Rimane, ad oggi, l’unica pubblicazione che propone una ricostruzione completa della storia della Resistenza nel Piemonte nord-orientale

“Il Monte Rosa è sceso a Milano”, scrive Giacomo Verri, «è come una Bibbia per quelli della mia valle che vogliono mettere le mani nella Resistenza» <1. Pubblicato da Einaudi nel 1958 <2, al termine di una lunga e, in qualche momento, difficile gestazione, fu ristampato senza modifiche nei contenuti nel 1972, nel 1973, alla vigilia del conferimento della medaglia d’oro al valor militare a Varallo per la Valsesia, e nel 1983, prima di un’ultima, sciagurata, edizione anastatica distribuita da altro editore nel 2017 <3. Rimane, ad oggi, l’unica pubblicazione che propone una ricostruzione completa della storia della Resistenza nel Piemonte nord-orientale, un territorio che fino all’istituzione delle province di Vercelli e successivamente di Biella e del Verbano-Cusio-Ossola era compreso nella provincia di Novara. Occorre precisare che la storia partigiana in queste terre ebbe caratteri solo parzialmente unitari e che questi furono formalmente concentrati in un evento del primo inverno, quando il 15 gennaio 1944 all’alpe Pratetto, in valle Cervo, si costituì la 2a brigata Garibaldi “Biella”, che comprendeva sei distaccamenti biellesi e un distaccamento valsesiano, che a distanza di circa un mese si costituì a sua volta in brigata, la 6 a “Gramsci-Valsesia”. Da quel momento in poi le competenze si distinsero, salvo circostanze occasionali, tra la zona operativa piemontese del Corpo volontari della libertà, denominata “Biellese” ma estesa anche al Vercellese, e la zona operativa “Valsesia”, che comprendeva anche il Novarese.
Alla fine della guerra ci fu una divisione amministrativa tra le commissioni che valutavano le domande per il riconoscimento delle qualifiche partigiane che rispecchiava la distinzione operativa: le istanze prodotte dai partigiani della Zona Biellese furono inviate alla commissione che aveva sede a Torino, quelle della Zona Valsesia finirono a Milano.
L’opera di Secchia e Moscatelli tiene insieme quanto, storicamente, seguì percorsi diversi, in un lembo di Piemonte (al netto di qualche sconfinamento in Valle d’Aosta e Lombardia) che ancora oggi presenta caratteristiche molto diversificate e tradizioni particolari. L’obiettivo di Secchia, più marcatamente rispetto a Moscatelli, era quello di dimostrare come l’organizzazione politica e militare della Resistenza fosse stata improntata a criteri unitari, ideologicamente coerenti, e le dovesse pertanto essere riconosciuto un primato sullo spontaneismo e la conseguente multiformità della storia partigiana, destinata a risultati ininfluenti senza una forte guida politica. Ne sarebbe uscita, indirettamente, esaltata la sua azione quale commissario politico del Comando generale delle brigate “Garibaldi”. Ma, per il ricorrente fenomeno dell’eterogenesi dei fini, il libro finì per essere distribuito quando Secchia, già potente uomo di partito, era caduto in disgrazia. L’alone negativo che lo circondava in quel periodo ebbe qualche influsso sul giudizio di figure autorevoli del panorama editoriale, che ritenevano le qualità de “Il Monte Rosa è sceso a Milano” attribuibili a Moscatelli, mentre i difetti erano tutti da imputare agli eccessi ideologici secchiani. Giudizio che si è proiettato anche nella contemporaneità ed è sostanzialmente condiviso da Verri quando scrive, nel testo citato, che a Pietro Secchia «si devono, del volume, i lacerti più spiccatamente teorico-politici, quelli che già nel titolo sanno di ideologia: La classe operaia e la nazione, L’azione nelle fabbriche, solo per fare due esempi; e sinceramente sono proprio questi i passi che sentono di più i dieci lustri passati sopra alle nostre teste», mentre a Cino Moscatelli si deve «la seconda anima […] squisitamente narrativa», in cui «la prosa fluisce rapida come un fiume di montagna, spumeggia sulle rocce – rocce affliggenti, quelle valsesiane – che rilasciano il benefico sale dei minerali. Laddove non pesa l’ipoteca degli inserti politico-dottrinari, leggere quel dettato ha lo stesso sapore di quando s’affondano le labbra nelle acque fresche raccolte a giumella da una fontana montanina. Poco manca a che si possa credere di aver sulle ginocchia il commentario d’un antico condottiero o, in certi tratti, un poema epico, oppure ancora un bel libro d’avventura».
