L’immagine dell’Urss venne abilmente rinnovata

Per quasi vent’anni, la Russia comunista fu principalmente impegnata nell’assestamento del nuovo ordine interno, della sua economia e della società, piagate da una profonda arretratezza e dai costi materiali e umani della Prima guerra mondiale e della stessa Rivoluzione d’Ottobre. Le forze bolsceviche sconfissero prima i “nemici della rivoluzione”, cioè le armate bianche degli zaristi e le forze occidentali, poi la Repubblica di Polonia, che voleva recuperare territori persi secoli prima. <1 Con l’istituzione da parte di Lenin della prima Internazionale comunista nel 1919, si ebbe l’ultimo atto dei bolscevichi verso l’esterno prima di un quindicennio: grazie all’incontro dei rappresentanti di 69 partiti operai da tutto il mondo, la posizione della Russia come faro del comunismo mondiale venne consolidata, così come la guida ideologica del Partito comunista russo, che rappresentava il modello da seguire per ogni partito che volesse definirsi comunista.
Nel 1922, dopo la presa del potere da parte dei bolscevichi locali, ex territori dell’Impero zarista quali Ucraina, Bielorussia, Georgia, Armenia e Azerbaijan si unirono alla Repubblica russa, dando vita all’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, l’URSS. La costituzione del 1924 consolidò la nuova struttura e i rapporti di forza che la gestivano: la rivoluzione comunista si era ormai assestata in una dittatura del Partito, andando a creare un regime totalitario fra i più centralizzati e sanguinari del mondo, gestito con assoluta spietatezza da Josip Djugasvili, detto Stalin, nominato segretario generale del PCUS (Partito Comunista dell’Unione Sovietica) alla morte di Lenin.
Stalin decise di concentrarsi sul “socialismo in un solo paese”, teoria che accantonava l’idea della rivoluzione permanente mondialista delle frange comuniste più estreme, permettendo all’Unione Sovietica non solo di ricevere il riconoscimento diplomatico delle potenze europee, evidentemente sollevate dal cambio di rotta impresso al baluardo del comunismo dal leader sovietico, ma soprattutto di rendere l’URSS una grande potenza industriale e militare in un lasso di tempo impensabile per gli Stati democratici. In un periodo in cui le economie capitaliste soffrivano il crollo della borsa di Wall Street, il primo piano quinquennale (1928-1932) di Stalin portava la produzione industriale ad aumentare del 50%, con picchi del 200% nell’industria carbosiderurgica, e gli addetti all’industria di oltre 2 milioni; con il secondo (1933-1937) la produzione aumentò di un altro 120%, e gli operai di oltre 5 milioni. Il tutto, ovviamente, con enormi costi umani e sociali. <2
Oltre alla crisi economica, per l’Europa erano anche gli anni del dilagare dei fascismi: l’Italia di Mussolini, la Germania nazista, Primo de Rivera (e poi Francisco Franco) in Spagna; e ancora i regimi autoritari di Ungheria, Polonia, Austria, Bulgaria, Portogallo, Grecia e Romania. In questo panorama l’Unione Sovietica, stato socialista per eccellenza, appariva come la più forte speranza per l’antifascismo internazionale. Quasi a voler adottare formalmente questo ruolo, mentre Hitler ritirava la Germania dalla conferenza di Ginevra e dalla Società delle Nazioni, l’Unione Sovietica entrava in quest’ultima e stipulava un’alleanza militare con la Francia. Questo perché i progetti della Germania nazista per la Russia erano ben noti: essa sarebbe diventata lebensraum, “spazio vitale” per uno sviluppo ulteriore degli ariani tedeschi, a scapito degli untermensch, i “popoli inferiori” che la abitavano da sempre, ovvero i russi e, più in generale, le popolazioni slave. Chiamato in causa dalle mire tedesche, Stalin si rese conto prima di altri leader europei della minaccia che il nazismo e i fascismi suoi alleati costituivano. La svolta della politica estera sovietica fu quindi radicale: oltre alle due adesioni sopracitate, venne dichiarata una tregua dalla lotta frontale contro le “democrazie borghesi”, mobilitando i comunisti europei ad unirsi a socialisti e democratici in fronti popolari, per arginare elettoralmente e socialmente il rischio dell’instaurazione di governi fascisti, o di estrema destra, in quegli Stati che erano ancora democratici.
