Albertini aveva dovuto rinunciare alla direzione e alla partecipazione alla proprietà del «Corriere» dopo un quarto di secolo di attività intensa e innovativa

Elena Albertini (1902-1992) è stata, con i suoi diari durati tutta una vita, una testimone attenta dell’Italia del Novecento, di cui ha potuto seguire le vicende da un punto di vista privilegiato, essendo figlia e moglie di due protagonisti della scena politica e avendo quindi avuto lei stessa un ruolo sociale di rilievo, che le permise di conoscere e frequentare molti dei grandi del secolo, uomini di stato, intellettuali, artisti.
Figlia di Luigi Albertini, storico direttore del «Corriere della Sera» <1 e di Piera Giacosa, a sua volta figlia di Giuseppe Giacosa, «nonno Pin», il drammaturgo librettista di Puccini, crebbe a Milano, ma si sentì sempre legata al mondo piemontese della famiglia della madre, a Colleretto (oggi Colleretto Giacosa), nella zona di Ivrea, dove il padre tra il 1905 e il 1906 aveva fatto costruire una villa per riunirvi, d’estate, il «clan» Albertini-Giacosa. <2 Lì aveva passato le lunghe vacanze estive dei suoi primi anni, lì si era innamorata e sposata, lì, infine, tornava periodicamente a trovare i parenti rimasti. Il marito di Elena fu il conte Nicolò Carandini, la cui nonna paterna, una Realis, era sorella della bisnonna di Elena (il nonno Giacosa era primo cugino del padre di Nicolò, Francesco) e il cui fratello maggiore, Federico, aveva sposato la sorella di Luigi Albertini, Clara. I Carandini avevano la casa di famiglia a Parella, a distanza di una passeggiata da Colleretto. Così Nicolò ed Elena, che avevano cominciato a frequentarsi da ragazzi, arrivarono con naturalezza al fidanzamento e, nel ’26, al matrimonio che li avrebbe uniti per tutta la vita in un rapporto di coppia e di amicizia profonda.
Le famiglie d’origine, gli Albertini e i Carandini, erano state legate oltre che dalle ragioni geografiche e parentelari, dalla condivisione di ideali antifascisti, pagati con vicende personali dolorose. <3
Francesco Carandini, marchese di Salzano, era stato prefetto, ma nel ’23 Mussolini lo aveva degradato e poi costretto alle dimissioni e al ritiro a vita privata nella casa di Parella. <4
Luigi Albertini, grande avversario pubblico di Mussolini, nel novembre del 1925, col fratello Alberto, aveva dovuto rinunciare alla direzione e alla partecipazione alla proprietà del «Corriere», dopo un quarto di secolo di attività intensa e innovativa che aveva fatto del quotidiano di via Solferino il giornale più moderno e più letto d’Italia; <5 era una vicenda per molti aspetti parallela a quella del direttore della «Stampa», Alfredo Frassati, il vicino biellese di Pollone. <6 Aveva allora lasciato Milano e il giornalismo per trasferirsi a Roma, nel ’27, e iniziare nell’Agro romano, a Torre in Pietra, un’attività zootecnica imprenditoriale d’avanguardia. Anche defilato, esule dalla politica attiva (un «esilio interno», <7 provocatoriamente vissuto proprio nella capitale), Albertini continuava ad essere un punto di riferimento per i liberali antifascisti, <8 lui che aveva saputo aggregare intorno al suo giornale, ripensato sul modello del «Times», un’opinione pubblica conservatrice e laica, legata ai valori della Destra storica, unita nel patriottismo risorgimentale, nell’impegno bellico, nella critica ad oltranza al pragmatismo giolittiano (con le sue aperture ai socialisti e ai cattolici, le sue contraddizioni economiche) e nella difesa, sotto ogni governo, delle istituzioni parlamentari liberali. <9
Le complicità e le esitazioni degli imprenditori e degli intellettuali moderati di fronte alle azioni dello squadrismo fascista, ritenuto il male minore per uno stato indebolito dai movimenti operai, <10 le ambiguità con cui il fascismo si era presentato fino alla marcia su Roma, <11 la convinzione stessa di Albertini <12 che lo squadrismo sarebbe finito quando il fascismo fosse diventato forza di governo avevano impedito però, anche ad un giornale così autorevole e fortunato, ad un direttore così prestigioso, di condurre con tempismo una lotta efficace contro le violenze del fascismo, manifestatesi infine in modo indiscutibile e intollerabile nei brogli elettorali e nel conseguente assassinio di Matteotti del ’24. <13
[NOTE]
1 Su Luigi Albertini, oltre alla voce del DBI (De Caro 1960, 728-734), cfr. Albertini 1945; Barié 1979; tra i più recenti, Jovino 2004 e Moroni 2005. Informazioni dirette si possono avere dai diari: Albertini 2000; e dai carteggi (cfr. soprattutto Albertini 1968).
