A ogni sosta Delfini racconta la sua esperienza con un partito politico

“Mi risolsi a stendere, in parole poverissime, idee che cullavo da anni nel mio pensiero: ne venne fuori un programma di partito politico”.
A. Delfini
“Pertanto, sappia ognuno che se questo partito nascerà, il Manifesto che l’ha fatto nascere è nato per puro caso, forse per miracolo. L’ho pensato, perché non mi riusciva di concretare il programma di una rivista. G. P. voleva in definitiva sbarcare soltanto il lunario, e si è trovato ad essere il secondo autore del Manifesto. La signora voleva liberarsi del signor G. P., ed ecco che si è trovata a essere la ragione per la quale G. P. e io abbiamo dovuto dare una forma alle idee slegate dei primi manoscritti. Io, da diversi anni, non facevo niente, e con la modica spesa di trenta mila lire sono tornato al lavoro. Non avrò da redigere un grande settimanale, non andrò a stare a Roma con un mensile di cento-cinquanta mila lire, continuerò probabilmente a starmene autoconfinato a Viareggio: ma, insomma, avrò sempre la consolazione di aver fatto qualcosa (per quanto minima) in questo mondo così privo – come mi sembra – di iniziative in buona fede!” <6
Siamo nell’aprile del 1951. Delfini ha da qualche giorno finito di redigere il Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia, che sarà stampato di lì a poco dall’editore Guanda. Il Manifesto è il primo libro che Delfini pubblica dal 1943, anno in cui, sempre per Guanda, aveva fatto uscire l’ambizioso saggetto intitolato Tabella delle opere più significative della letteratura italiana uscite fra le due Grandi Guerre 1918-1940. <7 Sono, l’uno e l’altro, testi brevissimi, stampati in forma di opuscolo.
Dalla ricostruzione di Delfini, estremizzante e divagante, come nel suo più tipico stile, possiamo intuire un elemento notevole sulla genesi del nuovo scritto: si tratta di un testo di occasione, arrivato dopo anni di un silenzio pesante, interrotto a malapena da qualche collaborazione in rivista. Ciò che si proverà a fare in questo capitolo sarà entrare (sinonimo) nel vivo del silenzio di Delfini, e coglierne i legami profondi con il suo modo di negli anni Cinquanta: l’impegno politico, all’apparenza così lontano dalle corde di uno scrittore celebre per la sua svagatezza e la sua fantasia. Ciò sarà possibile grazie a un prezioso memoriale inedito – riprodotto integralmente in appendice al capitolo – che ci fornirà nuovi elementi e tantissimi spunti. L’inedito consta di diciotto pagine manoscritte, ed è senza data. Dalle informazioni contenute negli altri brevi testi che lo accompagnano, però, si può affermare con sicurezza che siamo a Viareggio, nella primavera del 1946. Dopo aver trascorso gli anni precedenti per lo più a Firenze <8 – dove continua a tornare di tanto in tanto - Delfini si trova in un momento di grande confusione politica, civile ed esistenziale. Alla fine della seconda guerra mondiale, molti scrittori si sono spostati a Roma, diventata a tutti gli effetti il centro della rinascita di un paese che continua a fare i conti, però, con i problemi lasciati da una guerra mondiale, e dalla coda altrettanto drammatica di una guerra civile tutta italiana. Rintanato a Viareggio, indeciso sulla prossima meta, Delfini sembra caricarsi sulle spalle questo peso generazionale, cui si aggiunge il peso ulteriore del sentirsi sempre alieno da un qualsiasi tentativo di azione che gli permetta, come succede invece a tanti colleghi e amici, di risanare certe ferite e riscattare gli errori di vent’anni di regime, che avevano deviato e compresso molte notevoli intelligenze.
