Fa’ o Signore che io non diventi fumo

Liana Millu, s.d. (fotografia pubblicata per gentile concessione dell’amica Miryam Kraus) – in “Storia e memoria”, ILSREC, n. 1, 2014

Conosco la signora Millu da quasi vent’anni. L’avevo sentita la prima volta,
nel salone di Palazzo Doria -Spinola durante uno di quegli incontri fra esponenti
della Resistenza e gruppi di studenti di scuola media superiore che io
stesso contribuivo ad organizzare, da assessore delegato alla pubblica istruzione.
Sapevo che era autrice di libri (che allora non avevo ancora letto) e mi
colpì già in quella circostanza per il controllo totale del comportamento, l’assenza
di qualsiasi retorica nei temi e lo stile preciso e raffinato dell’esposizione.
Da allora ho avuto modo di incontrarla, ascoltarla e persino di partecipare insieme
a lei a diverse iniziative culturali e politiche, tendenzialmente simili a
quella citata e le mie impressioni non sono mutate, ma gli argomenti di conoscenza
sono cresciuti e si sono fatti più complessi. È per questo che, in previsione
di un momento quasi celebrativo come può essere l’omaggio che si è pensato
di farle per il suo significativo compleanno, ho raccolto l’idea di affrontare,
nel corso di una conversazione, il tema della storia della sua vita, avendo
più attenzione al prima (e anche al poi) rispetto al fatale momento ’44/’45 che
di Liana Millu è lo spaccato biograficamente più noto, quello del campo di concentramento,
di Birkenau, e che resta affidato, anche letterariamente, al suo
libro: Il fumo di Birkenau (appunto), apprezzato e tradotto, letto in Italia e in
Europa da quando è uscito nel 1947.
Ho cominciato con una o due domande e poi mi sono accorto che non ne
dovevo fare molte altre, che la mia interlocutrice sapeva percorrere col suo
ritmo l’anamnesi che le chiedevo. E così mi sono limitato ad annotare dati, date,
frasi e giudizi, aggiungendo, di mio, solo qualche riflessione personale, secondaria,
da ascoltatore incuriosito e ammirato.
“Di nascita sono pisana; ci sono cresciuta e rimasta fino a che non sono
diventata maggiorenne. Poi ha prevalso la mia voglia di autonomia e ho raccolto
al volo la prima occasione di uscire che mi si è presentata.”
“Ma lei faceva parte della comunità ebraica presente in città? Era grande?
Era osservante?”
“Sì, da parte di padre e di madre. Il mio cognome integrale è Millul (vedrà
dal seguito che le racconterò perché è caduta quella ‘l’). Segno di una provenienza
lontana, turca. E dal lato materno un altro bell’incrocio: tedeschi, Singer
e spagnoli, Alvarengar Nunez da Cuna, sefarditi insomma. Mia nonna ci teneva
al suo spagnolo e lo parlava con frasi ad effetto che mi sono rimaste nella
memoria”.
“E i suoi genitori cosa facevano?”
“Così rispondo anche all’altra parte della domanda precedente. Una comunità
piccola, ma significativa. I miei però non erano osservanti. Mio padre
era capo stazione, si trasferì e si risposò con una friulana dopo la morte di mia
madre che era maestra. Io avevo due anni. E da allora restai con i nonni materni,
allevata con troppa attenzione, con un affetto insistente, esclusivo, soprattutto
dalla nonna e con la determinante presenza, specie in seguito, di una zia professoressa
di matematica. E un ruolo positivo del nonno, un uomo di idee liberali,
gran lettore di giornali e direttore delle poste in pensione.
Quando ebbi l’occasione di una vacanza in Friuli, mi parve il regno della
libertà; la mia ‘matrigna’ mi lasciava giocare e uscire, da donna di buon senso,
ma mio padre non volle tenermi quando gli chiesi di restare con lui. Ci staccammo
in una reciproca indifferenza. È morto nel 1940. Lo ricordo con il distintivo
del fascio all’occhiello, ma era di quelli che se la cavavano con la formula:
per necessità familiare”
“Ma la formazione scolastica è avvenuta tutta a Pisa?”
“Si, ma si è interrotta, per quanto riguarda la frequentazione della scuola
pubblica e così dovetti studiare a casa e prepararmi in questo modo al diploma
di maestra. Ai miei sembrava un modo per tenermi meglio sotto controllo e a
me cresceva in compenso la voglia di sottrarmi quanto prima a quel clima
troppo angusto.
