Comunque, si trattava di un aviatore inglese

L’ex caserma della Guardia Nazionale Repubblicana a Ravenna. Fonte: resistenzamappe.it

Se la giovinezza aveva aiutato solo in parte, la vecchiaia non fece di più per l’ultimo imputato di Brisighella, Querzani Pietro (padre di Giovanni, processato in data 26-7-45), di Enrico e di Laghi Giovanna, nato lassù nel lontano 1892. A ragione, secondo noi, poiché il Nostro era addirittura un ufficiale superiore dell’Esercito Repubblicano. E ciò, a norma di legge, sarebbe stato sufficiente per la condanna. Ma la Corte di Ravenna non si accontentava e voleva sempre verificare i comportamenti e i fatti specifici. Il Querzani era un capo vero. Non c’erano dubbi. Aveva comandato un battaglione di addestramento ed era stato inflessibile contro coloro che abbandonavano il Corpo, non accontentandosi di normali punizioni, ma denunciandoli per diserzione. Non si trattava di semplici minacce, da rivedere al momento del rientro dei ricercati, come normalmente avveniva anche con il consenso delle massime autorità politiche e militari del regime di Salò. (Mussolini e Graziani incoraggiarono più volte il perdono nei confronti degli sbandati o dei ribelli disposti a lasciare i nascondigli). Querzani, no. Voleva un esempio duro perfino con quei soldati che, in licenza, tardavano qualche giorno a lasciare le morose o i lavori dei campi.
Siamo a Ravenna città, nel mese di marzo del 1944. L’andazzo doveva terminare e il Comandante fece arrestare tre giovani rientrati con tre giorni di ritardo. Poteva bastare un po’ di gattabuia o il divieto di futuri permessi. Mica si era in zona di guerra. No, Querzani pretese il Tribunale Militare con l’accusa di diserzione e non lasciò nulla d’intentato per raggiungere lo scopo, la condanna a morte. E così, Baldassarri, Zauli e Tasselli il 24 marzo finirono fucilati presso il cimitero di Ravenna, davanti a molte reclute e al soddisfatto Comandante. Straziante fu la morte, come registrò il Vescovo Ausiliario nel suo Diario e come narreranno per anni i ravennati presenti. Non contento, il fanatico mandò a prendere da casa un certo Lega, ammalato sul serio e, da ultimo, cosa gravissima nella logica militare, s’impossessò abusivamente della bandiera del 6° Reggimento Bersaglieri. Che dire? Un ufficiale superiore che convoca un tribunale illegittimo allo scopo di infliggere la pena capitale (eseguita) contro tre poveri diavoli, pigri ma non oppositori!
Condanna ad anni dieci. Riconosciuta l’attenuante per avere aiutato in altra occasione due antifascisti. Altra attenuante, apprezzata con grand’enfasi: avere conseguito la Medaglia di Bronzo nella prima guerra mondiale sul fronte del Montello (19-20 giugno 1918). Da qui, la riduzione a cinque anni. Avrà gioco facile la Cassazione. Uno scandalo, vissuto come tale da tutti i ravennati.
Di nuovo nel faentino
Non era facile individuare le colpe, misurare gli odi, distinguere i periodi. A norma di legge si dovevano giudicare le responsabilità del periodo di Salò e tralasciare quelle del ventennio fascista. Ma nella coscienza della popolazione la cesura non trovava posto. Non era possibile che nel momento della verità, della giustizia o della resa dei conti, i veri colpevoli la facessero franca. Come si potevano dimenticare la furia distruttrice dello squadrismo e le prepotenze successive? In fondo, si chiedeva di punire i giovani al posto degli adulti, i figli al posto dei padri. I primi potevano avere qualche giustificazione. Non avevano conosciuto altro che il fascismo, a scuola, per le strade, in famiglia. Poi erano arrivate la guerra ideologica, la chiamata obbligatoria, la divisa da portare tra i borghi conosciuti. Attorno, bombardamenti e privazioni. Nessun alibi invece per i “vecchi”, fanatici sempre, che nulla di positivo avevano trasmesso ai propri figli, specie se maschi. Tomi Afro era uno di questi fascistoni da sempre e in nome del Duce aveva fatto generare alla moglie Anna Malpassi ben 9 figli. Natalino era il primogenito, e nella sua Riolo non aveva respirato