Dalla Calabria a lavorare nel Terzo Reich

Il prefetto di Cosenza insisteva sovente sulla cronica disoccupazione degli edili. Per esempio il 5 dicembre 1940 osservava che mentre «La manodopera risulta[va] interamente assorbita nel settore commerciale ed agricolo […] per le categorie industriali si registra[va] un aumento di disoccupazione nel settore edilizio» <7.
[…] Nel mondo contadino la piaga della disoccupazione stagionale era frequente e per renderla meno gravosa i lavoratori tendevano a spostarsi da un luogo all’altro della provincia, tra una provincia e l’altra e addirittura in regioni diverse pur di non rimanere senza impiego. tale mobilità affondava le proprie radici in tempi relativamente remoti: Piero Bevilacqua ha sottolineato che nell’Ottocento i contadini, tranne che non fossero proprietari di appezzamenti di terre di medie dimensioni, erano soliti integrare al lavoro nelle rispettive proprietà mansioni consimili all’interno di proprietà altrui, dislocate in zone distanti dalle loro, attraverso spostamenti stagionali: nelle pianure del Lazio e prima di tutto nelle grandi aziende agro-pastorali dell’Agro romano erano i pastori e i contadini che provenivano dalle colline circostanti, ma soprattutto dalle montagne delle Marche e dell’Abruzzo a impiegarvi il proprio lavoro stagionalmente <12.
[…] Anna Treves ha fatto notare che nel Ventennio, per reazione alla progressiva chiusura dei tradizionali sbocchi migratori verso l’estero la mobilità interna degli italiani si era accresciuta <19.
[…] «L’Italia dei contadini, dei poveri diavoli con mezzo ettaro di terra, dei braccianti e dei piccoli proprietari, quell’Italia che da decenni conosceva nell’emigrazione un’alternativa ai propri mali non scomparve di sicuro solo perché gli Stati Uniti e gli altri paesi avevano sbarrato le porte. ora rimaneva in Italia una gran massa di gente che, come prima stava male, ma che aveva solidamente acquistato in decenni di esperienza la prospettiva di emigrare: ed è intuitivo – anche a prescindere da dati e statistiche – che chi non si rassegnava ad una misera esistenza senza nessuna speranza nel proprio villaggio, trovandosi sbarrata la via dell’espatrio, tentasse la fortuna altrove in Italia» <21.
[…] Secondo Masi l’espediente di trasferirsi a Roma o nel Nord Italia diventava così per i contadini un rimedio agli interventi del regime, considerati fallimentari: da quelli relativi alle bonifiche delle zone di S. Eufemia, Rosarno, Sibari, val del Neto, alla emigrazione dei calabresi nelle colonie, oppure anche in Germania. Frattanto le migrazioni interne si erano accresciute raggiungendo una media di 10.000 spostamenti annui, sia per lavori agricoli, sia per lavori industriali <30.
[…] Una analisi puntuale delle dinamiche micro e macro-storiche dei flussi migratori dei calabresi sotto il fascismo richiederebbe la presenza di studi relativamente al loro spostamento per lavoro nelle colonie africane, in Albania e verso la Germania di Hitler <33. Purtroppo il quadro delle ricerche è deficitario nel merito <34. È possibile che tali nuovi spostamenti, soprattutto quello verso la Germania, abbiano lasciato tracce durature nei modelli migratori e che proprio a partire dal nazismo l’emigrazione dei meridionali si sia «germanizzata» <35.
[…] Perché se è vero che a emigrare in Germania furono prima del tornante del 1938 soprattutto settentrionali, particolarmente veneti – una statistica del 1911 «registra[va] insieme a 71 […] siciliani, solamente 23 calabresi […]» – pure, in un’ottica microanalitica, sarebbe interessante capire chi fossero queste persone e se e cosa avessero lasciato dietro di loro. Gli spostamenti degli italiani in terra tedesca intervenuti tra il 1938-1943 vengono in secondo luogo letti erroneamente come «forzati» <43, qualcosa di diverso rispetto ai flussi ritenuti spontanei che a lungo si erano diretti verso europa ed oltreaoceano.