I giornali furono un buon tramite, come ho detto ne venivano in casa parecchi
perché questi erano gli interessi del nonno che era stato a suo tempo un
aspirante giornalista sul «Fanfulla».
Leggevo anche «Il becco giallo» e intorno ai sedici anni mi ero data la parola
d’ordine da sola: «farò la giornalista». Ma intanto c’era da prendere il diploma
magistrale.
Mi ero costruita, con letture disordinatissime e fameliche al tempo stesso,
un impianto intellettuale quasi categorico, sul piano esistenziale: quello dell’ateismo.
Solo molto più tardi alla prova del male e di fronte al mistero della sopravvivenza
incerta o negata e della scomparsa probabile e vicina, sarei approdata
ad un più intimo agnosticismo. Da ragazza però, ero così, forse persino
con precocità.
Nell’ambiente pisano usciva un giornalino studentesco: «Pisa». Ebbi il coraggio
di mandare un articolo (ma lo firmai XYZ) sul tema della moda che dal
mio osservatorio di casa, abitavamo sul corso del passeggio, mi sembrava di
aver documentato sulle belle signore eleganti che transitavano. Ed era lo stesso
periodo della mia prima poesia e dell’abbozzo di una commedia.
Ma la svolta per me fu il 1932. Lessi la lapide che ricordava il soggiorno di
Byron a Pisa, ci costruii un pezzo e lo portai (di nascosto) nella sede del «Corriere
del Tirreno» che aveva la redazione in città, a due passi da casa mia.
Lo pubblicarono e io ero all’euforia della diciottenne che si sente apprezzata
e libera, ma la reazione in famiglia fu di scandalo. E siccome mi dicevano
che c’era di mezzo il nome (come se lo avessi disonorato) da allora in poi sottrassi,
la ‘l’ finale e fui per sempre Millu, come autrice. Visto che a quelle attrazioni
non rinunciai. Continuando a frequentare la redazione pisana (dove mi facevano
anche la corte) e che mi appariva il tramite della mia emancipazione.
«Ma fino a 21 anni non te ne vai» fu la conclusione dell’inevitabile chiarimento
in casa che seguì a questi episodi. E io presi a contare i giorni, segnandomeli
materialmente, in termini di centinaia, sui primi manuali di tedesco che
cominciavo a studiare e consultare. Se vuoi fare la giornalista devi sapere le lingue,
mi dicevo”.
“E allora, i giorni che mancavano alla libertà individuale totale e all’autonomia,
riuscì a depennarli tutti?”
“Sì, ma fu un intero triennio che dovette passare. Nel ’34 infatti ottenni il
diploma di maestra e poco dopo ebbi l’occasione di partecipare e vincere al
concorso per le scuole rurali Balilla che in quegli stessi anni il governo andava
istituendo. E così nell’ autunno del ’37 mi trovai maestra a Volterra, isolata e inesperta
a «ballare una sola estate», nel senso che, pur fra grandi difficoltà, passai
un anno intensissirno e vivace, con l’appendice gradevole del soggiorno
estivo a Marina di Pisa, occupata in colonia. Insomma era l’avvenuta conquista
dell’autonomia che doveva ricevere la brusca interruzione dal settembre successivo
(1938). «Lei è sospesa dal lavoro e dallo stipendio» fu la risposta imbarazzata,
ma categorica del direttore competente per territorio che applicava con
burocratica passività le norme delle leggi razziali. Naturalmente mi sentii crollare
il mondo sotto i piedi e attorno a me e poi, come è ovvio, cominciai a pensare
che dovevo comunque reagire. E cercai di salvare almeno i rapporti col
giornale sul quale avevo continuato a scrivere articoli. Tramite un giornalista
del «Telegrafo» con il quale ero entrata in rapporti di amicizia (era per la verità
un fascista e anche un antisemita) riuscii a pubblicare un pezzo sull’ospedale
psichiatrico di Volterra e m’illusi di poter continuare a collaborare, magari sotto
falso nome. Ma l’idea trovò in Giovanni Ansaldo un oppositore determinato e
convinto. Lo ricordo, come se lo rivedessi ora, il mio incontro con Giovanni Ansaldo,
nel corridoio della redazione livornese. Mi venne incontro, togliendosi cerimoniosamente
il cappello, ma risolse tutto con una battuta inerte: male non
fare, paura non avere. E fu tutto”.