2 A Parella c’erano le case di famiglia dei fratelli Giacosa, Giuseppe e Piero, e dei loro parenti Realis. Luigi Albertini si era integrato assai bene nel gruppo familiare piemontese, a cui lui, che conservò per tutta la vita la pronuncia marchigiana delle origini, era geograficamente estraneo. Con Giuseppe Giacosa, il suocero, aveva stretto una buona amicizia, rafforzata dalla stima personale e dalle affinità ideali (gli interessi letterari, la passione per il teatro, le convinzioni politiche liberali e risorgimentali, le battaglie civili; si ricordi almeno l’impegno di Giacosa nel caso Dreyfus). Il legame si era stretto ancor più quando Alberto Albertini, fratello di Luigi, aveva sposato un’altra figlia di Giuseppe Giacosa, Paola (la Linot dei diari).
3 Luoghi, vicende e singole personalità delle due famiglie sono presentati in Longo 2005. Si veda ora anche Magnarelli 2007; nell’Introduzione la Magnarelli illustra il carattere particolare, endogamico e patriarcale, di questa famiglia allargata (Elena Carandini la chiama clan), dove le relazioni parentelari erano spesso doppie, con l’effetto di rafforzare l’unione delle componenti in gioco, affettive e patrimoniali, cui si saldava la convinzione di un’affinità elettiva nella comunanza di valori ideali e stili di vita. Aveva buon gioco l’«Avanti!» nel ’45 a ironizzare affermando che «Il mondo liberale italiano è dominato da cinque famiglie tutte imparentate tra di loro: Albertini, Ruffini, Carandini, Cattani e Croce. Non sono mai stati fascisti come non sono socialisti per spirito aristocratico. Nelle loro belle case di campagna in Piemonte sono stati allevati da istitutori che hanno insegnato loro a dire vorrei, invece di voglio» (in Galante Garrone 1984, 52; che riferisce la reazione orgogliosa di Nina Ruffini: «non l’istitutore ma nostro padre ci insegnò a dire da bambino vorrei invece di voglio, aggiungendo che l’esitazione implicita in quella forma verbale nulla avrebbe tolto alla fermezza della volontà quando si fosse trattato di volere il bene»). Di queste parentele si darà conto più avanti.
4 Cfr. Longo, La Vecchia Ivrea di Francesco Carandini, in Longo 2005, 141-150.
5 La quota di proprietà dei fratelli Albertini (Luigi e Alberto) era passata nelle mani della famiglia Crespi, da alcuni anni rimasta da sola con loro in società, che deteneva il pacchetto di maggioranza (trentacinque sessantesimi) e già nel ’23, al rinnovo del contratto, aveva provato a estromettere i consoci. La direzione del giornale, dopo l’allontanamento degli Albertini nel novembre del ’25 e un breve interregno (Croci, Ojetti, Maffìi), era andata nel ’29 ad Aldo Borelli, moderato assai prudente, mentre la presenza di Ugo Ojetti garantiva al Duce la fedeltà del giornale. L’operazione della cessione delle carature Albertini, legata ad un cavillo giuridico, fu abilmente diretta dal gerarca di Cremona, Farinacci, e realizzata dal prefetto di Milano, Pericoli (cfr. Melograni 1965, LVI); pochi mesi prima, in aprile, Farinacci aveva chiesto l’arresto immediato di Albertini e di altri politici dell’Aventino, accusandoli di «associazione a delinquere contro i poteri dello Stato» (cfr. De Felice 1968, 56). Era in corso la fascistizzazione della stampa nazionale borghese, giustificata pubblicamente nel quadro della reazione «morale» alla scoperta della congiura dell’on. Zaniboni e del gen. Capello contro Mussolini; essa colpì, tra gli altri, oltre al «Corriere della Sera», il «Mattino» di Napoli, il «Giornale d’Italia» e la «Stampa», e portò alla sostituzione dei direttori dissenzienti, Albertini, Scarfoglio, Bergamini, Frassati, con giornalisti di regime, cioè all’«inserimento» di quei giornali nel fascismo (cfr. Tranfaglia 1980). Lo scontro tra Albertini e Mussolini fu enfatizzato dalla stampa fascista, da alcuni anche spettacolarmente, nella forma di una lotta fra titani, ma con la persuasione che si sarebbe ricomposto, visto l’avallo che, in quegli anni, il direttore aveva più volte dato al ripristino della legalità anche con l’imposizione di uno stato forte. È emblematico di questo atteggiamento Notari 1924, un pamphlet riccamente argomentato, di toni non volgari (tra il ricatto e la seduzione), interessante soprattutto per la viva coscienza che l’autore dimostra di quanto contasse, per il regime, ancora impegnato in una difficile affermazione all’indomani dell’omicidio Matteotti, l’appoggio incondizionato della stampa borghese e in particolare di Albertini, considerato, fino al gennaio del ’23, un compagno di strada: «l’Albertini ha perfettamente acquisito il concetto del giornale-forza, e a questo concetto egli plasma con cura minuziosissima i punti di mira per cogliere i bersagli più sensibili della pubblica opinione e colpire l’avversario anche con tiri indiretti» (40; poco sopra aveva parlato del «potere-giornale»); per il fascismo «Il non aver subito provveduto a formare una stampa idonea per autorità e per diffusione alla propria potenza e a quella del partito da cui il Governo emanava, fu grande, grandissimo errore» (39).