Intanto, prima di avventurarci nelle pieghe del testo, un testo che, oltre a essere il racconto di una crisi sarà anche la base di appoggio, e, forse, il trampolino di lancio, per la stagione “politica” che apre gli anni ’50 di Delfini, è opportuno soffermarsi su un dettaglio fondamentale: l’inedito qui presentato è un memoriale in forma di lettera a Ugo Guandalini. <9 Prima che Guandalini si trasferisse a Parma, e qui fondasse la casa editrice Guanda, i due erano stati legati da un rapporto decisivo per la loro crescita, e per la formazione di entrambi. Leggermente più grande di età – Guandalini nasce nel 1905, Delfini nel 1907 – e, a differenza dell’amico, forte di studi regolari (era laureato in Scienza naturali e insegnò Cristallografia all’Università di Parma), <10 questo editore fu per Delfini la prima finestra sul mondo culturale, l’amico che ce la stava facendo, e che sapeva come muoversi; Delfini appariva invece come il giovanissimo dilettante di genio, più brillante ma decisamente meno risoluto e organizzato. Pur tra qualche rancore e qualche interruzione, il loro rapporto continuò sempre, con Guandalini pronto a pubblicare gli scritti di Delfini (anche quelli più irregolari per contenuto e dimensioni) e a coinvolgerlo – almeno fino a metà degli anni Quaranta – nelle scelte editoriali della sua casa editrice, che dopo un avvio difficile diventa sempre più solida e caratterizzata. <11 Più tardi, questa complicata amicizia viene interrotta, come tante altre cose, dal marasma della guerra: “Dunque è dal Natale del ’45 che non scrivo a nessuno. Anzi mi pare di aver scritto l’ultima lettera proprio a te e non ho mai saputo se l’hai ricevuta. Era una risposta alla richiesta di trovare un rifugio per l’Anna. Io usai dei termini simbolici che non so se avrai capito. Dopo rimasi molto in pensiero per te e per chi volevi aiutare…
perché non ebbi più alcuna notizia fino all’estate del ’45. La prima volta che mi scriverai ti prego di darmi notizie dei tuoi bambini delle donne di tuo fratello e di quelli ai quali tu vuoi un bene particolare. Cercherò di farti la mia storia in dieci righe”. <12
Siamo alle prime battute della lettera. Dopo i normali convenevoli, e prima di lasciarsi pervadere dallo slancio che gli ha fatto prendere in mano carta e penna, Delfini non può fare a meno di chiedere a Guandalini delle sorti dei suoi cari, e rendergli conto di lunghi silenzi e comunicazioni frammentate. Dopo questo slancio doveroso e sincero, Delfini mette da parte gli indugi, come annuncia nella paradossale affermazione «Cercherò di farti la mia storia in dieci righe». Oltre all’evidente discrepanza tra le previsioni di Delfini e le lunghe, dense pagine che si dipanano da qui in poi, è utile notare e tenere a mente l’espressione «la mia storia», riferita al contenuto del testo. Si tratta in realtà, e più precisamente, della storia politica di Delfini e, oltre a essere circoscritta a un campo preciso, si riferisce anche a un periodo preciso: i concitati ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale. Il teatro è la Firenze dei letterati, degli scrittori, e dei tanti attivisti, intellettuali e non, che provano a organizzarsi in partiti, movimenti, circoli, per dare vita dapprima a forme di resistenza, poi, dopo la caduta di Mussolini, di ripartenza. Delfini rendiconta all’amico il suo pellegrinaggio politico in questa fase delicatissima della storia d’Italia – e, come possiamo intuire, della vicenda personale di molti scrittori, a prescindere dal credo politico. Senza dubbio chi, come Delfini, afferiva, pur con tutti i dubbi e le precisazioni del caso, all’area liberale – e si era anche per giunta compromesso, molto o poco che fosse, con ambienti fascisti – i problemi di coscienza sembravano insormontabili. Una sintesi tranchante di queste tensioni ci arriva da un altro “amico” (le virgolette sono d’obbligo, capiremo perché) di Delfini che tornerà spesso in questa storia, Mario Pannunzio: “L’Italia, come il bastimento di Ibsen, porta un cadavere nella stiva. Quel cadavere è il cadavere del fascismo. I vecchi piloti della nave ignorano o vogliono ignorare. Ma l’equipaggio più giovane è colpito dall’orribile persistente odore che avvelena il respiro. Il fascismo è stato per i minori di quarant’anni la prima e l’unica spietata esperienza politica. Molti hanno creduto appassionatamente, altri si sono lasciati ingannare senza resistenza. Ebbene, è proprio per questo che su la maggiore parte di essi pesa una condanna che gli toglie ogni ragione di vita. Troppi devono nascondersi, restare in disparte. Nello stesso modo che durante il fascismo era delitto essere stato antifascista, oggi è delitto essere stato, senza colpa, iscritto a un partito che si chiamava fascista. Nessuno si alza a parlare in nome di un’intera generazione infelice e ripudiata”.