(Mi fa effetto pensare, proprio in questi giorni in cui si leggono pubblicati
i diari della prigionia tedesca di Ansaldo all’intelligente cinismo con cui uomini
come questo protrassero fino alla feccia la loro convivenza con il regime. È solo
un accenno che andrebbe ben diversamente sviluppato, ma non riuscivo a passare
oltre senza un commento, in tempi nei quali si scivola volentieri sul tema
della responsabilità degli intellettuali).
E così pensai che non c’era più alcun appiglio solido e mi decisi a raccogliere
ogni occasione di lavoro, perché coincideva con la sopravvivenza materiale
andando per tre mesi ad aiutare in casa di una mia amica fiorentina ebrea.
Dovevo ritrovarla a Birkenau dove sarebbe morta.
«Vai a fare la serva» fu tutto quello che mi seppero dire in casa. E poi rimasi
per quasi due anni nella casa di campagna dell’avvocato Viterbo, a Sensano,
presso Siena. Era un posto da idillio e io mi occupavo della formazione
del bambino di casa Viterbo, ma ero perseguitata dalla gelosia della signora che
leggeva le mie lettere d’amore. E tuttavia la mia giovinezza coincideva con la mia
incoscienza e così, dopo aver visto un avviso che pubblicizzava una crociera
per l’estate del ’39 al prezzo di 900 lire (che era tutto quanto avevo da parte) mi
ci iscrissi e la feci, partendo da Genova e toccando Zara e Pala, fra curiosità e
nuove conoscenze.
E fu a bordo che conobbi un giovane genovese e mi legai a lui, si chiamava
Vincenzo Cardinale, era un militare e un militante antifascista. E dopo la crociera
venni a stare a Genova, in via della Libertà, cercando di trovare col suo
aiuto, e con quello di qualche altra persona come l’avvocato Zino che mi procurava
lezioni private, dei lavori saltuari, ma indispensabili per restare in città.
Così potevo passare nel giro di un mese da dattilografa alla Borsa a lavapiatti
in trattoria. Del resto alla provvisorietà ero ormai abituata”.
“Ma la condizione dell’incertezza quasi permanente non cominciava a procurarle
infelicità?”
“C’era la gioventù di mezzo ed era una difesa potente, quasi uno scudo
d’immunità. Anche se, lo riconosco, faccio risalire proprio a quegli anni il ca-
podanno più triste della mia vita. Parlo dei giorni fra la fine di dicembre del ’42
e il gennaio ’43. Non della stessa ricorrenza passata nel lager, che anzi fu tutta
proiettata sulla speranza.
E invece, la sera della fine del ’42, quando, dopo aver contribuito con una
bottiglia di vino alla cena cui ero stata invitata da persone care e sensibili, mi accorsi
che oltre alla polenta mangiata insieme, i miei ospiti mi lasciavano in cucina
per consumare da soli qualcosa di meglio, ebbi un tale momento di angoscia
da andare a raccattare la polenta avanzata e ormai gettata via e da ritirarmi
in fretta nella mia stanza, come vinta dall’oppressione di una vita troppo inaccettabile.
Ma due giorni dopo era la gioventù, ho detto, a riprendersi il suo vitalismo
vincente.