Il Sud deve avere contribuito in maniera significativa a rendere consistente l’emigrazione in Germania a partire almeno dal 1940, se si considera che stando ai riscontri documentari finora rinvenuti dalla sola Sicilia si erano spostate oltre 15.000 persone, cifra che dovrà essere ulteriormente precisata <44. Anche il flusso dei calabresi, pur se più contenuto, sembra essere stato discreto. In una relazione del settembre 1940 il prefetto di Cosenza osservava che «la disoccupazione operaia [andava] alquanto attenuandosi a seguito della partenza di numerosi lavoratori per la Germania e l’Albania» <45. Effettivamente, il 30 agosto precedente «Calabria fascista » aveva titolato un suo articolo “La partenza di 200 lavoratori per la Germania”: «La settimana scorsa hanno lasciato la nostra città diretti in Germania duecento lavoratori della nostra provincia. Alla partenza dei lavoratori ha assistito una folla numerosa di Camicie Nere che ha tributato ai partenti calorose manifestazioni di simpatie. Il vice federale reggente ed il dirigente dell’Unione dei lavoratori dell’industria hanno rivolto ai lavoratori cameratesche parole di saluto e di augurio. Ai lavoratori a cura della Federazione dei Fasci femminili sono stati distribuiti pacchi-dono e sigarette. Alla partenza del treno i lavoratori hanno improvvisato una entusiastica manifestazione al Duce alla quale si è associata la folla che gremiva il piazzale della stazione» <46.
Al settembre successivo la cifra era già salita a 386 <47.
[…] Nonostante dal Cosentino fossero partiti quell’anno i contingenti più numerosi per il Reich, il prefetto di Cosenza non mancava presto di lamentare che la disoccupazione nel settore edilizio si era accresciuta e il 5 gennaio del 1941 chiariva che essa «presenta[va] gli stessi dati del mese precedente salvo un lieve aumento nel settore industriale edilizio dovuto alla stasi nelle costruzioni specie d’iniziativa privata» <51, segno che gli espatri non erano in quella fase ancora in grado di far rientrare del tutto la disoccupazione stagionale, soprattutto edile, nel Cosentino. E in effetti al febbraio del 1941 i senza lavoro nell’edilizia risultavano essere ben 2.696 <52, benché da lì all’estate la situazione sarebbe sostanzialmente cambiata, per l’invio massiccio di operai in Germania e per l’emigrazione per la prima volta anche di contadini calabresi.
Nel 1941 furono 228.563 italiani a partire, di cui 174.052 erano operai industriali: nel 1940 la Germania aveva richiesto che dalla penisola partisse un contingente molto corposo, innanzitutto per l’approssimarsi della «Operazione Barbarossa», che richiedeva un ingente numero di operai da sostituire alla manodopera tedesca in partenza per il fronte; un ulteriore motivo che in seguito sarebbe emerso erano le cattive prove date dall’Italia nella guerra parallela <53.
[…] L’impiego di queste persone nel Reich assumeva particolare rilievo nel caso dei meridionali perché a quanto pare «il reclutamento per la Ruhr [aveva avuto] successo solo nel [sud] […]»: così a partire dal 26 marzo si erano diretti in Germania 538 lavoratori del foggese, 2.200 agrigentini [e] minatori provenienti dal palermitano, dal messinese, dal trapanese, dall’ennese, dal catanese, dal siracusano, dal ragusano e ancora dalle province di Cosenza, di Catanzaro e di Reggio, per citare solo alcune delle località coinvolte dal reclutamento. La mappa dei luoghi di origine vedeva in ogni caso «la netta prevalenza del Sud».
Il lavoro era pesante e spesso i meridionali si trovavano impreparati ad affrontarlo, tant’è che «quasi immediatamente» sarebbero sorti problemi e la Bezirksgruppe Steinkohlenbergbau – Ruhr (SKBBr, gruppo distrettuale miniere di carbone della Ruhr) avrebbe preso «una posizione dura invitando i direttori delle miniere a denunciare subito gli operai riottosi alla Gestapo di Düsseldorf, che [avrebbe provveduto] ad infliggere loro qualche settimana di detenzione».