6 Albertini e Frassati avevano rappresentato nell’area borghese moderata due posizioni con elementi individuali contrastivi, accomunate però dall’interpretazione politica e personalistica del ruolo di direttore di un giornale d’opinione; cfr. Isnenghi 1993. Frassati, liberale antifascista e senatore come Albertini, ma giolittiano, neutralista e germanofilo come Croce, fu ugualmente costretto dal regime a vendere il giornale agli Agnelli nel ’25, e non ebbe nemmeno la possibilità di accomiatarsi dai lettori; dal giornale uscì anche Luigi Salvatorelli, il vicedirettore. Cfr. De Biasio 2006 (soprattutto 114ss.). La figlia di Frassati, Luciana, coetanea di Elena e vissuta fino al 2007, ha testimoniato coi suoi libri, come Elena coi diari, la vicenda politica del padre e le successive vicissitudini familiari, facendo quindi anche lei dell’«autobiografia familiare». Cfr. Frassati 1978-1982, un vero monumento al padre; e ancora Frassati 1949; Frassati 1992 (dedicato al fratello, morto prematuramente e beatificato). Il giudizio di Renzo De Felice sulla memorialistica di Luciana Frassati può valere anche per i diari di Elena Albertini: «lei così lontana dall’habitus mentale dello storico ma, ciò nonostante, così fondamentalmente onesta nel ricostruire una serie di vicende da lei vissute o rivissute nella tradizione e nella pietas familiare» (Prefazione, in Frassati 1949, II); contano la libertà del giudizio, la conoscenza di prima mano dei fatti e delle persone, da protagonista dell’élite sociale e culturale europea tra le due guerre, un uso non personale, ma collettivo, cioè familiare e sociale, delle memorie. Il nome Albertini compare solo una volta nel libro del ’49 della Frassati e con severa durezza: «proprio attorno al fondatore del fascismo si era potuto formare il fanatico blocco interventista, favorito anche dal cieco appoggio del “Corriere della Sera” sotto la direzione di Albertini» (Frassati 1949, 5). Più distensivamente Elena, invece, racconta la frequentazione dei Frassati-Gavronski a Roma nel ’43 (DT, 15) e l’incontro nel ’45 con la figlia di Luciana, Wanda («esplosiva polacco-piemontese», PS, 181), compagna delle ragazze Carandini a Oxford.
7 L’«esilio in patria» come risposta alla «nuova tirannide» (quella mussoliniana, in continuità ed estremizzazione di quella giolittiana, per chi, gobettianamente, vedeva nel giolittismo le premesse del fascismo) era stato proposto agli antifascisti molto presto da Piero Gobetti (Gobetti 1922d), che, come Croce, riteneva il regime una «parentesi» non breve, ma destinata a chiudersi necessariamente quando il paese avesse raggiunto la condizione di maturità morale, culturale e politica della società civile francese e inglese. Dopo l’affermazione del regime e l’eliminazione di ogni forma di opposizione parlamentare, tra fine 1925 e inizio 1926, agli antifascisti non restava che «durare»in patria o emigrare. Ad Albertini, come ad altri oppositori, fu impedito l’espatrio (nel ’27 vengono diramate istruzioni in proposito: cfr. De Felice 1968, 459 n.1). Sulla concezione parentetica del fascismo, la sua matrice liberale e la sua fortuna nella storiografia degli anni ’50 e ’60, con un riferimento a Montale, Il fascismo e la letteratura (1945), cfr. Isnenghi 1979.
8 Scrive il fratello: «quanti amici ansiosi della libertà non seguitarono a far capo a lui per consiglio e per conforto, quanti non riposero in lui fede e speranza e non perseverarono nella loro resistenza magari passiva per virtù del suo esempio e del suo incoraggiamento?» (Albertini 1945, 230); si noti subito la qualità di questa militanza nell’«esilio interno» (una «resistenza passiva»).
9 A. Albertini insiste polemicamente sul carattere nazionale e internazionale del giornale: «il “Corriere” ha sempre avuto poco di lombardo, salvo la cronaca locale e un certo numero di redattori e corrispondenti […] La stessa compagine interna del quotidiano e dei suoi annessi, in cui cooperavano uomini di tutta Italia, ne faceva un’istituzione costituzionalmente nazionale. Forse anche per questo il “Corriere” riuscì ad essere il giornale più considerato, e al tempo stesso il più diffuso nel nostro paese: caso rarissimo in Europa e fuori d’Europa, perché di solito i giornali migliori non sono quelli che hanno maggiore smercio» (Albertini 1945, 55-56). Questo era stato possibile soprattutto per l’indipendenza dei direttori dai proprietari effettivi del «Corriere», in particolare i cotonieri, imprenditori lombardi di una destra molto conservatrice, ai quali, per contratto, era stata negata ogni ingerenza politica nel giornale. Il «Corriere» fu d’altro canto un «megafono» che «non usava, né usò mai, far la voce grossa. I successi a scoppio dello stile pirotecnico non hanno mai allettato quel giornale di cervelli e coscienze che non miravano agli effetti ma alla persuasione dei lettori, determinata dalla persuasione degli scrittori» (ibidem, 57); era sempre presente «quello che consideravamo un santo dovere: fare del nostro giornale uno strumento d’elevazione nazionale» (ibidem, 5). È noto il giudizio di Gramsci sul ruolo del «Corriere» nel processo di formazione della coscienza nazionale, tanto al livello delle classi dirigenti che a quello del pubblico popolare; il giornale dei conservatori liberali costruì un’opinione pubblica senza mai essere propriamente un «giornale d’opinione»: «per essere “statale” doveva anzi essere quasi sempre antiministeriale, esprimendo così una delle più notevoli contraddizioni della vita nazionale» (Gramsci 1975, 2261ss.). Sui Crespi cfr. Romano 1985 e Romano 1992. I Crespi, proprietari di una tipica impresa a capitale e conduzione familiare, cresciuta grazie alla speculazione sul cotone greggio durante la guerra civile americana e grazie alla «rivoluzione industriale» giolittiana del primo decennio del ’900, non erano alieni dall’attività politica parlamentare quando si trattava di difendere gli interessi della loro categoria con l’azione legislativa e la promozione di un’opinione pubblica favorevole; nondimeno il «Corriere» li rappresentò assai poco, e Albertini dimostrò di non curarsi dei loro giudizi politici: cfr. Romano 1992, 477, e Romano 1985, 75-77 (altro fu, invece, il rapporto di Albertini coi Pirelli, imprenditori moderni ormai appartenenti all’upper class).
