Nelle valli del Canavese si trovavano militari sbandati e soldati stranieri in fuga dai campi di concentramento

Ivrea. Fonte: Wikipedia

Il 2 gennaio 1944 a Castellamonte arrivano i fascisti della G.N.R. e per tre giorni arrestano civili sospetti, tra questi anche membri del CLN locale: incarcerati ad Ivrea, per mancanza di prove verranno rilasciati. Dal 4 scontri nelle Valli di Lanzo, dove ci sono “bande” in varie località. […] Il 18 i nazifascisti ritornano in Valle e sono di nuovo attaccati, subendo altre perdite; dopo sparatorie e saccheggi, incendiano tutte le case di Traves. Il 4 Mussolini emana un decreto con la confisca dei beni agli Ebrei e pene severissime per chi li aiuta. Da Torino fuggono le famiglie di ebrei e le deportazioni e gli eccidi cominciano a trapelare, cresce l’orrore per questi crimini e si rafforza la volontà di lotta. Anche il clero prende le distanze dal regime, nasconde ebrei, difende la popolazione e collabora con le forze della Resistenza In Canavese affluiscono ebrei per fuggire in Francia e Svizzera attraverso i valichi, aiutati da partigiani pratici; altri vengono nascosti anche per mesi in canoniche e da privati. A Vico, Succinto, Vistrorio giungono famiglie ebree, alcune arrestate come tutta la famiglia Ancona, dal federale Mancinelli e deportate a Bolzano e in Polonia; altre con l’aiuto della popolazione fuggono in montagna e si rifugiano in Svizzera. Gli ebrei sulla Serra vengono integrati nei partigiani della 76^ Garibaldi. All’Olivetti di Ivrea parte dei dirigenti sono ebrei, come lo stesso Camillo Olivetti, e lavorano e vivono sotto falso nome come Riccardo Levi; sono poi aiutati ad espatriare da impiegati e ingegneri: “Alimiro” organizza all’interno della ditta nuclei di assistenza. Gli ebrei sono inviati a Banchette dal parroco don Gribaldi, rimasti in cantina anche mesi. Pure dalla famiglia Clement e in una loro baita ad Issiglio, Rosina poi accompagna costoro, e anche alcuni Olivetti, con autista e camion della ditta a Como, dove navigando il lago espatriano a Chiasso; altri li accompagna a Gressoney la Trinitè per sconfinare poi in Svizzera. Arrivano anche da Novara, Milano su camion Olivetti e “Alimiro” li conduce a Champoluc e poi al confine. Per evitare la chiusura della fabbrica, si arriva al compromesso che l’intera produzione vada ai tedeschi. All’azienda Olivetti le SAP (Squadre d’Azione Patriottica), suddivise in gruppi di 20-25 in base alle varie formazioni, sono collegate al C.L.N. di Ivrea, i cui membri sono gli stessi dirigenti e impiegati della ditta, come Guglielmo Jervis, che arrestato a marzo sarà poi fucilato ad agosto ’44; le SAP operano per la Resistenza con scioperi, raccolta fondi, difesa della fabbrica, che i nemici vogliono far saltare con la dinamite, compiono sabotaggi, eliminazione spie e molte donne diventano staffette per i gruppi partigiani. La ditta Genisio di Cuorgnè aiuta gli ebrei con tesserini come dipendenti ed aiuta la famiglia Foa, trasferitasi a Cuorgnè e poi a Canischio; qui purtroppo viene denunciata e portata ad Auschitz: il bimbo è nascosto ed allevato da Mamma Tilde, solo la mamma tornerà dal lager. La famiglia Segre nell’inverno si rifugia a Chiaverano, ma nell’estate è costretta a fuggire in Svizzera. In questi giorni nella sola provincia di Aosta (di cui il Canavese fa parte) 105 persone di origine ebrea vengono catturate e inviate nei lager tedeschi. Tantissimi sono i catturati a Torino.