E ancora, poco oltre: “Ebbene, più che gli altri, i liberali, i giovani liberali, sentono il dovere di parlare anche in nome di chi un giorno fu tradito e oggi è condannato. Che cosa ha atteso questa generazione, negli ultimi mesi di speranza? Forse imprecisati e caotici esperimenti sociali? Forse, a volta a volta, ha tremato e odiato perché, ad esempio, la grande industria del Nord non era abbastanza statizzata? o perché nelle aziende il fascismo non aveva costituito le commissioni di fabbrica? No; aveva soltanto la libertà, il primo formidabile strumento di vita. E questa libertà non è proprio quella stessa dei nostri genitori, così poco amata e difesa, ma bensì quella più pura e più profonda di chi l’ha conosciuta magari soltanto con l’immaginazione, o in qualche libro sfuggito alla censura, quando la vita di tutti pareva per sempre doversi racchiudere nei sinistri comandamenti di un sol uomo, e ogni cosa era arbitrio, violenza, ipocrisia, fanatismo”. <13
Questo è uno dei più famosi editoriali di Pannunzio, apparso nell’agosto del 1944 su «Risorgimento Liberale». Liberale convinto, Pannunzio è chiaramente tendenzioso nell’argomentare e difendere il proprio diritto a prendere voce tanto quanto gli intellettuali e i giornalisti appartenenti ad altri schieramenti politici, e lo fa da una posizione e con una voce decisamente salda, di chi sa da dove e come vuole portare avanti le proprie rivendicazioni. La posizione di Delfini è più dubbiosa e magmatica e forse, proprio per questo, più interessante. Delfini ha avuto precocissime simpatie fasciste, e altrettanto precoci disincanti; questo suo passato, più supposto che reale <14 – e mai finito di pagare in termini di reputazione – si è sempre innestato su un’educazione liberale di fondo, forse unico caposaldo mai venuto meno in trent’anni di tormentate riflessioni. La lettera a Guandalini non è però un testo di idee, né di ragionamenti: si tratta piuttosto una sequenza di episodi, che Delfini percorre come i grani di un rosario: a ogni sosta racconta la sua esperienza con un partito politico. Le vicende in questione sono esilaranti, confuse ma con alcuni particolari
vividissimi. Sono esperienze che stanno per sé stesse ma, come cercheremo di spiegare, sono anche curiosamente riassuntive dei limiti e dei difetti di ogni schieramento in quegli anni, in una sintesi quasi allegorica, che lascia sorpresi in più di un punto per la sua acutezza. Come spesso in Delfini, intuizioni polemiche e spietatezza di verità non si indirizzano soltanto alla realtà che di volta in volta l’io si trova di fronte, ma anche all’io stesso, l’esagitato, esigentissimo personaggio alla ricerca di uno schieramento da rappresentare (e che possa rappresentarlo).
La stazione di questa via crucis politica dove la sosta si fa più lunga è la sede fiorentina del Partito Liberale, dove si osservano preoccupanti tendenze al settarismo, all’esaltazione militaresca, e al livellamento dei singoli; da ex simpatizzante fascista ma, forse, e più probabilmente, da essere umano con un rigetto totale per la violenza, Delfini viene ferito dalle manifestazioni di giubilo alla notizia della morte di Mussolini, con successivo scempio di cadavere. Tuttavia, la voglia di contribuire in qualche modo ai fermenti di quei giorni lo spinge a insistere, scrivendo insieme ad altri frequentatori del circolo, un manifesto che «piacque molto a quei giovani» ma di cui, in sostanza, non si sa più nulla. A suggellare la disillusione di Delfini verso il PLI arriva l’imbarazzante questione del tesseramento: senza l’intercessione del suo amico Mario Pannunzio probabilmente non gli sarebbe stata accordata a causa dei già citati precedenti “fascisti”. Tanto basta a Delfini – e non senza qualche ragione – per iniziare a maturare una crescente diffidenza verso il PLI e, più in generale, verso le nuove forze che riformulano la scena politica post otto settembre 1943. Leggere oggi questo testo, informale e privato, vuol dire attivare un dialogo con altre testimonianze, come quella memorabile di Carlo Levi, che solo quattro anni più tardi, ed esattamente a proposito di quei mesi di immediato dopoguerra, scriverà in L’Orologio: “Era uno di quei momenti in cui i destini di ciascuno pendono incerti; in cui gli abilissimi politici meditano sulle forze in campo, e preparano mosse astute in un loro complicato gioco di scacchi, che essi sono destinati, in ogni modo, a perdere – perché il solo modo di vincere sarebbe di trovare quella parola che, suscitando forze nuove, buttasse all’aria la scacchiera, e trasformasse il gioco in una cosa viva. Sarebbe stata detta questa parola? Erano giorni in attesa e, nel frastuono quotidiano, il silenzio. Altre parole, senza risonanza, riempivano l’aria; vecchie parole, piene di nobiltà e di ricordi, ma astratte o troppo usate dal tempo, che le aveva ridotte informi come ciottoli bianchi nel letto di un fiume. Il loro suono era dolce: democrazia, socialismo, libertà, potere alle masse, e così via; ma senza forza. Pure, gli uomini erano là, gli scaricatori sulle banchine dei porti, i marinai sulle navi, e tutti gli altri; e anche Teresa, la venditrice di sigarette che rabbrividiva felice al primo vento d’autunno, tutti i milioni di Terese, che nei campi, nelle strade e nelle case di tutta Italia, avevano lasciato per sempre la vita di prima, e imparato a soffrire e a rallegrarsi di se stesse, erano là, erano con noi, e noi con loro. Che cosa dunque stava in mezzo a noi, e ci impediva di intenderci, come giocatori stanchi verso l’alba, al tavolo verde, per giocare una partita perduta?” <15
Nella riflessione di Levi, maturata dalla ben più centrale posizione di dirigente e giornalista di punta per il Partito d’azione, <16 si legge l’amarezza di uno scrittore il quale si è presto reso conto che i partiti e i giornali li fanno gli uomini, con tutti i loro limiti.