“Il Monte Rosa è sceso a Milano” continua a essere un riferimento importante per qualsiasi storico della Resistenza nell’alto Piemonte, ma non può essere considerata una fonte scientifica, troppe essendo le imprecisioni, le approssimazioni, le interpretazioni soggettive e, soprattutto, troppo viva e unilaterale la passione che pervade la narrazione. Negare che il libro conservi, comunque, un grande fascino, non solo popolare, sarebbe ingiusto. Ho pensato che valesse la pena, a sessant’anni dalla pubblicazione, ricostruire una storia che coinvolge figure importanti della storia culturale e politica, approfittando anche di una coincidenza involontaria ma suggestiva, l’uscita del numero 100 de “l’impegno”, la rivista che l’Istituto varò nel 1981 sotto la presidenza di Cino Moscatelli, nell’anno in cui ci avrebbe lasciato.
I primi passi del progetto editoriale
Già all’inizio di luglio 1945 Secchia scriveva a Moscatelli: «Hai tu incaricato qualcuno di scrivere la storia delle vostre divisioni garibaldine e delle vostre battaglie? Penso che è un lavoro che si dovrebbe fare, perlomeno dovresti incaricare qualcuno di raccogliere il materiale, ordinarlo, ecc… A parte la storia credo che non sarebbe male pubblicare un libro che si legga facilmente e di larga diffusione. Non dovrebbe essere un grosso malloppo. Penso a qualche cosa del tipo di quello di Nullo <4 , ma con maggior copia di episodi di battaglie e con le fotografie tue e dei tuoi più noti comandanti e commissari. So che per scrivere un libro bisogna innanzi tutto trovare chi lo scrive. Ma credo non sarà difficile, intanto tu stesso potresti incaricare qualcuno, come ti dicevo, di raccogliere il materiale, se poi hai intorno a te qualcuno che sa scrivere, gli potresti dare l’incarico non solo di raccogliere il materiale per la storia, ma di buttare giù in un centinaio di pagine o anche 200, i racconti delle vostre gesta ed alcune biografie. Troveremo certamente la casa editrice che lo pubblica e credo che la pubblicazione renderà certamente. Si venderà non solo in Valsesia ma in ogni parte d’Italia» <5.
Moscatelli e lo stesso Secchia continuarono a lavorare intorno all’idea di una pubblicazione sulla storia della Resistenza locale, ampliando la prospettiva territoriale che in prima battuta sembrava ridotta alla dimensione valsesiana fino a includere la Resistenza nel Biellese e nella Valdossola. Il progetto, nella prima proposta di Secchia, era molto meno ambizioso di quanto non sarebbe risultato nella realtà. Il taglio divulgativo, sostanzialmente mantenuto nello stile letterario del volume finale, dovette combinarsi con l’accumulo di pagine, passate nella realtà dalle 100 o 200 auspicate a una dimensione che ne ha fatto, senza discussioni, quel «grosso malloppo» che il dirigente comunista biellese voleva evitare: 655 pagine!
La ricerca di una casa editrice, partita dalla convinzione che non sarebbe stato difficile trovarne una sul mercato, portò gli autori a sottoscrivere un contratto con un gigante dell’editoria quale era la casa editrice Einaudi negli anni cinquanta, il massimo cui si poteva ambire al tempo. La previsione della possibilità di conferire una dimensione nazionale alle vendite, superando i limiti dell’angusto mercato locale, fu centrata: pur non disponendo di dati sulla diffusione commerciale, la fortuna editoriale del prodotto può evincersi dalle tre ristampe, sia pure scandite nel tempo, che seguirono la prima edizione.
Nell’archivio personale di Moscatelli non ci sono altre tracce del progetto fino al 1 agosto 1952, data scritta a mano in calce a una lettera dattiloscritta <6 che Pietro Secchia inviò al comandante partigiano valsesiano, all’epoca senatore, in cui gli comunicava di «avere cominciato a lavorare seriamente al libro», auspicando che questo fosse avvenuto anche per il suo corrispondente. Rimarcando la provvisorietà di impianto generale del volume, Secchia insisteva in particolare sul tema che l’opera avrebbe dovuto privilegiare, quello militare. Scriveva, infatti, in proposito: «Ti avevo detto che a questa storia o racconto della guerra partigiana combattuto nella Valsesia, Ossola, Cusio, eccetera, eccetera, e nel Biellese intenderei dare un carattere soprattutto militare. Naturalmente non potremo evitare di trattare anche dei temi politici, sarebbe un errore non farlo, ma la caratteristica del nostro libro dovrà essere la trattazione del punto di vista militare. Perché tutti i libri usciti sinora in Italia sulla guerra partigiana la esaminano solo dal punto di vista politico e se noi ci limitassimo a fare la stessa cosa e cioè a trattare i soliti temi: il 25 luglio, la caduta del fascismo, l’unità nazionale, i comitati di liberazione, eccetera, eccetera non faremo nulla di originale».