Alida Guglielmino, Venti mesi di lotta partigiana nel Canavese. 1943-1945, ed. in pr., 2022

Nel 1941 rientrò dalla Francia anche Giovanni Chabloz, che a Parigi era segretario di un’organizzazione degli antifascisti emigrati ed era stato reclutatore di volontari per la Spagna. Venne assunto alla Cogne dove prese contatto con gli altri ed era incaricato dal PCI clandestino di tenere i collegamenti con il Canavese e Torino. In questo periodo venne assunto anche Sergio Graziola che era in contatto con il Comitato federale del PCI di Biella. Oltre a questi appena citati bisogna aggiungere: Silvio Gracchini, Romano Biasiol, Giuseppe Chappellu e Nazzareno Chiucchiurlotto. Tramite Lino Binel e Antonio Caveri, Lexert e Manganoni allacciarono contatti con Émile Chanoux e con la Jeune Vallée d’Aoste di cui entrarono a far parte come rappresentanti del PCI. Insieme portarono avanti azioni dimostrative che attirarono l’attenzione delle autorità fasciste.
Simona D’Agostino (Ricercatrice della Resistenza in Valle d’Aosta), Il ruolo degli operai della Cogne nella Resistenza in Aa.Vv., Atti del Convegno “Due giornate per non dimenticare” (26 agosto – 6 settembre 2014), Associazione dei musei di Cogne – ANPI Valle d’Aosta, 2014

Riccardo Levi, ingegnere della ditta Olivetti di Ivrea, antifascista appartenente a Giustizia e Libertà e fratello del più noto Carlo Levi, prima di nascondere la moglie e i figli a Torrazzo, trovandosi l’8 settembre 1943 in vacanza in Valle d’Aosta si era messo subito alla ricerca di un luogo sicuro dove sostare momentaneamente con la famiglia <56. Dopo aver ritoccato le carte di identità, i Levi si fermarono nel paese di Gaby, ma appena credettero di aver trovato una stanza, si videro subito costretti a ripartire. Secondo Giovanni Levi, i suoi genitori giudicarono compromessa la permanenza nel paese valdostano, poiché il fratello maggiore Andrea non era stato capace di mentire a un’affittuaria indiscreta. Racconta Giovanni Levi: «Siamo scappati lì [a Gaby] e avevamo modificato i documenti in “Clevi” in maniera molto rozza. Comunque arrivati lì, mia madre stava disfando le valigie – avevamo trovato una casa – e mia madre ha sentito mio fratello che discuteva con la padrona di casa – nel 1943 mio fratello aveva sei anni – e la proprietaria di casa diceva: “Ma voi vi chiamate Clevi, Clevi per davvero?”, e mio fratello che non dice mai le bugie ha detto: “Clevi, Clevi, no, ma quasi…”. Allora mia madre ha chiuso le valigie e ce ne siamo andati. <57 I Levi dovettero peregrinare per diverse settimane prima di trovare stabile rifugio a Torrazzo Biellese dove i tre fratelli insieme alla madre – il padre Riccardo nel frattempo era entrato nella Resistenza – vissero come sfollati con il cognome di «Cardone» fino alla fine della guerra: «E allora noi siamo scappati immediatamente e siamo stati ospitati da una signora che non ci voleva assolutamente, che era la madre di un collega collaboratore di mio padre dell’Olivetti, a Stresa sul Lago Maggiore, vicino a Meina dove c’è stato l’eccidio. Stavamo lì nascosti senza documenti, con questa signora terrorizzata che non ci dava da mangiare; era spaventatissima in questa Villa sul lago, aspettando che alla Olivetti si producessero dei documenti falsi attendibili, e dopo un mese ci hanno procurato i documenti e ci chiamavamo Cardone – Cardone era il nome del nostro mezzadro in Liguria, si chiamava Napoleone Cardone – e allora per avere un parente, ci siamo chiamati Cardone. Ci siamo trasferiti in questo paesino della Serra di Ivrea, nel canavese, che si chiama Torrazzo Biellese, e siamo stati lì per un anno e mezzo» <58.
[NOTE]
56 L’8 settembre 1943, Riccardo Levi, con la moglie, Irma Della Torre, e i tre figli Andrea, Giovanni e Stefano – nati rispettivamente nel 1937, 1939 e 1942 – si trovava a Champoluc, in Valle d’Aosta. Grazie ad un amico, il valdese Guglielmo Jervis, anch’esso ingegnere dell’Olivetti, nonché futuro eroe della Resistenza in Piemonte, tutta la famiglia Levi venne condotta a Gaby, un paese situato nella valle parallela a quella di Champoluc (la Valle del Lys) considerata più sicura da eventuali rastrellamenti tedeschi.