10 Corrado Alvaro, nel profilo di Albertini di cui ci occuperemo più avanti (Alvaro 1925), parla di «teoria dei microbi che si uccidono l’un l’altro»; la metafora medica era corrente per sintetizzare questa posizione e, come vedremo, particolarmente cara a Croce nel giudizio sul fascismo. L’immagine dell’Italia ammorbata, «avvelenata», ritornerà prepotentemente nella pubblicistica politica di Alvaro del dopoguerra.
11 Su cui cfr. Albanese 2006. Il fascismo gioca a lungo su due tavoli, diviso dal «dilemma» (un «intimo tormento», secondo Mussolini) tra l’essere un «partito legalitario, di governo», o un «partito insurrezionale», di fatto procedendo parallelamente con entrambe le strategie, l’azione parlamentare e lo squadrismo, ma presentando l’ipotesi dell’«insurrezione» come una dura necessità dettata dalla crisi delle istituzioni dello Stato liberale. Non molti, quindi, seppero vedere nella marcia su Roma il compimento di un progetto organico di presa del potere che distruggeva lo Stato di cui pretendeva di essere il difensore. Tra i pochi, Salvemini parlò senza mezzi termini di «colpo di Stato»; Amendola di «eversione», cioè di ribellione allo Stato «nella sua intima sostanza etico-giuridica»; e Luigi Salvatorelli di «antiliberalismo». Più a lungo, invece, di Salvemini e Amendola, Albertini sul suo giornale continuò a tenersi prudentemente sopra le parti, cioè a deprecare la debolezza dei governi liberaldemocratici di fronte agli opposti estremismi, convinto, come altri, che questi però avrebbero finito coll’elidersi vicendevolmente (come parve succedere
proprio nel ’22), e, dopo le turbolenze, sarebbe prevalsa la «saggezza». Ancora alla fine del ’22 giustificava la strage fascista di Torino nella redazione di «Ordine Nuovo». Scriveva Salvatorelli nel ’23: «In quanto alla democrazia, in parte è anch’essa filofascista, in parte maggiore assente, per paura e per mancanza di coscienza politica. E poiché l’opinione pubblica è fatta dai giornali conservatori e democratici, ne seguono i gravi errori che una buona parte di essa commette nel giudizio dei fatti e nella valutazione dei pericoli che incombono sullo Stato e sulla nazione» (Salvatorelli 1923, 80).
12 Cfr. il Commiato di Luigi Albertini ai lettori del «Corriere» (Albertini 1945, 217).
13 Sul «Corriere» del 6 agosto 1924 Luigi Einaudi, esprimendo un pensiero che era anche di Albertini, aveva scritto un articolo in cui analizzava con amarezza l’atteggiamento indulgente e sostanzialmente opportunista dell’imprenditoria di fronte alle iniziative liberticide del fascismo: «Gli industriali […] ritengono che la tranquillità sociale, l’assenza degli scioperi, la ripresa intensa del lavoro, il pareggio del bilancio siano beni tangibili, effettivi, di gran lunga superiori al danno della mancanza di libertà politica, la quale, dopotutto, interessa una minoranza infima degli italiani, alle cui sorti essi scarsamente si interessano […] O il regime attuale, con tutte le sue restrizioni alla libertà politica o il bolscevismo» (Il silenzio degli industriali). Alimentava l’amarezza anche il comportamento della famiglia Crespi, ormai entrata nell’orbita fascista. Cfr. Ragionieri 1976, 2142. I grandi industriali del Nord avevano soffiato sul fuoco della guerra civile, incoraggiando lo squadrismo e appoggiando il fascismo: «avendo tutto da guadagnare dalla repressione delle velleità operaie, favorirono la reazione» (Albertini 1945, 176). Quanto a Einaudi, Cassandra della situazione, qualche anno prima Gramsci aveva osservato che si sforzava di persuadere gli imprenditori italiani a perseguire i loro veri interessi, con «articoli sobri, saggi, pazienti», ma veniva regolarmente frustrato nelle sue intenzioni: «Miracolo strano e stupefacente: i capitalisti non vollero mai saperne dei veri interessi, continuarono per la loro scorciatoia melmosa e spinosa, invece di saldamente tenersi sulla strada maestra della libertà commerciale totalmente applicata. E gli scritti dell’Einaudi ne divennero un eterno rimpianto, un gemito sommesso che strazia le viscere» (Einaudi o dell’utopia liberale, «Avanti!», 25 maggio 1919, in D’Orsi 2001, 695; Einaudi avrebbe più tardi riconosciuto di aver fatto al «Corriere» delle «prediche inutili»).