altro che l’atmosfera di casa. Ed ecco che nell’anniversario della Marcia su Roma, il 28 ottobre 1943, a soli diciassette anni, si presentò volontario nella Milizia antiaerea del paese. Le giornate erano lunghe e, per fortuna, spesso inattive. Dal cielo non veniva nessuno, mentre sulle cime attorno si nascondeva il vero nemico, il partigiano. E quando partivano le spedizioni per stanarlo, tutti partivano. Natalino non si tirò mai indietro, né in direzione di Marzeno, né verso Tebano, né a S. Casciano di Brisighella, né a Cortecchia di Faggiola. In uno morirono tre patrioti, in un altro due e uno rimase ferito. Non si contarono i prigionieri. Comandava il Tenente Querziani Achille. E Natalino? Quasi sempre di guardia a qualche ponte, una volta a quello di Marignano? La Corte (16-10-45) gli credette in parte. Collaborazionista sì, ma a metà. Cinque anni invece di dieci. Tra le attenuanti: la figura del padre, dal quale per molti mesi si era staccato, solo fisicamente, per approdare alla terra veneta, dove i partigiani di Treviso l’avevano catturato in divisa da Brigata Nera. Nell’estate 1946 il Nostro uscirà di prigione, amnistiato, e nel 1981 da Bologna arriverà la completa riabilitazione. Una storia simile era quella di Romano Lanzoni di Casola Valsenio. Il padre Gino (già defunto nel 1945) lo aveva educato ai miti del tempo e alla madre, Blandina Alvisi, non restò che raccoglierne i frutti, vedere il figliolo in gabbia a Ravenna, ancora smarrito per le gravi accuse. Romano aveva solo dodici anni e mezzo quando era scoppiata la guerra, non ancora sedici quando era stato accolto nel novembre 1943 nella Guardia Nazionale, non ancora diciassette quando era passato nell’agosto del 1944 alle B.N. di Faenza, non ancora 18 quando verrà condannato a tre anni e nove mesi di carcere. Alle spalle una serie di cattivi maestri, tra cui il feroce Raffaeli. Con i camerati e i tedeschi era salito sulle montagne (Marzeno) alla ricerca dei patrioti ed era arrivato fino alle marine di Cervia, per perquisire tutte le case della Pineta (marzo 1944). Del primo bottino, in uomini, già si è detto; nel secondo solo armi, tutti fucili da caccia. Infine la prova delle prove per un uomo: assistere ad una fucilazione, quella del patriota Pasquale Asteriti, detto Pacò, arrestato e seviziato perché ritenuto responsabile dell’uccisione del milite Andrea Boggi. Siamo a Faenza nell’ottobre del 1944. Esattamente un anno dopo (16-10-45) il giovanissimo imputato Lanzoni negò la sua presenza. Ricordava bene il morituro, ma soltanto perché la sera antecedente il supplizio era rimasto di guardia alla cella. Quel giorno del 1945, ad infondere coraggio al ragazzino, c’era un vegliardo di Riolo, nato quando a Roma comandava ancora Pio IX. Si chiamava Giuseppe Bandini (nato nel 1867) e fin da bambino aveva sentito raccontare della fuga di Garibaldi dalla Romagna, diretto verso la Toscana. Ad aiutarlo erano stati i montanari del posto e persino un prete, don Verità di Modigliana. Dopo quasi un secolo la prospettiva sembra capovolta: secondo l’accusa, il Nostro, invece di aiutare un pilota alleato, colpito in azione di guerra, corre dai fascisti e ne favorisce la cattura (maggio 1944), denunciando anche Antonio Pratini che aveva cercato di salvarlo ospitandolo in casa. Una grave spiata, che porta il poveretto a Bologna dove viene condannato alla pena capitale, evitata in extremis fingendosi matto. Il vecchio, a Ravenna, si difese affermando che erano accorse circa cento persone e che lui aveva dato buone referenze sul Pratini. La Corte gli diede fiducia, argomentando che forse i tedeschi avevano seguito la traiettoria del paracadute. Giocò anche la fama dell’imputato, d’uomo dabbene. Assolto per non avere commesso il fatto. Indizi a parte, a favore del quasi ottantenne, detenuto, forse pesò il suo curriculum, assolutamente raro. Era certamente stato un fanatico mussoliniano, ma non aveva torto capello ad alcuno e mai si era arricchito. Anzi, per le sue idee era arrivato a dilapidare un intero patrimonio.