57 Intervista a Giovanni Levi, Venezia, 12 marzo 2008. Andrea Levi, ha dato un’altra versione dell’accaduto: «La storia è un po’ questa. Noi eravamo a Champoluc. A Champoluc, un po’ più a valle c’è Brusson. A Brusson però – questo me l’ha raccontato mia madre dopo – era troppo piena di ebrei e quindi un posto in cui era troppo facile che i tedeschi facessero una retata e quindi ce ne andiamo. Jervis ci ha portato nella Valle del Lys, a Gaby, e lì i miei genitori mi hanno accusato – credo falsamente – di aver rivelato che eravamo ebrei all’albergatrice… fatto sta che in realtà era successo questo: mio padre che stava cercando di affittare per un cugino un alloggio oltre a quello in cui abitavamo noi, ma è arrivato un maresciallo o un funzionario del regime fascista e dice “No lei non conta niente, è ebreo e l’alloggio lo prendo io” allorché mio padre ha detto “Macché ebreo!, non siamo sicuramente noi!”. Però il giorno dopo ce ne siamo andati. Intervista ad Andrea Levi, Genova 13 novembre 2008.
58 Intervista a Giovanni Levi, Venezia, 12 marzo 2008.
Paolo Tagini, “Le prefazioni di una vita”. I bambini ebrei nascosti in Italia durante la persecuzione nazi-fascista, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Verona, 2011

Nel Canavese, per esempio, nel 1943 il direttore della clinica psichiatrica di San Maurizio era il professor Carlo Angela. Sposato, con figli, aveva un passato come antifascista ed era noto alle autorità locali. Nonostante questo, quando i coniugi Nella Morelli e Renzo Segre gli chiesero aiuto, aprì loro le porte della clinica. Fu il primo gesto di una Resistenza civile che proseguì nel corso di tutta la guerra e che salvò la vita agli uomini e alle donne che bussarono alla sua porta. Angela accolse parecchie richieste e si fece garante dei suoi “ospiti” anche in condizioni estreme. Scrive Anna Bravo che si realizzò con lui il paradosso «per cui l’istituzione totale psichiatrica salvò dall’istituzione totale assoluta che è il Lager». Costretto dalle autorità a segnalare gli ospiti della clinica, compilò false cartelle cliniche attribuendo gravi psicosi ai degenti di origine ebraica. Devono a lui la loro salvezza, tra gli altri, i già citati Nella e Renzo Segre, Donato Bachi, Nino Valobra, Oscar Levi, Guido Cavaglion, Aldo Treves, la famiglia Fiz, Lyda Ghiron Ottolenghi e la figlia Laura. Nel 2001 Carlo Angela è stato insignito della medaglia di “Giusto tra le nazioni” attribuitagli dall’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme.
[…] Negli ultimi mesi del 1943 furono numericamente pochi gli episodi di violenza e si concentrarono su quei territori in cui la Resistenza armata aveva cominciato a organizzarsi precocemente: si trattava nello specifico delle valli del Canavese, dove si trovavano militari sbandati e soldati stranieri in fuga dai campi di concentramento, e della valle di Susa, particolarmente importante dal punto di vista militare per i collegamenti con la Francia, sia attraverso la ferrovia Torino-Modane sia attraverso le strade che conducono ai valichi del Moncenisio e del Monginevro.
Forno Canavese
Autori: B. Berruti
A Forno Canavese avvenne la prima strage nazifascista compiuta nelle valli del Torinese. Dal mese di settembre sopra Forno Canavese, sulle pendici del Monte Soglio, si era organizzata una banda partigiana ritenuta dai tedeschi una minaccia grave, sia per il numero dei componenti sia perché ne facevano parte militari italiani e anche soldati alleati fuggiti dai campi di prigionia situati sul territorio. Il 7 e l’8 dicembre i tedeschi con forze notevoli e con armamento pesante attaccarono i nuclei partigiani, disperdendoli e facendo molti prigionieri. 18 di questi, radunati presso la Casa del fascio furono passati per le armi davanti a circa 150 civili, costretti ad assistere alla fucilazione dei partigiani. Gli ufficiali tedeschi ammonirono gli astanti circa la fine che avrebbero fatto in nemici del Reich e li obbligarono a seppellire i corpi dei caduti in una fossa comune.