Serenella Baggio, «Niente retorica». Liberalismo linguistico nei diari di una signora del Novecento, Introduzione di Tullio De Mauro, Labirinti 142, Università degli Studi di Trento, 2012

La lotta al “rinunciatarismo” <16 nella questione dei confini fu per Benito Mussolini il tema principale che guidò la sua azione politica all’inizio del 1919. É in questo ambito che egli si mosse alla ricerca di alleati e di consensi. La prima occasione nella quale si concretizzò questa tendenza fu data da un discorso che Leonida Bissolati tenne a Milano al teatro Alla Scala l’11 gennaio del 1919. L’ex ministro avrebbe voluto esporre il proprio punto di vista sulle questioni territoriali in modo da poterfar sentire la presenza di tutti quegli italiani che non condividevano una politica estera imperialista e che si opponevano alla marea trionfante del nazionalismo. Bissolati non riuscì però a a esprimere in maniera efficace il proprio pensiero a causa di una forte contestazione che fu organizzata tra gli altri da Benito Mussolini e dal fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti. Numerosi elementi futuristi e nazionalisti dettero vita ad una gazzarra che interruppe continuamente il discorso di Bissolati, tanto che alla fine si parlò dell’azione di disturbo più che del discorso stesso, in modo tale che l’azione di disturbo raggiunse in pieno il suo scopo. <17 La rete di contatti che Mussolini instaurò nei primi mesi del 1919 si concretizzò il 23 marzo 1919 quando a Milano, presso il salone del Circolo Interessi Industriali e Commerciali, nacquero i Fasci di Combattimento. Il “Corriere della sera” se ne occupò il giorno successivo riportando, nella cronaca milanese, il resoconto della riunione che sancì la fondazione del nuovo movimento politico (anche se nell’articolo parlava ancora di “Fasci regionali fra gruppi d’interventisti”). Subito venne messo in rilievo il ruolo preminente di Benito Mussolini nella nascente organizzazione “Il prof. Mussolini illustrò i capisaldi su cui dovrebbe svolgersi l’azione dei Fasci e cioè: valorizzazione della guerra e di chi la guerra ha combattuto, dimostrare che l’imperialismo di cui si fa colpa agli italiani, è l’imperialismo voluto da tutti i popoli non esclusi il Belgio e il Portogallo, e perciò opposizione agli imperialismi esteri a
danno del nostro paese ed opposizione ad un imperialismo italiano contro le altre nazioni: infine accettare la battaglia elettorale sul “fatto” di guerra e quindi opporsi a tutti quei partiti e candidati che la guerra hanno avversata”. <18 Come si può notare, questa parte delle intenzioni programmatiche è molto vicina alle posizioni sostenute dal “Corriere”, sia nell’avversione alla politica imperialistica (del resto come accennato sopra Mussolini era stato tra i partecipanti del Congresso delle nazionalità oppresse), che per quanto riguarda la difesa delle ragioni dell’intervento nella grande guerra. Era al partito socialista, al partito popolare ed a Giovanni Giolitti che Mussolini si rivolgeva quando parlava di “partiti e candidati che la guerra hanno avversato”; e questi stessi erano stati i bersagli contro cui più frequentemente il “Corriere della sera” aveva lanciato i suoi strali, fin dal 1915 <19, nell’ambito della contrapposizione tra interventisti e neutralisti. Questa contrapposizione non aveva fatto altro che acuire le ragioni di fondo del dissenso del liberale Luigi Albertini nei confronti degli scenari bolscevichi auspicati dai socialisti, del clericalismo dei popolari e della politica clientelare e protezionistica praticata dallo statista di Dronero nei suoi anni di governo. Ma il programma elaborato da Benito Mussolini comprendeva anche altri elementi che non potevano
definirsi che socialisteggianti; nel suo discorso tra le altre cose il capo fascista disse: “ Il controllo sulle industrie? Noi lo appoggeremo, anche perché vogliamo abituare le classi operaie alla capacità direttiva delle aziende, anche per convincere gli operai che non è facile mandare avanti un’industria o un commercio”. <20 Anche l’abolizione del Senato, il suffragio universale (anche femminile) con rappresentanza proporzionale e la concezione repubblicana erano richieste piuttosto indigeste per i moderati di allora. E un altro dei fondatori dei Fasci di Combattimento, Michele Bianchi, uno dei futuri quadrunviri della marcia su Roma, annotò questo sbilanciamento a sinistra degli oratori che l’avevano preceduto, Mussolini compreso, con queste parole: “A me sembra che essi, in confronto del Partito socialista ufficiale, facciano a chi corre di più nel largheggiare con promesse che sarà difficile mantenere”. <21
