La Duchessa, banda partigiana, derivò il suo nome dal gruppo montagnoso omonimo

 

La zona di Lucoli (AQ). Fonte: Wikipedia

La Duchessa <534, banda n. 7 del Raggruppamento Gran Sasso <535 – armata e «senza alcun colore politico» <536 – derivò il suo nome dal «gruppo montagnoso omonimo, di suggestiva bellezza e di difficilissimo accesso» in cui essa operò, a partire dai tre comuni di Sassa <537, Tornimparte <538 e Lucoli <539 nella provincia de L’Aquila, per poi «estendere le maglie della rete a tutte le località abitate facenti corona al massiccio Velino-Duchessa» <540.
[…] Cinque gli uomini – quattro ufficiali e uno studente di medicina – che dopo averla fondata ne ressero le fila per gli otto mesi successivi: il tenente medico Luigi Marrone <551, il sottotenente degli Alpini Orlando Colafigli, il sottotenente di Fanteria Mario Selli, l’allievo sottufficiale marconista Ugo Sciomenta <552 e Fernando Madrucciani <553. Dettagliati fin dalle prime fasi i moventi e gli scopi della banda, così descritti dal Marrone:
«I moventi ideali che affratellavano i componenti erano: la lotta ad oltranza contro i tedeschi e i fascisti; l’alimento della libertà in tanti cuori spenta, in tanti altri languente; la restituzione della fiducia in sé stessi ai militari bollato, non per loro colpa, del marchio di viltà. Con la fiducia in sé stessi sarebbe tornata la fede nelle fortune della Patria rinascente a nuova vita. Gli scopi da raggiungere erano: la distruzione più estesa possibile dell’esercito germanico e fascista (e da ciò atti di sabotaggio, azioni a mano armata, propaganda antifascista e antimussoliniana); la sottrazione dei militari sbandati alla ripresentazione alle armi, l’evasione dei giovani di leva dal servizio militare; l’assistenza morale alla popolazione; il sostentamento dei prigionieri fuggiti dai campi di concentramento» <554.
L’opera di reclutamento di elementi da includere nella banda partì però con grande difficoltà, facendo temere finanche un prematuro fallimento: nei primi mesi a più riprese il Marrone denunciò una difficoltà nel rinvenire aderenti, perché «troppo in basso era scaduta la volontà, troppo era abbattuto l’animo. Ci volevan tempo e lavoro per risollevare gli spiriti, ricostruire le coscienze» <555. Nei fatti, tra metà settembre e metà novembre si ebbero solo una quindicina di inserimenti a cui seguirono una stasi e finanche delle defezioni. Solo da inizio gennaio, per effetto «della politica di minacce, di rappresaglie, di ingiurie scatenate per radio e messa in pratica dai comandi regionali fascisti [e] l’occupazione di quasi tutti i villaggi da parte delle forze armate e di polizia germaniche, la cui condotta era la meno adatta ad accattivarsi gli animi che non fossero quelli di speculatori e di profittatori» <556, le fila della banda cominciarono ad ingrossarsi in maniera significativa.
Per il servizio di informazioni, la formazione partigiana si avvalse dell’opera di Mario Bafile <557 che, prima da L’Aquila e poi da San Marco in Preturo, strutturò <558 una fitta rete di collaboratori e di contatti estesa «all’alto bacino dell’Aterno, da S. Demetrio a Montreale; ed all’altipiano di Rocca di Mezzo» <559.
[NOTE]
534 Cfr. ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda La Duchessa.
535 Ivi, relazione di Marrone Luigi. Dipendente dal «Comando Raggruppamenti Bande Partigiane Italia Centrale» con a capo De Michelis Ezio. Cfr. ivi, anche Patrioti Marsicani.
536 Ivi, Banda La Duchessa, relazione sintetica della banda.
537 Frazione de L’Aquila a 7,87 km. ad ovest dal capoluogo, sito a 675 m.s.m. alle pendici dell’omonimo colle.
538 Comune in provincia de L’Aquila a 10,9 km. dal capoluogo, sito a 886 m.s.m. in una valle del versante nord-orientale del Monte Velino.