Passò così un altro biennio e dopo l’8 settembre, Cardinale essendosi rifiutato
di giurare alla Repubblica di Salò, venne deportato verso la Germania,
ma a Verona riuscì a saltar giù dal treno che si era fermato e a raggiungere Venezia
dove aveva amici e compagni di convinzione anti fascista. Io, attraverso
contatti con le due sorelle di Vincenzo, una suora alle Brignoline e l’altra titolare
del panificio di via Tabarca, riuscii a raggiungerlo a Venezia, e a trovarlo
quasi in perfetto clima cospirativo in una pensione di Cannaregio. Ma dovetti
tornare ben presto a Genova e accettai un lavoro di bambinaia a Ronco Scrivia
(l’avevo trovato in un’ inserzione sul giornale) presso la famiglia Ferralasco. Nel
febbraio del ‘ 44, dopo essere stata «scoperta» (parlo della mia identità, perché
avevo dato alla famiglia che mi ospitava un nome falso) tornai a Genova e di lì
ripresi il treno per Venezia con l’intenzione di riagganciare Vincenzo che aveva
trovato ospitalità presso un militare suo superiore. Il 3 marzo ’44 caddi in un
trabocchetto con l’ingenuità di una bambina e, riconoscendolo per strada, finii
col fare arrestare anche Vincenzo che, per la verità, più esperto di me, cercava
di ignorarmi, avendomi visto in compagnia di persone non fidate. Fummo portati
in una caserma della R.S.I. e dopo otto giorni di trattamento ineccepibile
(ci lasciavano persino dormire insieme) venne fatta un’ispezione durante la
quale un capitano mi disse: «Voi siete ebrea, allora via mando a S. Maria» cioè
in carcere, con altre detenute ordinarie. Ero per la verità ancora così ingenua e
lontana dal prevedere i guai che scrivendo ad una mia amica intestavo quasi
volutamente “dal carcere”, come se fosse un titolo turistico”.
“Ma quando precipitarono le cose?”
“A maggio, quando fummo trasferite a Fossoli, vicino a Carpi. Lì c’erano
le SS e c’erano molti ebrei romani provenienti ovviamente dal sud.
E comunque ancora fino all’ultimo mi cullavo, come altri, con motivazioni
del tipo: si va a lavorare in Germania e con le «garanzie» che mi sembravano
assicurate dalla presenza di ebrei francesi e inglesi, rastrellati in Tunisia e per i
quali la Croce Rossa offriva servizi e controlli.
E così ci portarono a Colonia e all’alba del 16 maggio 1944 vidi l’ingresso
del campo di Auschwitz. Dovevo restarci, nel fumo di Birkenau, fino al maggio
dell’anno dopo. E poi, per salvarmi dallo stato in cui ero ridotta, sarei rimasta
ancora due mesi in ospedale. Insomma rividi l’Italia nell’agosto del ’45”.
(Non c’è nessuna intenzionalità ed affetto nella scelta di “saltare” l’anno
dell’inferno nella vita di Liana Millu e tornare subito a conversare del dopo ’45,
come se la mia interlocutrice fosse stata per un anno soltanto lontano dall’Italia.
Meno che mai il proposito di ridimensionare il profilo del valore di quella
testimonianza. Nella mia attenzione prevalgono semplicemente due impianti
di ricostruzione che sto qui brevemente esponendo: la faticosa acquisizione di
una vita e di una coscienza femminile libera e il ritorno alla vita con coloro che
non vogliono e non possono comprendere l’inferno perché non ci sono caduti
dentro e non ne sentono, per così dire, la durata nella memoria. È per questo
che torno a conversare, come dopo una cesura di ritmo, con Liana Millu che sistematicamente
colloca gli episodi nell’ordine dell’anamnesi).
“Ci fu comunque un impatto con l’Italia, nell’ estate del ’45?”
“Altro che. Scesi dal treno a Mestre e per raggiungere Santa Lucia salii su
un altro convoglio, ma senza biglietto. E nel breve tratto sulla laguna fui trovata
dal controllore. «Eh, se dovessero circolare senza biglietto tutti quelli che tornano
dalla Germania!». Fu la risposta rozza e insensata alle mie rimostranze
scandalizzate. E finimmo al posto di polizia della stazione dove, probabilmente
per pietà, mi lasciarono andare con un ammonimento altrettanto terribile, nella
sua banalità: «E si metta un po’ in ordine, guardi com’è vestita e sporca, santo
Dio, una donna». In effetti ero trasandata e sciatta, ma l’accoglienza mi fece
sentire che l’inferno era ancora aperto. Quanto poi all’incontro privato, umano,
sentimentale, quello con Vincenzo Cardinale, lo trovai a casa del suo superiore.
E fu la moglie di quest’ ultimo a comunicarmi sinteticamente: «Cen si è fidanzato
con mia nipote». Così il ricongiungimento con la realtà, lasciata da più di
un anno, fu completo. E tornai a Genova andando a stare in un appartamento
in via Monte Suello e affrettandomi a rifare i documenti per poter tornare ad
insegnare. Così, dovendo andare a Pisa e a Firenze rividi i miei che erano tutti
vivi (come tanti altri che io invece pensavo sommersi per forza e scoprivo invece
sopravvissuti).