[…] A maggio lasciavano il cosentino e il catanzarese per la prima volta anche lavoratori destinati a essere impiegati come agricoltori nel Reich: si trattava nel primo caso di 200 persone e nell’altro di ben 500 unità, oltre che di una vera e propria novità per il sud Italia – se si fa eccezione per il barese – poiché negli anni precedenti sembrano non essere stati ingaggiati lavoratori dal meridione.
La ragione dell’esclusione stava precipuamente nel fatto che gli italiani venivano impiegati «nelle colture industriali: bietole, fibre tessili, orzo, segale, patate e per la mietitura e trebbiatura del grano». «E si trattava di un tipo di colture prevalenti nell’Italia settentrionale», ciò che chiariva l’esclusione dal reclutamento dei meridionali. I calabresi provenienti dalla provincia di Catanzaro impiegati come agricoltori nel Reich erano stati almeno 1.010.
La ragione della svolta va inquadrata nelle complesse trattative che si tennero a Roma dal 17 al 23 gennaio 1941 quando i tedeschi chiesero all’Italia ulteriori «60.000 braccianti, di cui 50.000 stagionali e 10.000 con contratto annuale» per il progressivo esaurirsi delle proprie riserve di braccia e il persistente bisogno di agricoltori. Fu in quel contesto di impellente necessità che l’Italia volle «estendere anche ad altre province il reclutamento della manodopera», dando così sfogo al dilagante disagio dei contadini del Sud Italia, che con l’ingresso del paese nella guerra si erano vista serrata anche la porta (stretta) della Libia.
[…] Sebbene il reclutamento di famiglie coloniche per la Libia avrebbe dovuto in origine essere appannaggio dei meridionali, nei fatti finì col coinvolgere molto più le regioni del settentrione, soprattutto per l’alto tasso di disoccupazione presente in val Padana, in particolare in alcune aree del veneto, e per l’essere quelle zone «tradizionalmente irrequiete e propense al socialismo»
[…] Invece, nella seconda ondata di immigrazione, nel 1939, tra gli 11.000 componenti i partenti per la Libia, quasi tutti ripartiti tra la Tripolitania e la Cirenaica, i meridionali furono un numero maggiore, pur conservando il Nord «una predominanza assoluta». Ma dei catanzaresi ne emigrarono solo 217 – un numero più basso rispetto all’anno precedente – mentre non sono stati rinvenuti dati sui reggini e sui cosentini.
Si trattava certamente di cifre piccole e Klaus Bade ha osservato – con qualche ragione – che la politica coloniale fascista era stata «un fiasco» essendo stati trasferiti al 1930 nelle colonie solo 50-60.000 italiani, concentrati soprattutto a Tripoli e Bengasi. Negli anni trenta la migrazione coloniale era salita a 400.000 unità, ma con rientri rilevanti: alla fine degli anni trenta sarebbero rimasti nella quarta sponda non più di 80.000 italiani, mentre nell’AOI la cifra era scesa a 60.000 <71.
[…] Se si parte dal presupposto che le statistiche sulla disoccupazione contadina non rendono conto della consistenza effettiva dei senza lavoro – posto che tra gli occupati venivano conteggiati quanti possedessero anche quantità residuali di terra – allora si deve supporre che il pressoché unico canale di sfogo, oltre a quello interno, della Libia non potesse essere sufficiente a placare il loro malessere. Gli sbocchi lavorativi in Germania, in AOI e in Albania erano nel caso dei meridionali sostanzialmente riservati agli operai: Stefano Gallo ha osservato che «L’assenza dei contadini dai programmi migratori del tardo fascismo e la promozione di lavori di carattere fluttuante e precario, simili a quelle della tanto deprecata classe bracciantile, erano l’implicita ammissione di occasioni di sconfitta di un indirizzo politico».