Il 2 aprile si svolse, a Milano, una nuova riunione del Fascio di combattimento alla quale intervennero anche i rappresentanti di organizzazioni consorelle nate in altre parti del nord Italia e più precisamente in Piemonte, Liguria e Veneto. L’articolo che ne riferì, apparso il giorno successivo sul “Corriere milanese” (la parte del giornale dedicata alla cronaca locale), sottolineò il carattere antibolscevico che animava i fasci: “Nel salone di via San Paolo 10 si è tenuta un’affollata adunanza del Fascio milanese di combattimento sorto per opporre un programma di azione alla propaganda e alle minacce leniniste…” <22 Ancora più interessante è la parte dell’articolo che si occupa delle dichiarazioni programmatiche fasciste: “Si passò poi alla discussione del programma e l’assemblea escluse una precisa pregiudiziale politica, riconoscendo tuttavia necessario dichiarare che l’organizzazione non sarà di conservazione delle vecchie classi e dei vecchi privilegi. Essa si propone un programma di realizzazione, tale cioè da poter essere modificato da fatti nuovi e da nuove situazioni che si venissero creando”. <23 Sono chiare fin da queste righe le direttive che avrebbero guidato l’azione fascista nei mesi successivi e cioè il perseguimento di una politica pragmatica e non imbrigliata da incrostazioni ideologiche e che, pur muovendosi nell’ambito dell’interventismo di sinistra, non poneva pregiudiziali a nessun soggetto che avesse voluto percorrere con i Fasci un cammino politico. Questa strategia politica era diametralmente opposta a quella dei partiti di massa, i quali ponevano al centro della loro azione un programma preciso sul quale chiedevano il consenso agli elettori e sul quale basavano poi le loro politiche di governo o di opposizione, a seconda dei casi. Era, secondo quanto lo stesso Mussolini avrebbe avuto modo di dire in numerosi discorsi, l’opposizione di una politica dell’agire secondo il contesto in cui ci si trova ad operare ad una politica delle pregiudiziali ideologiche. Ma da un punto di vista critico, questa concezione può essere interpretata come il
tentativo di tenere aperte quante più porte possibili ad un movimento appena nato e non ancora abbastanza forte da poter camminare da solo. Un movimento, quello fascista, che cercava di pescare i suoi aderenti principalmente nella galassia eterogenea dell’interventismo di sinistra, ma che non rifiutava l’adesione di elementi nazionalisti <24. Più di ogni altra cosa esso sembrava essere nato per cercare di ottenere un’affermazione elettorale piuttosto che per elaborare una proposta politica precisa <25.
Il movimento fascista, in questa sua fase nascente, non fu tra i soggetti che il “Corriere della sera” considerava rilevanti nello svolgersi della vita politica italiana. Altri erano i protagonisti sulla scena in quel momento, innanzitutto i socialisti, i popolari e i liberali e tra le forze emergenti spiccava l’Associazione combattenti, che era un’organizzazione la quale aveva in dote numerosi iscritti e che rappresentava quindi un elemento di cui non si poteva non tenere conto nell’ambito della situazione politica. E in effetti grande spazio fu riservato al suo Congresso di giugno in cui venne deliberata la partecipazione dell’associazione alle elezioni politiche. Ad ulteriore conferma della scarsa considerazione riservata ai mussoliniani da parte del giornale di Albertini, si può confrontare lo spazio riservato all’atto di fondazione dei Fasci di combattimento, con quello dedicato alla nascita dell’Unione antibolscevica, un movimento che in seguito non lascerà tracce; se per Mussolini e i suoi, i due articoli sopra citati, quello del 24 marzo riguardante la fondazione e quello del 3 aprile sulla definizione del programma, non arrivano insieme a coprire più di un quarto di colonna, l’Unione antibolscevica solo per la sua fondazione ottenne quasi una colonna nel numero del 10 aprile.
Probabilmente in mezzo al fiorire di fasci di ogni sorta (tra gli altri il fascio di educazione sociale , il fascio wilsoniano, il fascio dei postelegrafonici!) non si pensava che quest’ennesima organizzazione potesse avere un ruolo importante nel paese. Questa convinzione poteva essere suffragata, in buona parte, dal fatto che i Fasci di combattimento avevano una tendenza a sinistra e che quindi loro prospettive di sviluppo apparivano poco incoraggianti, essendo quello spazio politico già saldamente occupato dal Partito socialista e dall’Unione socialista
italiana. Ed infatti nel 1919 il ruolo dei fascisti nella politica italiana sarebbe stato marginale, come avrebbero dimostrato, tra le altre cose, i risultati delle elezioni politiche del novembre successivo.
I Fasci di combattimento rifecero la loro comparsa sul quotidiano milanese il 17 aprile.