«Ne abbiamo passate tante, non avevamo da mangiare, dovevamo nutrirci
di …». Erano frasi che mi toglievano ogni voglia, ogni possibilità di rispondere,
di parlare di me.
«Sei tornata tu che sei sola… che non avevi famiglia.» Mi sentii dire a Fi-
renze e fu la constatazione al tempo stesso più oggettiva e infernale che potessi
compiere e ricevere, uscita dal fumo di Birkenau. E tuttavia… Si accettano tante
situazioni umilianti, e anche deludenti.
Mi, sentivo così, nei giorni del Natale ’45 quando invece dei festoni e delle
accoglienze che forse avevo provato a sognare a Birkenau, come al risarcimento
che ci sarebbe toccato se restavamo vivi, mi trovai a dipendere dalla fila dei postulanti
che attendevano il sussidio dell’E.C.A. (l’ente comunale di assistenza)
davanti alla porta di uno degli uffici genovesi.
L’angoscia si era fatta più cupa, era diventata disperazione.
Dal 1946 ebbi il posto a Langasco, in alta Val Polcevera e cominciai a insegnare
pensando di stendere il mio libro composto di fatto già nel campo, da
quando c’ero entrata. Ero in una condizione insoddisfacente e intimamente dolorosa.
Volevo, avrei voluto fare la giornalista e invece ero soltanto una maestra
di campagna.
«Sei tornata tardi» mi diceva qualcuno in una sorta di anticipazione delle
programmazioni di tipo sistematico che avrebbero caratterizzato l’Italia successiva.
«Solo qualche mese prima e saresti entrata in qualche redazione». «E
anche il tuo libro (ma questa volta era l’editore che aveva atteso un abbassamento
dei prezzi di costo della carta) arriva in un momento in cui c’è esubero
e stanchezza per le testimonianze».
[…]
“Ho vissuto sempre da sola, sotto ogni aspetto e per la verità non sono mai
stati in molti a cercarmi. Ma forse è la misura più congeniale alla mia personalità.
Comunque il rapporto con la politica è stato inesistente, mentre invece
avevo preso a frequentare da subito l’Associazione dei deportati e a partecipare
di riflesso all’attività e agli incontri che venivano organizzati. Seguii un po’
anche il destino, vorrei dire l’itinerario del mio libro, nel senso che dal ’47, da
quando uscì, ho avuto modo di accompagnarlo in mille contatti con un pubblico
che si umanizzava e assumeva un’identità sentimentalmente più immediata
[…] Nel ’72 uscì il mio secondo libro: I ponti di Schwerin. Intanto nel ’70 ero andata
in pensione e mi ero spostata da Nervi a Quinto.
Comunque la mia solitudine non si è interrotta, neppure negli ultimi dieci
anni, quando soprattutto con l’Associazione Nazionale dei Partigiani, e in forme
diverse, ho avuto modo di partecipare anche spesso alla vita culturale e associativa
in città. Ma sono stata e rimango una persona sola, autonomamente sola,
come forse aspiravo a diventare, in termini di libertà, fin dall’adolescenza pisana.
In compenso ho viaggiato molto e in tutto il mondo, forse spendendo ciò
che altri riescono a risparmiare, ma investendo bene i miei mezzi in esperienze
e immagini indimenticabili.”
“E così non si è mai misurata con la politica attiva, neppure in tempi più
recenti?”
“Mai, anzi no. Un’esperienza diretta l’ ho compiuta, ma nel ’46, per la campagna
che precedette il referendum istituzionale e un po’ di territorio l’ho battuto
in quella occasione, non qui, in Piemonte. Una bella esperienza con persone
simpatiche, che però non ho più avuto occasione di rivedere”.
“C’è qualcosa infine che contraddistingue oggi il suo rapporto con gli altri
e con le cose della vita, alla luce del tempo trascorso e della consapevolezza acquisita?”
“Si può esprimere così: vorrei restare nella memoria degli amici e non accompagnata
da cerimonie commemorative; mi piacerebbe sistemare ogni cosa
(di quelle a cui tengo) e vedere però anche come funziona, che è poi un modo
di continuare ad assistere alla realtà dal vivo; e davvero mi sento fortunata della
mia ricchezza di vita se penso alla penuria esistenziale che ho attraversato”.