Se da un lato i fronti popolari diedero nuovo entusiasmo ai movimenti operai europei, consentendo la formazione di governi socialisti in paesi come Francia e Spagna, dall’altro non impedirono le conseguenze a lungo termine della minaccia fascista. Nel 1936, un colpo di Stato dei nazionalisti fece precipitare la Spagna in una sanguinosa guerra civile che durò tre anni. Guidati dal generale Francisco Franco, essi riuscirono a sconfiggere la resistenza repubblicana soprattutto grazie agli aiuti militari forniti da Germania e Italia, che inviarono migliaia di uomini e mezzi alla causa del caudillo, con l’obiettivo di avere un alleato in Spagna e di mettere per la prima volta davvero alla prova le capacità belliche del regime nazista. Francia e Inghilterra, in osservanza alla politica di appeasement portata avanti fino a quel momento, si guardarono bene dal fornire aiuto alla causa del fronte popolare spagnolo. Solo l’Unione Sovietica si mobilitò per evitare che un altro regime fascista sorgesse in Europa, rifornendo il legittimo governo spagnolo di materiale bellico, che si fece prontamente pagare, e promuovendo la formazione di Brigate internazionali di volontari, aperte agli antifascisti di tutti i paesi, che combatterono strenuamente contro le milizie di Franco, senza però raggiungere la vittoria. Pochi mesi dopo, gli schieramenti che si erano delineati in Spagna si fronteggeranno nella Seconda Guerra Mondiale: le democrazie occidentali e il regime comunista sarebbero stati alleati per l’ultima volta. <3
[NOTE]
1 E. J. Hobsbawn, Il secolo breve. 1914/1991, Biblioteca Universale Rizzoli, 2004, pp. 46-85
2 E. J. Hobsbawn, op. cit., pp. 90-120
3 E. J. Hobsbawn, op. cit., pp. 174-194
Vincenzo Stuppia, Operazione Stay-Behind: la difesa segreta della NATO in Europa occidentale durante la Guerra fredda, Tesi di laurea, Università Luiss, Anno Accademico 2021-2022

La lunga resistenza di Madrid fu possibile anzitutto grazie agli aiuti provenienti dall’Unione Sovietica. Questa, inizialmente, aveva aderito all’accordo di non intervento siglato dalle altre potenze europee, ma quando divenne chiaro che in seguito a una vittoria dei franchisti la potenza di fuoco impiegata in Spagna dalla Germania nazista sarebbe stata reindirizzata verso un ipotetico fronte orientale, Mosca decise di schierarsi a fianco dei repubblicani asserragliati nella capitale spagnola, fornendo loro truppe e armamenti; segnala Payne che “[t]his decision was reached incrementally, beginning with a public economic assistance campaign inside the Soviet Union on August 3 and culminating in the Politburo’s official approval of a detailed plan for military intervention on September 29” (2004: 127). La battaglia di Madrid vide inoltre l’arrivo di numerosi volontari antifascisti <10: si trattava delle Brigate Internazionali, provenienti in gran parte da altri Paesi europei, ma anche dagli Stati Uniti e dal Canada.
10 Si stima l’arrivo in Spagna di circa 35.000 volontari stranieri tra il 1936 e il 1939, per una presenza sempre compresa tra i 12.000 e i 16.000.
Luca Astolfi, I campi di concentramento nella Spagna franchista, Tesi di laurea magistrale, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno Accademico 2015-2016

Quello che si venne delineando già nei giorni concitati della rivoluzione russa fu la costituzione di un autentico mito del primo paese socialista al mondo, un’immagine che gli stessi bolscevichi seppero costruire ed abilmente diffondere all’interno ma soprattutto all’esterno del paese, dove fondamentale era il riconoscimento dell’evento storico della presa del potere bolscevico da parte delle potenze occidentali e la pubblicizzazione del “quadro di radiosa e vigorosa ascesa” (Strada 1991: 17) della Russia, appositamente creato per il decadente occidente.