[NOTE]
16 Con “rinunciatarismo” i nazionalisti indicavano coloro che nella questione dei confini italiani erano per una soluzione minima, che escludesse ad esempio la rivendicazione della Dalmazia
17 Per conoscere tutti i dettagli sull’episodio vedere R. De Felice , op cit., pp. 487, 488
18 “Corriere della Sera”, 24 marzo 1919, pag. 3
19 In realtà il Partito Popolare nacque nel gennaio 1919, ma molti dei suoi esponenti si erano schierati, nel 1915, tra le file dei neutralisti
20 R. De Felice , op. cit.”, p. 508
21 Idem, p. 509
22 “Corriere della Sera”, 3 aprile 1919, p. 4
23 “Corriere della Sera”, 3 aprile 1919, pag. 4
24 Alla loro nascita, i Fasci di combattimento permisero la doppia iscrizione, in pratica chi era iscritto ad altri partiti o movimenti politici, poteva conservare questa iscrizione pur aderendo al fascismo, cfr. R. De Felice, op. cit., p. 500
25 Cfr. A. Tasca, op. cit. pp. 41 e sgg.
Alessandro Pezzimenti, L’avvento del fascismo attraverso le pagine del “Corriere della Sera” (1919-1925), Tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 2000/2001

Non è necessario ricordare la grande sensibilità giornalistica del capo del fascismo, scomodare il ‘fiuto’ di Mussolini grande comunicatore, per convincersi della centralità immediatamente assegnata alla stampa da un fascismo non ancora mutato in regime, subito preoccupato però di assicurarsi il controllo dell’opinione pubblica. Il decreto legge del luglio del 1923 sulla gerenza e la vigilanza dei giornali già parla da sé e senza equivoci d’una volontà normalizzatrice politicamente intrusiva e pervasiva. Il Ministero dell’Interno, durante la crisi Matteotti, è in prima linea per spiegare ai prefetti con acconce circolari cosa intenda il governo con il decreto attuativo di quel provvedimento. Tra il 3 gennaio del ’25 e il novembre del ’26 il quadro si determina e la situazione repressiva e di controllo totale si stabilizza. L’Ufficio stampa presso la Presidenza del Consiglio e l’‘ufficiosa’ agenzia Stefani forniscono gli elementi strutturali della politica informativa, mentre il quadro normativo è fissato con la legge del dicembre 1925 che crea la figura del direttore responsabile, con accresciuta responsabilità penale, e istituisce l’Ordine dei giornalisti (mai però attuato) e l’Albo, irreggimentando i pubblicisti e lusingandone lo spirito corporativo. La Federazione nazionale della stampa (Fnsi) è smantellata. Nel marzo del 1926 è creato l’Istituto di previdenza; ai primi del ’27 si forma il Sindacato nazionale fascista dei giornalisti e si procede a un’ampia epurazione nelle redazioni, in attesa che di lì a poco una nuova leva di giovani direttori occupi i vertici di responsabilità della stampa italiana.
Si vede bene come la pressione sia fortissima, ben dosata ma radicale. Luigi Albertini lascia il “Corriere della Sera” a fine novembre del ’25; poco prima Alfredo Frassati abbandona la direzione de “La Stampa”, solo per ricordare i casi più illustri. Via via nel corso del 1926 cadono tutti, uno dopo l’altro, i giornali liberi: “La Tribuna” a Roma si fonde con “L’Idea Nazionale”; sempre nella capitale passano al fascismo “Il Giornale d’Italia” e “Il Messaggero”; a Bologna è la volta del “Resto del Carlino”; a Napoli è del tutto normalizzato il già timidissimo “Mattino”. Invece, quotidiani che sono diretta espressione del fascismo si rafforzano ogni giorno di più: in prima linea naturalmente “Il Popolo d’Italia”, stella polare della stampa fascista, diretto dal fratello di Mussolini Arnaldo, a cui fanno degna corona, magari come espressione di consorterie locali e dei ras provinciali, “Il Regime fascista” di Cremona, il “Corriere padano“ di Ferrara, “Il Telegrafo” di Livorno e a Roma “L’Impero”, “Il Tevere”, “Il Lavoro d’Italia”, per limitarci alle testate più significative. Non basta. Sui giornali d’opposizione, sopravvissuti come ectoplasmi alla catastrofe politica dell’Aventino, si abbatte nel novembre del 1926 la scure delle leggi eccezionali. La dittatura a viso aperto è instaurata: da allora in poi non ci sarà più un problema di normalizzazione, di fascistizzazione, di controllo, di repressione. Rimarrà aperta soltanto la questione dell’efficace gestione di una stampa divenuta puramente e semplicemente espressione di regime.