539 Comune in provincia de L’Aquila a 10,1 km. dal capoluogo, sito a 967 m.s.m. nell’alta valle del torrente Rio.
540 Ivi, relazione Raggruppamento Patrioti Gran Sasso – Banda n. 7 de «La Duchessa» a firma di Marrone Luigi (d’ora in poi relazione Marrone).
551 «Nei due giorni successivi all’armistizio aveva combattuto alla difesa di Roma, con la Divisione Granatieri di Sardegna», ibidem.
552 «Abbandonato l’8 settembre del 43 il servizio militare, feci ritorno da Milano al mio paese, dove per sottrarmi ai continui richiami da parte del governo repubblicano, mi diedi alla macchia con l’intenzione di dar vita ad una attività partigiana», ivi, relazione personale di Sciomenta Ugo.
553 Cfr. ivi, relazione Marrone.
554 Ibidem.
555 Ibidem.
556 Ibidem.
557 Nato a Tornimparte (AQ) nel 1899, ha svolto patriottica nella banda. Cfr. ivi, schedario patrioti. Il Bafile rientrò il 10 settembre a L’Aquila da cui si era allontanato nel 1936 per stabilirsi a Roma. Esente da obblighi militari e non avendo in alcun modo partecipato alle precedenti fasi di guerra, decise di dedicarsi «alla semplice attività informativa […] prima per proprio conto e poi in contatto con la “Duchessa” […] sebbene, in verità con risultati alla fine piuttosto modesti», in Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., pp. 238-239.
558 In collaborazione con l’ing. Filauro Ferdinando «che era tornato da Roma con me e si era stabilito presso i suoi Vecchi a S. Demetrio», ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda La Duchessa, memoriale di Bafile Mario del 15 giugno 1944.
559 Ibidem.
Fabrizio Nocera, Le bande partigiane lungo la linea Gustav. Abruzzo e Molise nelle carte del Ricompart, Tesi di Dottorato, Università degli Studi del Molise, Anno Accademico 2017-2018

Umberto Cialente
Nato a Roma il 4 marzo 1926
Banda della Duchessa, L’Aquila
“Credo che quella che combattemmo noi partigiani fosse una guerra giusta. Ma purtroppo in certi momenti fu anche una guerra sporca. Perché, anche se non volevi, ti costringeva ad ammazzare a sangue freddo, non per difenderti da qualcuno che ti puntava un’arma contro. A me è successo.
[…] II mio esordio come partigiano, a ripensarci oggi, fu davvero da incosciente. Davanti alla libreria Colacchi, in centro, si fermò un gippone tedesco con due soldati che scesero ed entrarono lasciando il loro mezzo incustodito. Io vidi sul sedile due mitragliatori: d’istinto aprii la portiera, li presi e scappai per via San Martino, trovando alla fine rifugio dentro un vecchio magazzino. Mio padre non era ostile alla mia attività. Mi lasciava fare perché gli bruciava ancora il divieto di mio nonno che aveva infranto il suo sogno giovanile impedendogli di andare in America. Mamma no, mamma era timorosa: avevo due sorelle, ma lei aveva paura di perdere il figlio maschio.
E non a torto, rischiavamo davvero. Tanto che a un certo punto a L’Aquila cominciarono gli arresti. Io però fui salvato da un caro amico d’infanzia, figlio di un fascista della milizia: “Umberto, domani la Gestapo ti viene ad arrestare”: era stato suo padre a dirgli di mettermi in guardia.
Così fuggii dalla città. Verso mezzanotte preparai un sacco da alpino che mio padre aveva riportato dalla Prima guerra mondiale, un sacco grande così con dentro un po’ di panni, un pezzo di pane e poco altro.
Presi la via del Monte Roio in cerca della banda della Duchessa, con cui in precedenza avevo avuto qualche contatto. Conoscevo la zona in cui operavano, ma non fu facile raggiungerli.