(a cura di) Aa.Vv., Il Piemonte nella guerra e nella Resistenza: la società civile (1942-1945), Consiglio Regionale del Piemonte, 2015

Intorno a Torino intervennero a sostegno degli scioperanti le formazioni partigiane. Quelle insediate ad ovest della città avevano l’obiettivo di interrompere i collegamenti tra Torino e le valli di Lanzo, la Val di Susa, la Val Sangone e la zona di Pinerolo. L’attività dei partigiani si estese fino a pochi chilometri dalla città di Torino. All’imbocco della Valle di Susa, territorio di competenza della 17a brigata Garibaldi “Felice Cima”, i partigiani intervennero a sostegno dello sciopero: “il primo corrente mese, in Condove, per imposizione dei ribelli, gli operai delle officine Moncenisio si astennero dal lavoro; il primo corrente mese, alle ore 7,30, in Sant’ Ambrogio, 53 operai (uomini e donne) delle S.A. Conceria Val di Susa non si sono presentati al lavoro; lo stesso giorno, in Sant’Ambrogio, l’astensione si è verificata anche nello stabilimento S.A. Manifattura fornitura cotoni, ove delle 400 operaie occupate, si presentarono solamente 15 tutte residenti in Sant’Ambrogio. Si ritiene che le strade conducenti agli stabilimenti siano state bloccate dai ribelli; i partigiani in Valle di Susa, nel Canavese e in Val Sangone bloccano i treni verso Torino impedendo così alle maestranze di raggiungere il lavoro” <196.
[…] Il comandante militare regionale del Piemonte, Montagna, scriveva a Mischi (Capo di Stato Maggiore dell’esercito di Salò) il 15 giugno dicendo che “allo stato attuale delle cose, la nuova chiamata di classi è un errore perché serve soltanto a rafforzare le forze ribelli”, segnalava poi il 21 giugno come “la voce del popolo ironizza dicendo che i richiami sono stati fatti per fornire i battaglioni complementi ai ribelli, ed è così, come dimostrano le prime segnalazioni dai distretti. In taluni comuni del Canavese, manifesti murali ringraziano il ministro della FF.AA del nuovo contingente di uomini forniti alle bande” <232.
[NOTE]
196 Archivio fondazione Micheletti di Brescia, bollettini della Gnr, ora presso l’Istituto storico della Resistenza di Torino
232 Pansa, Il gladio e l’alloro, cit., p. 131
Marco Pollano, La 17a Brigata Garibaldi “Felice Cima”. Storia di una formazione partigiana, Tesi di laurea, Università degli Studi di Torino, Anno Accademico 2006-2007

Il partigiano Giuseppe Carrino venne ucciso in un’imboscata a Trausella [in oggi facente parte della città metropolitana di Torino] il 31 marzo 1944, dopo aver partecipato ad un’azione presso le miniere Fiat di Traversella per confiscare dinamite, olio, micce e soprattutto benzina, molto importante per le azioni del gruppo. Faceva parte di una brigata giellista, la VI Divisione Alpina, comandata da Mario Costa (nome di battaglia Diavolo Nero). La Brigata venne individuata e attaccata dagli uomini del federale fascista Pietro Mancinelli nei pressi del Ponte di Trausella. Mario Costa, lievemente ferito, riuscì a fuggire, mentre nel conflitto a fuoco persero la vita Michele Cena, Giovanni Castelletto (entrambi di Feletto) e Giuseppe Carrino di Nardò [provincia di Foggia].
Redazione, 31 marzo 1944, un partigiano di Nardò. Un giovane neritino nei luoghi dove venne ucciso Giuseppe Carrino, portadiMare, 31 marzo 2020

Il 4 aprile 1944 avendo concordato il prelievo di armi col maresciallo della caserma di Castellamonte, i partigiani garibaldini del “Diavolo Bianco” qui si recano, ma essendo assente il comandante, devono prenderle con la forza; catturano sei carabinieri e portati a Corio saranno passati per le armi.
Il 7 eccidio di Caluso – I repubblichini prelevano dalle carceri di Torino 18 partigiani, dei quali 2 riescono a fuggire, e li fucilano in piazza a Caluso alla presenza obbligatoria della popolazione e degli scolari; ferito alla testa e svenuto “Oscar”, garibaldino della “Cuneo”, è creduto morto dai nemici, invece soccorso viene curato all’ospedale locale e inviato da una suora a S. Giusto da don Scapino.