[…] che spesso i lavoratori dichiarassero di svolgere mansioni diverse da quelle proprie è del resto comprovato anche nel caso degli ingaggi in Albania dove si recarono molti «sarti, guantai, barbieri» invece degli sterratori richiesti. Nel 1940 sembra che in 200 fossero pronti a giungervi dalle zone malariche del cosentino e a seguito di numerose proteste sollevate dai castrovillaresi per la selezione di due soli lavoratori tra loro al posto dei 50 inizialmente prospettati, l’ufficio di collocamento provinciale in una missiva alle autorità locali lamentava che il ritardo del rappresentante della ditta «Aureli» nel raggiungere le località della provincia per l’ingaggio dei cosentini da mandare in Albania – previsto originariamente per il 23 luglio – si era ripercorso sull’andamento delle selezioni che avevano dovuto essere fatte «in fretta e furia».
[…] dopo i primi scaglioni di operai e contadini calabresi andati oltralpe nella primavera del 1941 le partenze per il Reich si erano fatte febbrili: a fine maggio ulteriori 250 lavoratori dell’industria si erano diretti in
Germania, mentre il 14 giugno era stata la volta di «un’altra centuria». Dal reggino a fine giugno si erano mossi 300 operai e dal cosentino qualche giorno dopo era «partito […] il settimo scaglione» di lavoratori, che portava la cifra degli operai trasferiti fino a quel momento in Germania a 1.400.
I reclutamenti per il Reich sarebbero proseguiti anche oltre benché a partire dalla seconda metà del 1941 le fonti documentarie e a stampa non offrano quasi indicazioni in proposito.
[…] Con le partenze dei contadini e degli operai dal cosentino, dal reggino e dal catanzarese per la Germania si diede sollievo alla economia calabrese anche per le rimesse che questi mandavano alle proprie famiglie e che ne rendevano più alti gli standard di vita. Certo, c’era miseria e l’entrata in guerra dell’Italia, i razionamenti e il collasso dei trasporti rendevano difficile persino procacciarsi i generi di consumo di maggiore urgenza: la farina, la pasta e il pane.
[…] Le restrizioni poste all’emigrazione dal fascismo a partire dal 1927 avevano impedito a numerosi disoccupati e lavoratori disagiati di abbandonare il paese producendo, come si è visto, una accresciuta mobilità interna e graduali spostamenti verso il Nord. Il 1935, con l’avvio massiccio di operai in Albania aveva rappresentato una svolta resa ancora più significativa dalla colonizzazione della Libia e dall’inoltro di lavoratori in Albania e in Germania. Non sappiamo quanto le politiche del lavoro sperimentate nelle colonie siano state davvero incisive: uno studio che possa ricostruirne i risvolti deve ancora essere intrapreso tanto per il territorio nazionale quanto per la Calabria.
Certamente significativo per il Sud fu il tornante del 1940, per la possibilità di spedire forze lavorative nel Reich: furono in tanti a voler partire, anche se con il procedere del conflitto sarebbe cominciato ad affiorare con pari forza pure il desiderio di tornare.
[…] Quanto si erano germanizzati i calabresi e quanto si erano fascistizzati nella loro esperienza in Germania? Non lo sappiamo ancora, ma è possibile che la partenza per il Reich di lavoratori provenienti dal Sud abbia gettato un germe significativo per la futura, massiva meridionalizzazione dell’emigrazione italiana oltralpe.
[NOTE]
7 ASCS, Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero, b. 29.
12 Piero Bevilacqua, Società rurale e emigrazione, in Piero Bevilacqua, Andreina De Clementi e Emilio Franzina (a cura di), Storia dell’emigrazione italiana, Vol. I, Partenze, Donzelli, Roma 2001, p. 97.
19 ANNA TREVES, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Einaudi, Torino 1976, p. 113.
21 ANNA TREVES, op. cit., p. 113.
30 GIUSEPPE MASI, Movimenti migratori in Calabria nel periodo fascista, in «Storia contemporanea», 1, 1986, pp. 23-24.
33 A quanto mi consta, e ringrazio Nicola Labanca per la segnalazione, l’unico lavoro di respiro nazionale allo stato esistente pur se non ancora esaustivo sulla migrazione per lavoro degli italiani in Africa orientale è quello di GIAN LUCA PODESTA’, Il mito dell’impero: economia, politica e lavoro nelle colonie italiane dell’Africa orientale, 1898-1941, Giappichelli, Torino 2004.