Verso le sei del mattino li trovai, riparati in capanne costruite con le canne. Mi unii a loro portando in dote uno dei mitragliatori sottratto ai tedeschi e una pistola che mi aveva dato mio padre. Rimanemmo lì per dieci giorni. I paesani e i boscaioli ci avvisavano dell’arrivo dei tedeschi e il nostro compito principale era quello di fare imboscate per sottrarre dai camion ciò che serviva di più: armi e munizioni. Non cercavamo lo scontro diretto perché da un punto di vista militare eravamo inferiori; io avevo il mitra ed ero fortunato, ma gli altri avevano il fucile da caccia o il moschetto. Quando trovavamo casse di munizioni per i mitra e i proiettili calibro 9 facevamo razzia […]”.
(a cura di) Gad Lerner e Laura Gnocchi, Noi, Partigiani. Memoriale della Resistenza Italiana, Feltrinelli, 2020

Il Marrone – più anziano in grado ed in età – assunse all’interno della banda l’incarico di collegare e coordinare i diversi gruppi, e su suo consiglio, l’organizzazione venne ad essere ideata a compartimenti stagni tali per cui «ognuno non doveva conoscere che i propri uomini e da questi essere conosciuto» <565. La misura cautelare fu motivata della forte preoccupazione che la cattura di uno potesse significare «la morte di tutti», soprattutto «la distruzione di famiglie e di interi villaggi» a seguito delle rappresaglie nazi-fasciste. Così solo il Marrone e i tre capigruppo, più il Madrucciani, restarono sempre in piena conoscenza di tutto quanto inerente la formazione, impegnandosi «con la loro parola, a tacere in tutti i momenti e per qualsiasi frangente» <566.
Dal punto di vista logistico la «speranza – allora per tutti certezza – che presto sarebbero arrivati gli alleati» e le difficoltà a reperire vettovagliamenti, ma anche alloggi in grado di dar riparo ai rigori dell’inverno, convinsero gli organizzatori a posticipare almeno fino all’inizio della primavera il trasferimento degli uomini alla macchia in montagna. Detta scelta, benché ai loro occhi del tutto motivata, di fatto comportò come conseguenza – e fu lo stesso Marrone a dirlo – «rimanere in paese, anche se questo richiedeva la massima prudenza e limitava notevolmente le azioni armate, per evitare le immancabili rappresaglie in danno dell’ignara popolazione» <567.
Un primo impegno per la banda fu diretto al reperimento armi <568: nella notte del 19 settembre ‘43 un ristretto gruppetto, guidato dal Colafigli, penetrò nella Caserma Allievi Ufficiali de L’Aquila, riuscendo a sottrarvi «dieci fucili mod. 91, tre mitra Beretta, tre casse di munizioni, sei pistole Beretta» <569. L’azione fu condotta con grave rischio per i partigiani dato che presso la caserma si erano acquartierate «le guardie già adibite alla custodia di Mussolini a Campo Imperatore, dopo la liberazione del quale esse, trasferitesi in città, avevano assunto un atteggiamento tedescofilo» <570. Non fu l’unica operazione del genere. La notte del 18 ottobre un più ampio drappello al comando sempre di Colafigli e comprensivo anche dei partigiani Giulio Marotta <571, Dante Aliucci e Giorgio Vespaziani <572, riuscì a trafugare dal Municipio di Lucoli alcune tra le armi in esso raccolte per essere consegnate ai tedeschi; a distruggere gli elenchi di leva e perfino a «bruciare il ritratto di chi aveva presenziato per venti anni a tutti i soprusi compiuti negli uffici d’Italia» <573. Da quando poi, agli inizi di dicembre, i tedeschi realizzarono un imponente deposito di munizioni e di esplosivo esteso per circa 10 chilometri lungo la strada che «da Genzano di Sassa mena alle Ville di Lucoli», le incursioni dei partigiani si ripeterono quasi ogni sera, coadiuvate dagli operai che vi lavoravano e con il concorso di due infiltrati della banda. A seguito di dette azioni, la banda entrò in possesso soprattutto di «ingenti quantità di munizioni di tutti i calibri, per tutte le armi; proiettili per Mauser, per Parabellum, per mitra, per cannoni, per obici, per mortai; bombe a mano italiane; bombe a mano tedesche […]; mine anticarro; dinamite»574. In un primo tempo il materiale sottratto venne ad essere occultato in un piccolo ripostiglio alle pendici del monte, successivamente fu trasferito «in un grande deposito costruito ad arte in alta montagna, in un sotterraneo sotto i ruderi di una casa diroccata» <575.
