lino”, “Terribile”, “Vipera”, “Baldo” ed alcuni altri attaccarono il presidio “San Marco” di Cadibona, spargendo il panico tra i “marò” e ritirandosi con prigionieri, armi e materiale vario.
Da quanto narrato, si capisce come la presenza della “San Marco”, al di là della minaccia che pure costituiva, si sia rapidamente tramutata in una colossale opportunità di rifornimento e rafforzamento per il movimento partigiano savonese, fino al punto da creare un’inquietante forma di simbiosi bellica, grazie alla quale un flusso irregolare ma continuo di uomini e mezzi passava dalla divisione alla Resistenza, e ognuno dei due schieramenti trovava la sua ragione di vita nell’esistenza dell’altro e nella lotta reciproca. Una ben strana dialettica che portò in brevissimo tempo al nascere di tutto un piccolo mondo di imboscati, disertori, rinnegati, spie, informatori e provocatori, perché se da un lato un gran numero di “marò” passava con i partigiani, dall’altro i servizi di informazione della stessa divisione “San Marco” e delle varie polizie nazifasciste si facevano sempre più scaltri, ricorrendo a metodi via via più raffinati ed efficaci, come l’infiltrazione e il depistaggio, fino a creare all’interno dello schieramento antifascista un’autentica psicosi spionistica.
I garibaldini fecero conoscenza con i “marò” ai primi di agosto, quando, catturati qua e là alcuni di essi durante azioni isolate, realizzarono di avere di fronte una forza certamente temibile e ben addestrata, ma i cui uomini erano in buona parte inclini a “tagliare la corda ” o, ancora meglio, a passare nelle loro fila. Un’azione di propaganda rapida, efficace e decisa era necessaria al recupero dei molti “marò” desiderosi di disertare. Le SAP, il Fronte della Gioventù e i Gruppi di Difesa della Donna, cogliendo al volo l’occasione, entrarono in una fase di febbrile attivismo propagandistico. Le tipografie clandestine, come quella del Seminario di Savona, stamparono centinaia di volantini firmati dal CLN savonese, dal FdG e dallo stesso Corpo Volontari della Libertà, il comando nazionale interforze della Resistenza appena istituito a Milano <100. Comune a tutti i testi dei volantini era il richiamo al patriottismo antitedesco, con tanto di accenni al Risorgimento: nessuna argomentazione politica specifica, a parte l’odio per i fascisti al servizio dell’invasore. Le organizzazioni antifasciste cittadine ebbero subito grande successo nel tentativo di indurre i “marò” alla diserzione, il che indusse il comando divisionale ad imporre la vigilanza più spietata. Non mancarono le vittime della repressione fascista.

Cairo Montenotte (SV). Fonte: Wikipedia

Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet – La rivolta di una provincia ligure (’43-’45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000
[NOTE]

  1. Badarello – De Vincenzi, Savona insorge, Savona, Ars Graphica, 1973, p. 116.
  2. Cfr. G. Pansa, Il gladio e l’alloro. L’esercito di Salò, Milano, Mondadori, 1993, p. 201; G. Gimelli, op. cit., vol. II, p. 84; F. Pellero, Operazione Balilla, Savona, Sabatelli, 1997.
  3. G. Gimelli, Cronache militari della Resistenza in Liguria, Genova, Cassa di Risparmio di Genova e Imperia – La Stampa, 1985, vol. II, p. 230.
  4. Riportata in ibidem, vol. II, pp. 231 – 233, G. Gimelli, op. cit., ed. 1965, vol. II, pp. 84 – 85 e F. Pellero, Operazione Balilla… cit.
  5. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, pp. 7 – 9.
  6. G. Pansa, Il gladio e l’alloro… cit., pp. 202 – 206.
  7. Ibidem, pp. 209 – 210.
  8. M. Calvo, op. cit., p. 287; R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 301.
  9. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 295.
  10. Mia stima basata su dati estrapolati da M. Calvo, op. cit. All’atto della nascita della Brigata “Savona”, in ottobre, i volontari saranno solo 210, in quanto gran parte degli uomini che alla Liberazione risulteranno far parte della divisione autonoma “Fumagalli” combattevano in primavera in altre unità ed in un settore delle Langhe non ancora incluso nella zona partigiana savonese. Durante l’inverno del ’45, in effetti, la Seconda Zona operativa Ligure si dilaterà de facto verso le Langhe con la costituzione della “Fumagalli”, anche per fare da contrappeso al predominio garibaldino.
  11. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., pp. 117 – 118; G. Gimelli, op.cit., ed. 1965, vol. II, pp. 86 – 87.