34 Sull’emigrazione degli italiani nel Terzo Reich cfr. i lavori fondamentali di Brunello Mantelli, «Camerati del lavoro». I lavoratori italiani emigrati nel Terzo Reich nel periodo dell’Asse 1938-1943, La Nuova Italia, Firenze 1992, e Cesare Bermani, Al lavoro nella Germania di Hitler. Racconti e memorie dell’emigrazione italiana 1937-1945, Bollati Boringhieri, Torino 1998.
35 A propendere per una ipotesi di rottura tra le due fasi sembra essere invece Roberto SALA, L’emigrazione italiana in europa dal boom economico alla fine dei grandi flussi, in PAOLA CORTI, MATTEO SANFILIPPO (a cura di), Vol. 24, Migrazioni cit., pp. 410-420.
43 vedi in questo senso la lettura di CLAUDIA BALDOLI, Un fallimento del fascismo all’estero cit., p. 221.
44 Si tratta di una cifra che si attesta su numeri minimi, se si considera che i dati fanno quasi esclusivo riferimento al 1940 e alla prima metà del 1941, poiché le notizie sul 1942 e sul 1943 sono allo stato assai scarne, mentre non sembra ci sia stata emigrazione nel 1938 e nel 1939. Il fenomeno è quindi sicuramente più consistente. Mi permetto in proposito di citare il mio recente saggio, dal titolo Siciliani nel Terzo Reich, in Corradina Polto (a cura di), Echi dalla Sicilia, Pàtron, Bologna 2015, pp. 142-155.
45 ASCS, Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero, b 29.
46 «Calabria fascista», 30 agosto 1940.
47 B. MANTELLI, «Camerati del lavoro» cit., p. 179.
51 ASCS, Gabinetto di Prefettura, Fondo Macero, b. 29, relazione prefettizia sulla situazione economica e politica del 5 dicembre 1940, cit. e del 5 gennaio 1941.
52 IVI, b. 182, Prospetto sulla disoccupazione nel cosentino per il febbraio del 1941.
53 B. MANTELLI, «Camerati del lavoro» cit., p. 33 e pp. 260-261.
71 K. BADE, Europa in Bewegung cit., p. 261.
Giovanna D’Amico, I calabresi in Germania e altrove. Un tassello nella storia dell’emigrazione durante il fascismo in (a cura di) Pantaleone Sergi, La Calabria dall’Unità al secondo dopoguerra. Liber amicorum in ricordo di Pietro Borzomati, Deputazione di Storia Patria per la Calabria con la collaborazione di ICSAIC, 2015

Agli emigranti calabresi si offrì l’opportunità di far valere l’abilità acquisita nei mestieri artigianali (calzolai, barbieri o altro) esercitati in patria. È bene aggiungere in proposito che a partire dal 1921, il Commissariato Generale dell’Emigrazione organizzò dei corsi per l’addestramento degli emigranti nei mestieri maggiormente quotati all’estero, per mettere in grado coloro che intendevano emigrare di trovare più facile collocamento a buone condizioni, in quei mercati del lavoro nei quali c’era richiesta di lavoratori qualificati. Per la Calabria furono previsti sette corsi per operai edili <41.
41 CGE, Azione del Commissariato: corsi rapidi per la qualificazione operaia degli emigranti, in «Bollettino dell’Emigrazione», 12, 1923.