Il 7 ad Arè le Camicie nere catturano un giovane e sparano ad un civile nel cortile della sua casa.
I fascisti si distinguono per crudeltà e fanno sempre più vittime con l’aiuto di spie.
I partigiani prelevano militi in borghese, spie, le processano ed eliminano.
Le SS rastrellano tutte le valli e per tutto il mese, specie sulla Serra, a Montalto, Ivrea.
Il 13 Scontri ad Ozegna tra la squadra “Losna” di “Walter” e una pattuglia fascista.
Il 15 “Piero Piero” con sei uomini, travestiti da repubblichini, ferma una macchina sulla Torino-Milano e mentre sta per far prigioniero un ufficiale arrivano altri automezzi, i partigiani uccidono i due tedeschi e riescono a fuggire; al pomeriggio altra imboscata con cattura di due fascisti ed un automezzo.
Alla squadra di “Piero Piero” si unisce il gruppo di “Trin” (Dante Ardissone) già ben armato, e in questo mese entrano a far parte del gruppo “Sale” delle Matteotti e Piero ha il comando del Gruppo d’Azione di pianura. Lo scopo è di fornire armi, mezzi e viveri per le formazioni: quindi assalta convogli nemici e tende imboscate lungo l’autostrada, recupera materiale e armi, assalta gli ammassi di grano dei tedeschi e fascisti. Ad aprile si trasferisce dalla Val d’Aosta a Salto di Cuorgnè Italo Rossi col fratello Francesco e una trentina di uomini, saranno poi la 1^ brigata Matteotti.
Il 13 a Corio è giustiziato per tradimento il Comandante della 47^ Brigata “Monzani” Nicola Prospero: trattative col nemico, cessione di 300, poi ridotti a 160 partigiani in ostaggio, da internarsi in un campo a Monza, in cambio creazione di un’ampia zona franca e mezzi per opporsi alle formazioni garibaldine; le opinioni sono discordanti, comunque al funerale riceve l’onore delle armi nazifasciste; viene giustiziato anche padre Squizzato.
l 21 rastrellamenti ai garibaldini a Corio, al Cudine, fino al colle del Bandito – Fallito il piano, i nemici effettuano un massiccio rastrellamento e i combattimenti infuriano ovunque: molti i morti e feriti partigiani.
Il 25 ingenti forze rastrellano Forno e dintorni, dove i garibaldini del “Monzani”, riorganizzati da Maggi, combattono per vari giorni, finchè hanno munizioni. Le truppe da Levone, Rivara e Forno si spingono poi verso Pian Audi; i partigiani richiedono al C.L.N. un lancio Alleato di armi pesanti, a cui ne seguiranno molti; il 29 il lancio viene però compromesso a causa della battaglia del Monte Soglio, nella quale dopo intensi combattimenti i partigiani devono sganciarsi, subendo morti e feriti: 17 uccisi e 20 dispersi, tutti del battaglione “Monzani”.
Dal 24 a metà maggio anche massicci rastrellamenti in Valle di Lanzo – Una pattuglia dell’80^ Brigata oltre Chiaves, cade in un’imboscata; i combattimenti infuriano ovunque da Chiaves a Traves, da Mezzenile a Ceres, a Viù: finite le munizioni i partigiani devono sganciarsi, vi sono gravi perdite. L’80^ istituisce pattuglie per tener sgombra la strada per Coassolo, importante per il rifornimento di viveri. Il comandante di distaccamento, Giovanni Burlando “Primula Rossa”, diventa Comandante della 80^ Brigata d’assalto Garibaldi a Corio.
Il 22 aprile il “Diavolo Nero” (Mario Costa), eroe leggendario, viene circondato e ucciso a Torino a causa di una spiata. Il comandante “Bellandy” prende questo gruppo e oltre alla base di Canischio, ne sceglie un’altra a Ribordone nelle frazioni ed al santuario di Prascodù e prepara in alta valle un campo di lancio per ricevere i promessi aviolanci americani; nell’estate sarà la VI Divisione G.L., di cui una brigata sarà la “Mario Costa”.
Alida Guglielmino, Op. cit.