Un simile atteggiamento, necessario per affermare la straordinarietà e la non transitorietà dell’avvento dello Stato socialista in Russia e, per lo meno sino all’avvento di Stalin, la sua esportabilità come modello fuori dai confini sovietici, doveva anche oscurare la “controimmagine” di una Russia comunista, violenta e distruttiva, oppressiva e antidemocratica, per promuovere invece l’immagine o “auto-immagine” di un paese felice, pacificato e in rapida crescita. Il fenomeno di mitizzazione della Russia, che coinvolse decine di intellettuali occidentali, potrebbe essere forse spiegato con quella che Strada chiama “una funzione compensatoria” (ibid.: 18), vale a dire una naturale e “gratificante” opportunità di sfogo per le frustrazioni offerte dal mondo occidentale, risultato moderno di un’industrializzazione e un capitalismo dai quali rifuggire per rivolgersi ad un impegno attivo nel laboratorio stimolante dell’esperimento rivoluzionario.
Alla base della costruzione del mito sovietico ci fu dunque, innanzitutto, un atteggiamento fideistico da parte di coloro che vollero credere, al di là di qualsiasi analisi critica, nel carattere universale della rivoluzione e dei risultati ottenuti e in quelli ancora da raggiungere, tra attese ottimistiche ed effettive realizzazioni (cfr. Flores 1992: 371-372); altri parleranno de “l’esaltazione esclusiva dei fattori emozionali a scapito dello spirito critico” (Riosa 1991:25), finanche di “messianesimo del mito”, nel caso della proiezione della misera realtà italiana del dopoguerra in quella ideologicamente propagandata dai sovietici e ampiamente diffusa anche dal partito comunista in Italia (cfr. Galante 1991: 463).
Se appare oramai pacifico che gli anni del consolidamento del mito sovietico coincisero con la crisi profonda del sistema occidentale alla fine degli anni Venti e delle conquiste apparentemente raggiunte dall’Unione Sovietica con gli obiettivi fissati dal primo piano quinquennale, rinforzati dalla promulgazione “nel 1936, della «costituzione più democratica del mondo»” (Riosa 1991: 25), della diffusione del taglio dei traguardi della tecnica e della fotografia di un popolo tutto proteso a costruire condizioni di vita invidiabili e replicabili, fu l’identificazione di tali sforzi e di una simile immagine dell’Urss in patria con la figura di un leader, dotato di tutte quelle qualità eccezionali in grado di guidare una simile ascesa, a rendere non solo sopportabili tutte le privazioni e i sacrifici affrontati dai russi, ma a permettere la propagazione anche all’estero di quello che in Russia si stava già affermando come il culto di Stalin. Va debitamente tenuto conto del ruolo svolto internamente dai vari partiti comunisti nazionali e dalle diverse vicende storiche e politiche che coinvolgeranno l’esito di tante scelte ed azioni intraprese dalle sinistre nei diversi paesi occidentali; nel caso italiano, saranno in particolare le diverse anime nelle quali si spaccò la sinistra, subito dopo la fine del fascismo, a dettare e giostrare anche tra gli ambienti intellettuali il modo di pensare e raffigurare la Russia sovietica.
I presupposti sui quali vennero gettate le fondamenta di quelli che, in molti casi, saranno anche molti dei leitmotiv presenti negli scritti inviati dalla Russia degli scrittori italiani, proprio a partire dagli anni di Stalin, costituiscono una spina dorsale comune appartenente a quella “cultura del mito” sovietico (ibid.: 30) rintracciabile nel modo di guardare e scrivere sulla Russia, dogmaticamente seguito da intellettuali più o meno militanti e predisposti a credere a quel mito. <27
L’immagine dell’Urss venne abilmente rinnovata, subito dopo il primo decennio dallo scoppio della rivoluzione, direttamente dall’interno del paese, per mano di colui che si era autodesignato quale continuatore dell’opera di Lenin e che gli era succeduto ufficialmente nel 1928. <28 Fin dalla sua prima ascesa all’interno del partito infatti, Stalin seppe tessere l’arazzo del proprio mito personale ponendosi accanto al padre originario della rivoluzione e generando il mito del passaggio di consegne, sulla via della continuità, tra il leader morto e il silente ma fedele rivoluzionario della prima ora. Così, accanto ai vari miti ai quali la rivoluzione diede origine subito dopo la fine della Nep e l’inaugurazione del Piano (i miti legati alle ricorrenze della rivoluzione, il mito del 1° maggio, il mito della tecnica, il mito della fabbrica e il mito del kolchoz, ecc.), il nuovo leader