Antonio Cortese, Il movimento migratorio in Calabria dall’Unificazione ai giorni nostri, Rivista calabrese di storia del ’900, ICSAIC, n. 2, 2015

Chiuse le frontiere e soppresso il Commissariato generale dell’emigrazione, sostituito, a sua volta, da una Direzione generale alle dipendenze del Ministero degli Affari Esteri, cambiava la rappresentazione stessa dell’emigrazione. Non più trasferimento all’estero per motivi di lavoro, ma parte integrante della politica estera italiana. Per riassorbire, tuttavia, le eccedenze lavorative, agli italiani era proposta la possibilità di seguire alternative insolite. Si favoriva, attraverso severi vincoli anti-urbanistici, l’emigrazione interna nelle aree del latifondo o nelle zone di bonifica, o il trasferimento nelle colonie africane, bisognose di manodopera, Libia, Eritrea e, successivamente, Etiopia. Nell’ottica della politica fascista, la funzione riservata alla Calabria era quella di una regione esente da disoccupazione e pertanto nelle condizioni di poter ricevere comitive di operai provenienti da altre province. E questo, in conformità alla politica demografica, era fattibile, e anche spiegabile, perché nella legislazione relativa alle migrazioni interne, le stesse erano pianificate non con la finalità di circolazione volontaria, ma solo di mobilità temporanea o stagionale in quei compartimenti o città dove la richiesta era tale da poter rispondere a determinate necessità <30.
[…] Tra le occupazioni nei servizi industriali incidevano più di tutto quelli per la bonifica. A S. Eufemia, nell’agosto del 1930, si aveva un massimo di 5.000 operai, di cui 900 arrivati da alcune circoscrizioni settentrionali. Nella stessa piana era attuata anche una colonizzazione agricola con l’insediamento di alcune famiglie provenienti dal Polesine <31. Questi dati, messi insieme con quelli del reparto manifatturiero di Crotone, dove erano operanti alcuni complessi industriali per la lavorazione di concimi chimici, ammoniaca sintetica e zinco elettrolitico, imprimevano alla classe lavoratrice della provincia di Catanzaro una mobilità interna che risultava tra le più alte del regno, anche se la stessa era caratterizzata da brevi spostamenti che avvenivano da comune a comune.
D’altro canto anche gli altri rimedi, rispolverati per assorbire il peso sempre maggiore del disagio economico, non corrispondevano agli intendimenti prospettati.
Il reclutamento messo in atto per l’Africa e controllato da meccanismi geopolitici, pur concepito quale operazione di massa con il duplice scopo di allentare la disoccupazione e di agire da valvola di sfogo al sempre accresciuto eccesso demografico (in Calabria tra il 1921 e il 1936 il saldo positivo era di 290.786 abitanti, quasi equivalente a quello riscontrato nel primo sessantennio di vita unitaria, 310.369), o quello ulteriore per l’Albania e la Germania, a guerra iniziata, solo parzialmente si rivelava in grado di assorbire la crescita demografica, per cui anche se si aveva una sensibile riduzione della disoccupazione, non solo le difficoltà economiche rimanevano sempre notevoli ma addirittura segnavano una recrudescenza.
[NOTE]
30 Giuseppe Masi Masi, Movimenti migratori in Calabria nel periodo fascista cit., p. 82.
31 Giuseppe Masi, Bonifica ed insediamenti rurali in una zona della Calabria durante il fascismo, in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», 1981, pp. 167-190.
Giuseppe Masi, La Calabria e l’emigrazione: un secolo di partenze (1876-1976) in CALABRIA MIGRANTE (a cura di V. Cappelli, G. Masi, P. Sergi), Suppl. a Rivista Calabrese di Storia del ‘900, 1, 2013

Alla metà di aprile 1937 giunge all’Ambasciata italiana di Berlino la richiesta da parte tedesca di assumere un piccolo contingente di braccianti, 2.500 in tutto. Le autorità del Reich preferirebbero venissero dal Sudtirolo. È poca cosa, ma l’Italia ha circa 150.000 disoccupati nel settore agricolo <10, e perciò conviene alle autorità aderire all’invito nella speranza, l’anno successivo, di poter aumentare il contingente con braccianti provenienti dalle regioni più colpite dalla disoccupazione (Veneto, Emilia).