Secchia attribuiva all’opera una finalità ambiziosa, quella di dimostrare che, a differenza di quanto comunemente percepito, la Resistenza, pur essendo stata un fenomeno caratterizzato dalla spontaneità, aveva avuto nell’organizzazione il fattore determinante per la sua efficacia e sopravvivenza: «È invalsa l’opinione che i partigiani erano delle bande di uomini coraggiosi, ma con scarse capacità militari e che le loro azioni erano improvvisate, non studiate, condotte senza un piano, senza criteri, senza un’organizzazione. Che tutto era abbandonato alla spontaneità, all’improvvisazione e all’audacia. In realtà non è stato così. Che ci sia stata molta inesperienza e molta improvvisazione è vero. Che l’audacia abbia sopperito in molti casi alla preparazione militare è anche vero. Però ci si è sforzati in ogni formazione di preparare le azioni sulla base di uno studio del terreno, degli uomini, degli obiettivi e le azioni meglio
riuscite sono state quelle preparate e organizzate con criteri militari».
La rivalutazione militare del movimento partigiano passava attraverso un filtro dimostrativo piuttosto impegnativo, che riguardava i comportamenti di comandanti attenti a salvaguardare le vite dei propri uomini, all’interno di una guerra in cui l’arte militare ebbe un peso importante.
«Col nostro lavoro dovremmo porci di dimostrare questo, che i partigiani non erano degli asini coraggiosi, ma erano degli uomini coraggiosi che studiavano e conoscevano l’arte militare, erano comandanti che non mandavano i loro uomini allo sbaraglio, ma studiavano attentamente le cose possibili da farsi. Noi sappiamo che il coraggio e il valore da soli non bastano a battere il nemico. Bisogna saperlo battere il nemico e per saperlo battere occorre conoscere l’arte militare. Senza dubbio l’arte militare non è in guerra (e tanto meno nella guerra partigiana) l’unico fattore della vittoria ma sarebbe altrettanto sbagliato negare la funzione di prim’ordine dell’arte militare e giungere alla conclusione che le vittorie partigiane sono state solo il risultato del coraggio e di fattori politici e morali» […].
[NOTE]
1 Giacomo Verri (Borgosesia, 1978) è autore di libri a tema resistenziale come Partigiano Inverno, finalista al Premio Calvino nel 2011, e Racconti partigiani del 2015. Ha collaborato a diverse riviste letterarie, tra cui “L’Indice”, e alle pagine culturali di quotidiani come “L’Unità”. Il testo da cui sono tratte le citazioni presenti nel paragrafo si trova all’indirizzo http://librisenzacarta.it/2011/11/22/vecchi-libri-il-monte-rosa-e-sceso-a-milano-di-secchia-e-moscatelli/.
2 La stampa del volume terminò il 2 gennaio 1958 presso lo Stabilimento Grafico La Stella Alpina in Novara, che faceva parte del sistema dell’Unione cooperative Garibaldi.
3 L’editore PGreco, specializzato nella ristampa di classici introvabili, ha pubblicato un’edizione anastatica in cui utilizza per la copertina e la controcopertina, senza autorizzazione, un’immagine prodotta da Giorgio e Luca Perrone per la Storia della Resistenza in Valsesia a fumetti, edita dall’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia nel 2012.
4 Con lo pseudonimo “Marra”, Giancarlo Pajetta “Nullo” aveva pubblicato “Con i garibaldini in Valsesia”, Roma, Società editrice L’Unità, 1965. Si tratta di un piccolo volume di 36 pagine, in formato 18×12 cm; “Il Monte Rosa è sceso a Milano”, nella prima edizione del 1958, consta invece di 655 pagine, in formato 22×16 cm.
5 Archivio dell’Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia (d’ora in poi I srsc BI-V c), fondo Moscatelli, b. 36, fasc. 1. La lettera è su carta intestata della Direzione del Pci e a firma “Pietro”. Nella prima parte Secchia comunica a Moscatelli che ha proposto il suo nome per la carica di sottosegretario all’Assistenza postbellica nel governo Parri, che fu in carica dal 21 giugno 1945 al 10 dicembre 1945 (il ministro titolare del dicastero era Emilio Lussu), senza risultato perché la direzione del partito si è espressa per la prosecuzione del mandato di sindaco di Novara nominato dal Cln. Moscatelli fu successivamente nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con delega all’assistenza ai reduci di guerra nel III governo De Gasperi, che durò dal 2 febbraio al 1 giugno 1947.
6 I srsc BI-V c, fondo Moscatelli, b. 43: Il Monte Rosa è sceso a Milano, fasc. Corrispondenza Secchia-Moscatelli-Einaudi. La lettera presenta una data apposta a mano, 1 agosto 1952, e la sigla “S” maiuscola puntata.
Enrico Pagano, “Il Monte Rosa è sceso a Milano”. Storia di un libro di storia partigiana, l’impegno, Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nel Biellese, nel Vercellese e in Valsesia, a. XXXVIII, n. s., n. 1, giugno 2018