autocostruì un iper-mito, capace di inglobare nella propria persona tutti gli altri, espressione dell’affermazione di potenza dello Stato socialista che si sostanziava nell’unico uomo in grado di allontanare i pericoli esterni rappresentati dai paesi capitalisti, tutti possibili invasori e attentatori alla libertà dell’Urss e di guidare il paese verso il mantenimento della pace e il raggiungimento della prosperità per il proletariato. Sarebbe addirittura possibile, secondo A. Marchetti, risalire alla data di fondazione del mito staliniano: “La maggior parte degli storici o biografi sono concordi, ad ogni modo, nel fissare al cinquantesimo anniversario della nascita di Stalin, cioè al 21 dicembre 1929, la prima occasione in cui il culto del capo del Cremlino si manifesta pubblicamente in tutta la sua solennità. […] Nell’indirizzo di saluto del comitato centrale si legge: «al nostro Stalin che sacrifica tutte le sue energie e tutto il suo sapere alla causa della classe lavoratrice»; Stalin risponderà assicurando la sua disponibilità a donare anche l’ultima goccia del suo sangue al popolo. […] Da quell’anno si ha un crescendo ininterrotto di adulazione e di glorificazione che traborderà diffondendosi oltre i confini dell’Unione Sovietica alimentando le critiche scandalizzate o ironiche dei detrattori del regime sovietico”. <29
In Italia tale mito vedrà un’affermazione matura solo dopo il secondo dopoguerra, quando la stampa comunista inizierà a dare maggiore rilievo alla figura dell’uomo fautore della liberazione dall’oppressore fascista, trasmettendone persino un’immagine quasi domestica di “«dolce amico»” (Marchetti 1991: 319), al di là di quella ufficiale di “compagno” e “maresciallo” sovietico.
E difatti, nei principali resoconti dalla Russia di intellettuali italiani, nello specifico degli scrittori inviati che qui interessano, i riferimenti alla persona di Stalin e al suo primato in patria prima della fine del secondo conflitto mondiale non paiono così insistenti. C. Alvaro, che viaggiò in Urss tra la primavera e l’estate del 1934, sente ancora vivo il ricordo di Lenin, “[…] appare addirittura un sognatore, il romantico della rivoluzione, e difatti occupa proprio questo posto in tutta la civiltà russa d’oggi” (2004: 85). Sebbene ancora viva, l’immagine del grande leader scomparso sta lasciando il posto al suo successore, “La figura di Stalin, meridionale e orientale, invase i muri delle città russe a sinistra di quella di Lenin, e i medaglioncini di finto smalto e di latta sul petto delle proletarie e dei giovani comunisti” (ibid.), fino a diventare culto nelle lezioni mandate a memoria e da sciorinare davanti alle spie nemiche. «Domandai una volta al direttore d’un istituto, a titolo di semplice informazione, il nome d’un filosofo significativo nella nuova cultura sovietica. “Il compagno Stalin è il nostro maggior filosofo”, mi rispose pronto» (ibid.: 97).
G. P. Piretto ricorda l’alone sacro del quale lo stesso Stalin volle circondarsi: “Spettatore unico e ispiratore massimo di queste epopee, estraneo per cause di forza maggiore, ma virtualmente presente in ogni singola manifestazione, restava Stalin. Condannato peraltro, a ulteriore distanza presa dal popolo suo, a un forzato isolamento. Per ragioni di sicurezza, prima di tutto, ma comunque circondato da folle o a stretto contatto fisico con i rappresentanti delle più diverse categorie, nell’iconografia ufficiale, o in soluzioni che oggi definiremmo virtuali, legate alle diverse mitologie che lo riguardavano. La più nota e (all’epoca) più sentita fra tutte, era costruita sull’instancabile attività di Stalin, testimoniata da una lucetta perennemente accesa in una stanza del Cremlino, visibile dalla Piazza Rossa, ideale collegamento (virtuale, appunto) tra il popolo e il suo dio […]”. <30
[NOTE]
27 Un’adesione al mito sovietico è rintracciabile anche tra coloro che non furono particolarmente inclini a professare la fede negli ideali del socialismo, ma che rimasero irretiti dalle maglie della manipolazione comunicativa ed organizzativa sovietica che riusciva, in diversi modi, a guidare una “corretta” lettura della realtà russa.
28 N. V. Riasanovsky ricorda che l’ascesa al potere di Stalin iniziò nel 1922 con la sua nomina a segretario generale del partito (2015: 493).
29 1991: 312.
30 Piretto 2001: 134.
Cheti Traini, Narrare la Russia: gli scrittori viaggiatori italiani in Russia nel periodo sovietico, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno Accademico 2015-2016