Il 28 luglio si giungerà ad un primo accordo, poi integrato da un protocollo addizionale il 3 dicembre successivo <11; si conviene che «nell’anno 1938 la cifra dei lavoratori potrà raggiungere il numero di 10.000 e fino a quello di 30.000».
Nel 1938 partirono 31.071 braccianti <12, che divennero 36.000 nel 1939; dal 1940 il totale annuale si stabilizzò attorno alla cifra di 50.000. Nel 1943 non si ebbero partenze.
Accanto ai braccianti, il Terzo Reich chiede all’alleato italiano anche edili e minatori <13. Dei primi, dall’autunno del 1938 a tutto il 1939, ne passeranno il Brennero 9.500, 3.000 destinati alla costruzione delle officine Volkswagen a Fallersleben, gli altri diretti a Salzgitter, dove è aperto il cantiere della grande acciaieria della Hermann-Göring-Werke.
La questione dei minatori resta per il momento in sospeso; sarà ripresa più avanti.
Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra. Obiettivo iniziale del gruppo dirigente di Roma è condurre una “guerra parallela” <14. Le velleità del regime devono però ridimensionarsi in fretta, visti i rovesci militari sia nell’Africa del Nord sia in Grecia: in entrambi i casi solo l’intervento di forze tedesche evita la sconfitta. Alla dirigenza nazionalsocialista diviene chiaro che l’alleato mediterraneo è di scarsa utilità dal punto di vista militare ma richiede enormi rifornimenti in materie prime e carbone. Conviene, quindi, cercare di utilizzarne al massimo il potenziale produttivo, in modo particolare per quanto riguarda la manodopera.
È così che, all’inizio del 1941, arrivano alle autorità fasciste richieste consistenti e dettagliate: nel gennaio si discute l’assunzione di 54.000 lavoratori industriali (edili e minatori, questi ultimi destinati alla Ruhr); pochi giorni dopo le trattative si riaprono su una richiesta tedesca di altri 200.000 lavoratori industriali; le autorità italiane ne offrono in tutto 150.000, così suddivisi: 50.000 dell’industria metallurgica, siderurgica, meccanica, 30.000 da altri settori ma suscettibili di essere impiegati in quei tre rami, 70.000 da altre branche produttive. Ed ancora non basta: con una nota del 19 giugno successivo il governo del Reich chiede altri 100.000 operai industriali <15.
[NOTE]
10 Archivio Storico-Diplomatico del Ministero degli Affari Esteri (d’ora in poi ASMAE), Roma, Affari Politici (d’ora in poi AP), busta 40, verbale del 22 luglio 1937.
11 Si veda, in proposito, A. DAZZI (a cura di), Accordi fra l’Italia e la Germania in materia di lavoro e assicurazioni sociali 1937-1942, Roma, Tipografia riservata del MAE, 1942; pp. 9 e ss.; inoltre ASMAE, AP, busta 40, nonché Bundesarchiv (d’ora in poi BA), Berlin, Reichsnährstand, R 16, buste 167-168, e PA/AA, R V, AR 11, Italien/1.
12 Cfr. Rurali di Mussolini nella Germania di Hitler, Roma, Confederazione Fascista dei Lavoratori dell’Agricoltura-Ufficio Propaganda, 1939.
13 Si vedano le note dell’ Ambasciata tedesca di Roma, in Politisches Archiv des Auswärtigen Amtes (d’ora in poi PA/AA), Bonn, Botschaft Rom – Quirinal, W 1a/1.
14 Rinvio a E. COLLOTTI, L’Italia dall’intervento alla “guerra parallela”, in F. FERRATINI TOSI, G. GRASSI, M. LEGNANI (a cura di), L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, Milano, Angeli, 1988, pp. 15-43.