Non è ovviamente questo il luogo in cui ripercorrere passo dopo passo tale processo. Diremo soltanto dell’estrema chiarezza d’idee mostrata da Mussolini nel discorso ai direttori dei giornali il 10 ottobre 1928 nell’intendere il giornalismo come missione, nel far coincidere la libertà di stampa con quella di servire il fascismo e unicamente il fascismo, secondo una profonda tensione pedagogica quotidianamente vigilata dal duce in persona, attentissimo lettore della carta stampata; ricorderemo il quadro strutturale entro il quale si determinerà l’indirizzo e si svilupperà il ferreo controllo su tutta la stampa: il Sottosegretariato per la Stampa e Propaganda istituito nel 1934 sulle ceneri dell’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, poi elevato al rango di Ministero dal giugno 1935 e, infine, trasformato in Ministero della Cultura popolare nel 1937. Galeazzo Ciano, il genero di Mussolini, indirizza, coordina, vigila con efficacia e bravura sin quando non diverrà ministro degli Affari esteri nel 1936. Gerarchi di prima grandezza e di prim’ordine saranno sempre preposti alle questioni della stampa lungo tutta la parabola temporale del regime, a testimonianza dell’importanza primaria attribuita dal fascismo al delicatissimo settore dell’informazione. Giornalisti e pubblicisti abili e professionalmente dotati usciranno dalla scuola del giornalismo fascista, alcuni di questi traghettati con successo anche nel post fascismo: Giovanni Ansaldo, Leo Longanesi, Indro Montanelli su tutti.
Il sistema è ben oliato e funzionerà senza intoppi per tutta la durata della dittatura. Sarà persino un po’ sornionamente consentita, in un gioco delle parti reciprocamente accettato, la stentata sopravvivenza di una voce non perfettamente allineata, quale “Il Lavoro” di Genova; oppure qua e là saranno tollerati atteggiamenti ‘frondisti’, purché circoscritti entro limiti ben precisi, mentre le indicazioni politiche dettate dal Ministero (le celebri ‘veline’) saranno una guida sicura per l’insieme dei quotidiani e dei periodici; direttive forse a volte di difficile interpretazione, in qualche caso contraddittorie, ma tutto sommato efficaci nell’uniformare contenuti e toni del lavoro giornalistico. La stampa, la funzione della stampa sotto il fascismo, costituirà insomma un tassello fondamentale e per certi aspetti decisivo nel delineare i tratti del regime totalitario sino alla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943.
Bruno Tobia, Prefazione in (a cura di) Paola Gioia e Francesco Gandolfi, Periodici italiani 1919-1943 nelle raccolte della Biblioteca di storia moderna e contemporanea, Novecento periodico. Donne e uomini nella stampa periodica del XX secolo, Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Biblioteca di storia moderna e contemporanea, Biblink editori, Roma, 2009

Va sottolineato che all’interno della classe dirigente italiana esistevano anche visioni della situazione internazionale all’altezza dei tempi, ma si trattava di eccezioni, illustri sin che si vuole, ma pur sempre eccezioni, drammaticamente minoritarie in seno al panorama politico italiano. Su tutti citeremo Leonida Bissolati, che, già nel dicembre 1918 arrivò alla clamorosa decisione di dimettersi dal governo Orlando <29, Gaetano Salvemini che nei suoi scritti <30 denunciò i tragici danni che la sciagurata condotta diplomatica di Versailles contribuì a infliggere al paese, e Luigi Albertini che nella famosa lettera del 10 aprile 1919 chiese ad Orlando di «firmare la miglior convenzione che sarà riuscito ad ottenere e torn[are] cantando vittoria non gemendo non piagnucolando».
La vicenda dello scambio di missive tra il direttore del «Corriere della Sera» e il capo del governo italiano mostrò bene quanto profondo fosse lo scontro di mentalità tra le due componenti della classe dirigente italiana. Nella lettera, Albertini ricordava come il futuro del paese dipendesse dalla sua capacità di rimanere ancorato a quel consesso in cui la guerra vittoriosa l’aveva inserito a pieno titolo, non dallo status internazionale che si pensava di ottenere arraffando più territori possibili al defunto Impero austriaco. Orlando letteralmente non capiva e rifiutava pervicacemente di rinunciare a quella che riteneva l’unica arma in grado di legittimarlo al potere: l’agitazione populistico-patriottica di cui, peraltro, e lo ammetteva candidamente pensando scioccamente che questo potesse indurre gli alleati ad accondiscendere alle sue pretese, non aveva il controllo. Dalla risposta del capo del governo al celebre giornalista è infatti evidente lo sgomento per le reazioni dell’opinione pubblica nazionalista di fronte al mancato accoglimento delle pretese territoriali italiane: “Sono sicuro che ella riconoscerà con me che nella complessa anima del popolo italiano il fattore patriottico ha un’influenza più considerevole di quanto non sembra. Io persisto nel credere che il pericolo più immediato, capace di travolgere l’Italia, possa essere costituito da una profonda delusione patriottica” <31.
Orlando e Sonnino, dunque, non tentarono nemmeno per un attimo di seguire gli ammonimenti di Albertini; per mantenersi al potere essi scelsero di cavalcare l’ondata nazionalista. A gettare il paese nel baratro scavato dal diffondersi della «sindrome della vittoria mutilata» fu quindi una gestione dell’opinione pubblica drammaticamente sbagliata.
[NOTE]
29 Sull’episodio M.G. Melchionni, op. cit., Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1981, pp. 195-216.
30 Si veda ad esempio Preludio alla seconda guerra mondiale, Milano, Feltrinelli, 1967, pp. 13-23.
31 Per la missiva di Albertini e la successiva risposta di Orlando si rinvia a Vivarelli, op.cit, pp. 612-615.
Gabriele Galli, Politica della memoria e gestione del consenso nei due dopoguerra in Italia e Francia: due dibattiti parlamentari a confronto, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2009