Al contempo la banda diede inizio ad un’intensa e perdurante opera di propaganda antifascista e antinazista presso le popolazioni, atta soprattutto a evitare che i giovani di leva e gli sbandati rispondessero ai reiterati appelli di chiamata alle armi del governo repubblicano di Salò, diffondendo allo stesso tempo il messaggio di radio Bari presso i contadini e gli allevatori della zona: «contadini, seminate quanto più potete; non una zolla incolta; non un chicco al nemico; Nascondete quel che potete! Sotterrate quel che non potete nascondere! Avviate il bestiame nei boschi!» <576. «Opera continua, indefessa, una lotta non cruenta» – la definì il Marrone – «ma altrettanto rischiosa, laddove incominciavano a pullulare i delatori» <577.
Fin dai primi mesi altrettanto attiva fu l’assistenza agli ex prigionieri alleati transitanti in zona dopo la fuga dai campi di concentramento abruzzesi. Venivano trattenuti, ospitati, trattata da amici, scrisse il Marrone, aggiungendo poi che alcuni vennero ad essere alloggiati presso contadini disponibili; mentre per chi volle proseguire, pur nelle estreme difficoltà nell’avventurarsi per montagne inospitali in condizioni climatiche avverse e con il continuo pericolo di rastrellamenti nemici, la banda fornì guide attraverso i valichi montani per superare le linee del fronte <578.
Proprio un rastrellamento di ex P.O.W.s [prigionieri di guerra alleati], portò a Lucoli il 27 settembre alle ore sette del mattino un reparto tedesco di trenta uomini: non appena smontati dai mezzi che li avevano condotti fin lì, «si divisero immediatamente in varie pattuglie e di corsa incominciarono a perlustrare i monti […] fermando e perquisendo tutti coloro che incontravano» <579. Il carabiniere Ugo Ammanniti <580 e l’alpino Benedetto Di Carlo <581, due partigiani del gruppo di Lucoli a cui avevano aderito da solo da due giorni – dopo aver disertato dai rispettivi reparti ed essersi dati alla macchia <582 – furono fermati da una pattuglia nemica in «località denominata “Fonte Arsura”», quindi uccisi. Il primo con un «colpo di arma da fuoco in corrispondenza dell’emitorace sinistro», il secondo con un colpo di mitraglia in corrispondenza della regione mascellare sinistra <583. Secondo il racconto del Marrone:
«Mentre si recavano, armati di sola pistola, in montagna a raggiungere gli altri, venivano sorpresi da un reparto tedesco. Era facile nel sottobosco evitarlo. Essi tennero fede agli impegni: anziché scampo sicuro nella fuga cercarono e affrontarono l’impari combattimento. Due uomini contro quaranta, con due pistole contro 40 armi automatiche. E caddero eroi ventenni, crivellati da raffiche di mitraglia» <584.
La morte dei due partigiani causò viva impressione tra la popolazione e rallentò di fatto l’adesione di nuovi elementi alla banda, tanto da far temere al Marrone e ai suoi «che tutto il lavoro fosse stato vano». Percezione per altro rafforzata sia dall’abbandono di alcuni uomini <585 che dalla presa di consapevolezza dell’arresto dell’avanzata alleata, mentre per contro i fascisti acquistavano terreno e nella «stessa città dell’Aquila si ricostituiva il fascio e la guardia repubblicana; affluivano reclute dall’Italia Settentrionale» <586.
In dicembre, a seguito della creazione del deposito «Manfred», venne istituito un comando in località Casavecchia di Lucoli presso cui vennero stanziati «un buon numero di soldati che man mano cresceva» <587. Iniziarono quindi da parte della banda gli atti di sabotaggio tesi a ritardare l’attività del deposito: nottetempo i partigiani presero a gettare lungo la strada di accesso blocchi di pietra, chiodi e frammenti metallici, i copri-spolette metalliche dei grossi proiettili, prima denudate e poi lasciate ad arrugginirsi per meglio servire allo scopo <588.