15 Cfr. DAZZI, Accordi…, cit., p. 182 e ss.; nonché BA, Reichsanstalt für Arbeitsvermittlung und Arbeitslosenversicherung, 39.03/353 – Italien; inoltre Archivio Centrale dello Stato (d’ora in poi ACS), Roma, Presidenza Consiglio Ministri, 18/4.21117, del 14 luglio
Brunello Mantelli, Gli italiani in Germania 1938-1945: un universo ricco di sfumature in La deportazione e l’internamento di civili e militari in Germania, Quaderni Istrevi, n. 1/2006

“Nella prima fase, cioè quella che va dal 1938 al 1942, lo spostamento di braccia italiane oltre Brennero avvenne all’interno di un’alleanza: l’emigrazione fu organizzata tramite trattati tra Roma e Berlino” spiega lo storico dell’Università della Calabria Brunello Mantelli, tra i più attenti studiosi italiani che hanno approfondito il tema del reclutamento di manodopera nell’Italia occupata. “La Germania aveva bisogno di braccia, l’Italia ne aveva in eccesso e non riusciva ad occuparle – aggiunge Mantelli -. Non era facile però per il regime fascista giustificare la ripresa dell’emigrazione all’estero” dopo anni passati a denigrare “l’italietta liberale e giolittiana” che “aveva favorito i flussi migratori”. Allora bisognava travestire le partenze come espressione di “solidarietà assiale”, all’interno cioè dell’asse tra il primo fascismo, quello di Mussolini, ed il più importante e forte dei suoi imitatori, il nazismo di Hitler.
“In questa fase gli emigrati possono mandare denaro a casa, e quindi parecchie migliaia di famiglie, campano con il denaro che arriva da oltre Brennero – prosegue Mantelli -. La seconda fase, non poco diversa, va dal 1943 al 1945”. Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia diventa un “alleato occupato”, ma la Germania continua, dato il prolungarsi della guerra, ad aver molta fame di braccia. Basti pensare che complessivamente i lavoratori e le lavoratrici nel Reich arrivano a 500.000.
“Oltre a trattenere nei propri confini almeno 100mila dei lavoratori italiani che vi erano giunti prima della crisi dell’estate 1943, Berlino si affretta ad utilizzare come manodopera la grande maggioranza degli IMI, cioè degli Internati militari italiani fatti prigionieri dalla Wehrmacht subito dopo l’8 settembre – sottolinea Mantelli -. Furono oltre 650mila i soldati e sottufficiali italiani internati”.
Vincenzo Grienti, Il lavoro coatto in Germania. Quelle braccia italiane che servirono al Reich, Avvenire.it, 14 dicembre 2021

Quando, nel 1939, Hitler decise di invadere la Polonia e scoppiò la Seconda Guerra Mondiale, il Terzo Reich non era sufficientemente preparato a uno sforzo bellico di lunga durata sotto diversi punti di vista: in particolare, era a corto di manodopera, fondamentale per garantire la produzione bellica.
Nelle prime fasi della guerra il nazionalsocialismo poté contare su ulteriori riserve di manodopera garantite dagli stati che venivano conquistati; il reclutamento, sia su base volontaria sia su base coatta, mirava a raccogliere un numero sufficiente di lavoratori da destinare al settore agricolo in primis e solo successivamente anche al settore industriale e traeva ispirazione dall’esperienze per l’impiego della manodopera straniera del Reich guglielmino durante la Grande Guerra. L’ideologia del nazionalsocialismo verso l’inferiorità delle popolazioni soggiogate ostacolò, tuttavia, di fatto gli obiettivi economici. Inoltre, pur perseguendo un obiettivo di guerra totale il Terzo Reich non aveva preparato per tempo precisi programmi sull’impiego massiccio della manodopera straniera. Da quanto emerge dalla memorialistica, le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori coatti (intesi come internati dei campi di concentramento, prigionieri di guerra e lavoratori civili) furono pessime e al limite del sostentamento. Oltre al popolo ebraico, prima vittima del nazionalsocialismo in termini di orrore perpetrato e numero dei morti, una sorte crudele spettò ai prigionieri di guerra e ai lavoratori civili sovietici oltre agli Internati Militari Italiani, oggetto della vendetta dei tedeschi in quanto considerati traditori.
Sonia Pagani, Il lavoro coatto nel Terzo Reich: prassi nell’economia di guerra e il dibattito sugli indennizzi, Tesi di laurea, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, 2020