Carlo Levi, Ritratto di Antonio Delfini e Leoni, 1941-1942. Fonte: Anna Palumbo, Op. cit. infra

[NOTE]
6 A. Delfini, Storia di questo Manifesto, in Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia, Guanda, Parma, 1951, ora in Id., Manifesto per un partito conservatore comunista e altri scritti, a cura di Cesare Garboli, Garzanti, Milano, 1997, p. 154-157.
7 Il libretto, firmato da Delfini con lo pseudonimo di Franco Franchini, ha solo 23 pagine, ed elenca, dividendole per genere, le espressioni letterarie più significative del suo tempo, riviste letterarie comprese. Nella presentazione in apertura, Guandalini sottolinea, prestandosi in pieno all’operazione del suo amico, come «questo fascicoletto consegnatoci dalla signora Franchini con la preghiera di pubblicarlo, ci è sembrato di un certo interesse, e tale da indurci a iniziare con la Tabella ecc. una nuova e piccola collezione dal titolo “Polemiche e curiosità”. Sarà dunque nostro intendimento accogliere quei minimi scritti di lettori, critici, letterati, storici e politici, i quali, non trovando altrove, per la piccola mole o per altre difficoltà, un’adeguata diffusione, si impongono per l’interesse che possano mai comportare, all’attenzione e alla curiosità del pubblico», in Franco Franchini, Tabella delle più significative opere della letteratura italiana uscite fra le due Grandi Guerre 1918-1940, Guanda, Parma, 1943, p.3.
8 Delfini si trasferisce da Modena a Firenze nel 1935, e affitta una casa Oltrarno, in via Curtatone 2. Ci rimarrà fino al 1946, salvo alcuni periodi a Modena e a Viareggio. Quest’ultima sarà spesso un’alternativa e un rifugio sicuro nei mesi più duri della guerra. Dal 1946, fino ai primi anni Cinquanta, quella di Viareggio sarà la sua abitazione principale, alternata sempre, però, a quella ancora in suo possesso a Modena.
9 La lettera vera e propria – che da questo momento sarà citata in nota come «Carissimo Ugo» [abbreviazione CU], è accompagnata da altri tre brevi scritti, con cui rispettivamente il 25 settembre, 12 ottobre e il 15 novembre 1946. Delfini annuncia all’amico di avere finalmente trovato il coraggio di spedirgliela. Proprio dal primo di questi testi-corollario sappiamo che il memoriale è stato scritto all’inizio di maggio del 1946, e che Delfini aveva intenzione di consegnarlo a Guandalini di persona. A quanto risulta, invece, la lettera non è stata mai consegnata a mano, né spedita. Si ringrazia il professor Giulio Ungarelli per aver messo questo testo a disposizione del mio lavoro, e Giovanna Delfini per avermi autorizzata alla riproduzione.
10 Gli studi di Guandalini possono considerarsi regolari rispetto a quelli di Delfini più che altro sul piano della completezza: mentre Delfini si era fermato al secondo anno del ginnasio, Guandalini aveva conseguito sia il diploma che la laurea. Come spesso succedeva a chi aveva ambizioni letterarie, però, Guandalini aveva preso un titolo di studio del tutto avulso dal suo campo di interessi: una laurea in Ottica all’università di Parma. Sulla giovinezza in comune e sul contesto della Modena anni Venti e Trenta si veda, Guanda, Delfini e la cultura modenese, a cura di G. Montecchi e A. Venturi, Artestampa, Modena, 2012. Si veda anche Stefano Calabrese, Guanda, Delfini e la cultura modenese, in Aspetti della cultura emiliano-romagnola nel ventennio fascista, a cura di Andrea Battistini, Angeli, Milano, 1992, pp. 81-134.