Nel gennaio il Vespaziani, grazie ai contatti del Madrucciani <589, riuscì a impiegarsi come interprete nel comando tedesco ed in questo modo la banda ebbe modo di conoscere le intenzioni, i movimenti, e le azioni dei nazisti. Gli inizi del 1944 segnarono anche la ripresa delle adesioni alla causa partigiana: secondo le stime dei tre capigruppo in ogni paese la disponibilità di uomini salì a 150 unità. L’inatteso incremento rivelò però anche l’insita debolezza della formazione: solo un decimo di essi era armato e nell’impossibilità di fornire a tutti l’adeguato equipaggiamento, si decise per il momento di mantenere attivo solo un numero ridotto di partigiani <590 e continuare azioni di piccola entità.
In questa fase i progetti del Marrone si concentrarono sulla necessità di porre le condizioni necessarie e sufficienti – in termini di armi, alloggi e vettovagliamenti – a rendere possibile in un futuro sempre più prossimo, l’avvio di una fase più incisiva in cui la banda avrebbe dovuto portarsi in montagna per compiere da lì attacchi in forze sul nemico, presidiando al tempo stesso i paesi per evitare rappresaglie. L’unica conclusione a cui giunse, nell’impossibilità di raggiungere simili obiettivi con le loro sole forze, fu che si rendesse necessario recarsi «a Roma dove doveva pur esserci un comitato centrale coordinatore del movimento partigiano» <591. Egli cominciò quindi a progettare un viaggio verso la capitale da compiersi il prima possibile.
Negli stessi giorni di gennaio, i tedeschi operarono un vasto rastrellamento in località Vaccamorta in cui erano stanziati i patrioti del gruppo di Sciomenta: ne seguì un combattimento serrato di impari forze che si risolse nella fuga dei partigiani e l’uccisione di un delatore. Costui ai primi del mese si era presentato, a Villagrande di Tornimparte con un compagno, un presunto comunista proveniente dalla «Venezia Giulia», ed a seguito delle numerose domande e della dichiarata intenzione di entrare a far parte della banda, erano stati entrambi affidati al gruppo di Sciomenta. Sottoposti a pressante interrogatorio da parte della banda, il sedicente comunista Giuseppe Siciliano <592, aveva infine rivelato di essere una spia al soldo nazi-fascista e come tale era stato immediatamente giustiziato, e il suo corpo sepolto in località Vaccamorta. Diversa sorte toccò invece al suo compagno che, continuando a professare la sua innocenza, era stato adibito a lavori manuali e tenuto sotto costante sorveglianza. Durante lo scontro a fuoco seguito al tentativo di rastrellamento, l’uomo, sfuggendo al controllo, si gettò in corsa precipitosa verso i tedeschi nell’evidente intento di trovar tra essi riparo: per tutta reazione fu bersagliato dal tiro dei partigiani fino ad essere ucciso <593.
[NOTE]
565 Ivi, Banda La Duchessa, relazione Marrone.
566 Ibidem.
567 Ibidem.
568 I mezzi materiali di cui allora disponevamo erano scarsi: solo qualche pistola che gli ufficiali avevano gelosamente custodita, simbolo del grado e dell’onore mai perduti. Cfr. ibidem.
569 Ibidem. Secondo quanto riferito dal Bafile: «alla Caserma Allievi Ufficiali i capitani Mario Lolli […] e Vincenzo Giglio furono molto solerti; armi e munizioni furono date a tutti coloro che le richiesero, ed ho ragione di ritenere che la maggior parte delle armi che sono passate più tardi nelle mani dei patrioti, uscirono dalla Caserma Allievi Ufficiali in quei giorni», ivi, memoriale di Bafile Mario del 15 giugno 1944. Questa versione dei fatti è solo in apparente contrasto con quanto riferito dal Marrone, in quanto, come ci ricorda Costantino Felice, «probabilmente, come di solito accadeva, viene sferrata un’azione dall’esterno con complicità dall’interno», in Costantino Felice, Dalla Maiella alle Alpi. Guerra e Resistenza in Abruzzo, cit., p. 240.