Meritevole di una qualche indulgenza poteva essere anche l’ultimo imputato di quel 16 ottobre 1945, detenuto dall’agosto. Si chiamava Fabio Zambelli, di Domenico e di Castellari Gentila, nato nel settembre del 1924 a Faenza. Nel febbraio del 1944 non aveva scelto le B.N., né la GNR, ma aveva collaborato nella Milizia Ferroviaria. Nessun misfatto. Anzi, quando i Comandi decisero di spedirlo a Suzzara, preferì disertare. Perseguitato a sua volta, aveva aiutato vari conoscenti e portava ancora i segni di una ferita infertagli dai tedeschi. Una vittima quindi? Non la pensavano così tre giovani, colleghi nella milizia, che nel gennaio del 1945 furono arrestati dai tedeschi. Il Nostro era stato chiamato (1-2-45) per dare informazioni e per i confronti di rito. Di Dante Poletti disse che non era partigiano, ma comunista; di Mario Muccinelli che aveva abbandonato il Corpo assieme a lui, per sottrarsi alla cattura dei repubblichini, feroci perché si era lasciato disarmare dai partigiani. Disastrosa infine la dichiarazione su Collina Pietro: “No, non è partigiano, ma si reputa comunista!” I tedeschi lo ringraziarono con un “Bravo!”. Il Collina non lo aveva scordato, anche se lo Zambelli, per senso di colpa, gli aveva regalato un vecchio cappotto. L’imputato riconoscerà l’imperdonabile errore e i Giudici gli diedero tutte le attenuanti possibili. Cinque anni al posto dei dieci previsti. Nel luglio del 1946, finalmente libero, il Nostro correrà di nuovo a scusarsi.
Quanto era difficile essere giovani in quei mesi! Meglio essere anziani. Una verità valida anche a guerra finita, specie per gli imputati di collaborazionismo. I primi, in divisa, avevano seminato sangue ed avevano rischiato il proprio. I secondi, in borghese, avevano aiutato nel limite del possibile l’avventura nazifascista con altri mezzi, solitamente le spiate. Talora i giovani avevano ucciso e talora se n’erano vantati per piacere alle ragazze. Gli esperti, invece, sapevano che non era buona cosa vantarsi neppure delle conquiste amorose. Le differenze di stile emergeranno anche in giudizio, con le relative conseguenze. Questo si ricava dagli ultimi processi di ottobre, con imputati dell’area in esame. Nello Benericetti di Brisighella a 22 anni aveva già perso il padre Luigi e la madre, Beatrice Doni. Stanco di fare il bracciante, nel 1944 gli era parso ancora più faticoso salire da sbandato sulle montagne. Meglio la divisa delle Brigate Nere. Buon stipendio, pasti sufficienti ed un po’ di potere sui pochi uomini rimasti in giro e sulle molte “giovinotte” che non andavano di fretta per le contrade di San Cassiano e Fognano. A queste raccontava d’imprese eroiche personali, la cattura di un partigiano, consegnato ai tedeschi, l’uccisione di un altro con le proprie mani. Tutte “sbruffonate”, un anno dopo. Ma era certo che a Ponte Marignano di Brisighella erano stati uccisi cinque patrioti ed altri cinque nella zona di S. Stefano. A dire di Nello, nel primo caso aveva appena udito i colpi in lontananza, poiché era di guardia ad un posto di blocco, nel secondo solo bugie per impressionare alcune fanciulle, che mai rivide dopo il trasferimento a Lavezzola, Comacchio e al nord. La Corte (25-10-45) accettò la versione e dimezzò la pena. Cinque anni. Nel luglio successivo, il Nostro era fuori, a raccontarla alle ragazze di qualche altra città.
Ugo Marcucci di Faenza, invece, aveva 40 anni nel 1944. Un giorno, come di solito, stava passeggiando con certo Carlo Archi nei pressi di casa sua. Arrivati ad un ponticello, notarono un individuo d’età imprecisata dal fare sospetto. Subito corsero al telefono per segnalarlo a chi di dovere per gli accertamenti del caso, come recita, con linguaggio burocratico, la denuncia. Poiché il Marcucci era iscritto al Fascio, un’automobile prontamente accorse. Dell’esito delle ricerche egli dirà di non avere avuto notizia. Strano. Non soddisfare una curiosità naturale, per la quale bastava un altro colpo di telefono. Comunque, si trattava di un aviatore inglese. Il Marcucci, arrestato per collaborazionismo, perfezionerà il suo racconto con un tocco magistrale. In quel periodo era tutto un susseguirsi di furti di pollame! Gli andò buona. Assolto con formula piena.
Elios Andreini e Saturno Carnoli, Camicie Nere di Ravenna e Romagna. Tra oblio e castigo, Edizioni Artestampa, 2006