11 Sul rapporto tra Guandalini e Delfini si veda ancora Stefano Calabrese, Antonio Delfini verofinto. Una metalessi italiana, Forum, Udine, 2007. A proposito della loro simbiosi degli anni Trenta, Calabrese osserva, – ingeneroso, forse, tanto con le letture di Guandalini che con la scrittura di Delfini, che «entrambi scrivono e leggono male, a seconda delle situazioni, ma proprio per questo, allorché si uniscono nella monade guanda&delfini producono qualcosa che, almeno a Modena, risulterà di ineguagliato valore», ivi., p. 10. Nel testo è presente una selezione dell’intenso scambio di lettere tra i due, lettere che ho avuto modo di visionare personalmente presso il Fondo Delfini della Biblioteca Estense di Modena. Sul primo ventennio di attività della casa editrice Guanda si veda Aroldo Benini, autoedizione, s. l., Ugo Guanda. Editore negli anni difficili (1932-1950), 1982.
12 CU, p.1.
13 Mario Pannunzio, Una generazione fra due guerre, «Risorgimento liberale», n. 53, 1° agosto 1944, p. 1, in L’estremista moderato. La letteratura, il cinema, la politica, a cura di Cesare De Michelis, Marsilio, Venezia, 1993, pp. 340, 341. Per un profilo intellettuale di Mario Pannunzio si vedano almeno: Massimo Teodori, Pannunzio. Dal Mondo al Partito Radicale, Mondadori, Milano, 2011; Carla Sodini, Amici per sempre. Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti tra Lucca e Roma, Accademia Lucchese di scienze lettere e arti, Lucca, 2011, ma soprattutto Antonio Cardini, Mario Pannunzio. Giornalismo e liberalismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2011.
14 Delfini prende la tessera del Partito Fascista a dodici anni e, assumendosi la responsabilità di questa scelta della preadolescenza, quindici anni dopo racconta così: «Io sono un fascista del 1920… calma signori, non vi allarmate. Attendete un momento. A quell’epoca avevo dodici anni… No, non voglio iscusarmi, e vi distolgo subito da quel sorriso stupido di persona adulta che avete preso con aria di compatimento per dirmi «Insomma, eri un bambino, ti si può passare». Non mi si passa proprio niente. A dodici anni se uno ha frequentato un partito politico, vuol dire che ha il gusto di frequentarlo, e che non va a giuocare a rimpiattino con i ragazzi della sua età», A. Delfini, Lamenti. Conversazioni a Radio Firenze [ottobre 1944-febbraio 1945], in La Rosina perduta, Vallecchi, Firenze, 1957, poi raccolte in Mas, cit., pp. 129-134. Interessanti, in rapporto al memoriale del 1946, sia la sede originaria e l’anno di queste dichiarazioni, sia la formula scelta da Delfini per parlare del suo accostamento al fascismo: questo frequentare un partito, in una forma di accostamento esplorativo, conoscitivo in piena coscienza ma senza vincoli definitivi – che potrebbe essere visto come la prima tappa del suo faticoso viaggio politico.
15 Carlo Levi, L’Orologio, Einaudi, Torino, 1950, pp. 63, 64. Carlo Levi scrive nel 1950 il resoconto a un tempo realistico e visionario dell’ambiente politico intellettuale tra Firenze e Roma nell’immediato dopoguerra. Molti scrittori in quegli anni si spostarono (oppure viaggiavano) spesso tra le due città, con Firenze che lentamente cede il passo a Roma come sede privilegiata della vita culturale e delle sedi di riviste e giornali. Come vedremo nei prossimi capitoli, Delfini seguirà la medesima trafila con circa un decennio di ritardo. Però, già dalla metà degli anni quaranta lascia gradualmente Firenze per fare base tra le sue case di Modena e Viareggio.
16 In quel giro d’anni Carlo Levi si dedica interamente al suo ruolo nel Partito d’Azione e, dal 1944, sarà condirettore del quotidiano fiorentino che ne diffonderà le idee, «La Nazione del Popolo». L’anno successivo, a Roma, dirige il quotidiano azionista «L’Italia libera», fino ad arrivare al principio del 1946, dopo il congresso che sancirà la fine del PdA, a una traumatica rottura e all’abbandono di questa parte politica (è proprio questa delusione politica il sostrato del complicato ordito di L’Orologio).
Anna Palumbo, «Quanto conta la memoria nella storia». Antonio Delfini 1951-1963, Tesi di perfezionamento, Scuola Normale Superiore di Pisa, Anno accademico 2021-2022