570 ACS, Ricompart, Abruzzo, Banda La Duchessa, relazione Marrone. La circostanza trovò conferma anche nel memoriale del Bafile secondo cui nella caserma «furono accasermate le guardie che erano state addette alla custodia di Mussolini e che scesero da Campo Imperatore giusto in quei giorni […] ed impiantarono subito una specie di corpo di guardia all’ingresso della Caserma ed assunsero un atteggiamento alquanto tedescofilo», ivi, memoriale di Bafile Mario del 15 giugno 1944.
571 Nato a Lucoli (AQ) il 12 febbraio 1923, alpino, ha svolto attività partigiana nella banda dal 15/09/43 al 13/06/44. Cfr. ivi, schedario partigiani.
572 Nato a Roma il 29 aprile 1922, aviere presso il 1° Rgt. Avieri Roma, ha svolto attività partigiana nella banda dal 15/09/43 al 13/06/44. Cfr. ivi, schedario patrioti e ivi, Banda La Duchessa, ruolino.
573 Ivi, relazione Marrone.
574 Ibidem.
575 Ibidem.
576 Ibidem.
577 Ibidem.
578 Cfr. ibidem.
579 Ivi, verbale della Legione Territoriale Carabinieri del Lazio del 29 settembre 1943, a firma del carabiniere Gelsomino Carmelo e del maresciallo maggiore Alonsi Ferdinando.
580 Nato a Lucoli (AQ) il 8 luglio 1922, allievo Carabiniere aggiunto nella III Compagnia Legione Allievi Roma, in licenza straordinaria in attesa di richiamo. Cfr. ivi, verbale della Legione Territoriale Carabinieri del Lazio del 29 settembre 1943.
581 Nato a Lucoli (AQ) il 14 marzo 1924. Cfr. ibidem.
582 Cfr. ivi, relazione Marrone.
583 Ivi, dal verbale della Legione Territoriale Carabinieri del Lazio del 29/09/1943, a firma del carabiniere Gelsomino Carmelo e del maresciallo maggiore Alonsi Ferdinando
584 Ivi, da relazione Marrone.
585 Tra essi Marotta Giulio che raccontò però una diversa versione: comandatogli dal Colafigli di superare le linee nemiche per prendere contatto con gli Alleati e rivelargli il luogo di stazionamento della banda e l’esatta dislocazione dei depositi di armi, munizioni e benzina nonché del concentramento di truppe nemiche, il Marotta tentò per due volte l’impresa ma senza successo. Catturato dai soldati germanici fu condotto al Comando Superiore tedesco di stanza a San Martino di Guardiagrele per essere interrogato e quindi destinato al lavoro obbligato. Solo la sera del 17 gennaio 1944 riuscì ad uccidere il milite tedesco di guardia ed a fuggire verso il Comando Alleato di Casoli. Infine raggiuntolo, fornì agli alleati le preziose informazioni. Rientrò all’Aquila il 1° agosto 1944 senza essere mai riuscito a riprendere contatto con i suoi compagni. Cfr. ivi, dichiarazione di Marotta Giulio, del 4 agosto 1944.
586 Ivi, relazione Marrone.
587 Ibidem.
588 Cfr. ibidem.
589 Riferì il Madrucciani: «Ebbi modo di conoscere il Tenente Smith August, comandante del locale presidio tedesco di Casavecchia di Lucoli, del quale cercai di accattivarmi la fiducia e l’amicizia – e credo di esserci riuscito – allo scopo di ottenere il maggior numero d’informazioni possibile e per una certa sicurezza mia e dei miei compagni in qualsiasi caso di emergenza, e per organizzare atti di sabotaggio a mano armata», ivi, dichiarazione di Madrucciani Fernando, allegato n. 26 alla relazione Marrone.
590 Gli altri «fu necessario tenerli solo presenti, alla mano», ivi, relazione Marrone.
591 Ibidem.
592 Il Colafigli Orlando ne annotò il nome completo, attribuendo il merito dell’arresto di entrambi al sergente maggiore Fischioni Ennio. Chiamato dai suoi sottoposti per interrogare i prigionieri, il Colafigli giunse quando ormai costui era già stato giustiziato perché reo confesso di spionaggio. Cfr. ivi, Banda Alcedeo, dichiarazione di Colafigli Orlando, del 2 novembre 1944.
Fabrizio Nocera, Op. cit.