Questa ovviamente non è una trascrizione, e d’altro canto non è neppure
un’intervista. È piuttosto la verifica di ciò che la memoria ha trattenuto e sintetizzato
nel corso di una conversazione alla quale Liana Millu ha impresso il
motivo dominante: la coscienza della libertà individuale di una donna che intendeva
vivere (anche prima e fuori della tragedia che come dato accidentale
può colpire tutti) in una dimensione autonoma e coerente. Forse (ma ne parlo
ora con maggiore lucidità, visto che ho potuto verificarlo con questo approfondimento)
è lo stesso tratto che mi aveva colpito fin dall’inizio in quella
donna che raccontava, diciotto anni fa agli studenti di allora le storie più disumane
di cui portava traccia persino sul suo corpo, con il distacco di una partecipazione
superiore.
Silvio Ferrari, Visita a Liana Millu * in “Storia e memoria”, ILSREC, n. 1, 2014

* L’autore ripropone l’articolo già pubblicato in “Storia e memoria”, n. 1, 1994.

Liana Millu – Fonte: Patria Indipendente,

[…] Liana Millu è una delle prime testimoni a descrivere in forma letteraria il sistema concentrazionario dalla prospettiva femminile.
Il fumo di Birkenau, opera prima della Millu, è il libro più conosciuto della scrittrice. Venne tradotto in Francia, in Olanda, negli Stati Uniti, nei Paesi Scandinavi, in Germania nel 1997 e ora, finalmente, anche in Polonia.
Nella prefazione dell’edizione 1971 (Ed. Giuntina Firenze) scritta da Primo Levi, si legge: «Il fumo di Birkenau di Liana Millu è fra le più intense testimonianze europee sul Lager femminile di Auschwitz-Birkenau: certamente la più toccante fra le testimonianze italiane».
Il libro cominciò ad essere scritto nei primi giorni di maggio 1945, «con una matita e una scheggia di specchio» su un vecchio diario trovati per caso in una casa abbandonata dopo la liberazione.

Liana Millu ad un convegno – Fonte: Patria Indipendente,

[…] Alla Millu premeva parlare del passato che ci deve insegnare a vivere il presente. Non si trattava di discutere di storia ma di indicare e interpretare cosa di essa è rimasto e ciò contro cui oggi dobbiamo ancora lottare. Nei lager Liana Millu ha visto e vissuto sulla propria pelle l’indifferenza, la violenza e il disprezzo, disvalori purtroppo ancora presenti nel mondo.

La giacca da deportata di Liana Millu – Fonte: Patria Indipendente,

Ricordo che negli incontri con gli studenti portava con se la sua consunta blusa a righe indossata nel lager e lasciava che i giovani la toccassero, perché la parola diventasse immediatamente concreta e loro non la dimenticassero.
La storia di Liana Millu è un esempio per tutti noi. Sopravvissuta ad Auschwitz non ha permesso a quell’inferno di alterare la sua serenità di giudizio, di oscurare la chiarezza del suo sguardo.
Una delle sue più note poesie
«Le ore dellʼappello del mattino erano le sole in cui – aspettando che il cielo notturno
cominciasse a schiarire – mi ritiravo nella mente sfuggendo a Birkenau. Vedevo le fiammate
decrescere lentamente, vedevo il fumo nero, pesante, alzarsi e quasi sempre, ricostruivo
un piccolo cimitero abbandonato, mi pare sia dalle parti di Bavari, sulle colline di
Genova. Lo vedevo e lo desideravo. Così, messa insieme verso dopo verso, nacque la
poesia “Faʼ o Signore” e non mi accorgevo più dellʼappello. Un anno dopo allʼospedale di
Verden, la scrissi sul primo foglietto che mi capitò: avevo paura di dimenticarla».
Liana Millu, ebrea, partigiana deportata ad Auschwitz-Birkenau, scomparsa tre anni fa,
così descriveva la nascita di una delle sue più toccanti e note poesie. Perché, aggiungeva,
«la stanchezza e il timore della giornata da cominciare erano tali da farmi desiderare,
più che la vita, la pace. Sotto la terra, finalmente in pace».

Questa la sua poesia
Fa’ o Signore
Fa’ o Signore che io non diventi fumo. Fumo di Birkenau, fumo in questo cielo straniero ma riposare
io possa laggiù nel mio piccolo cimitero. È vicino a Genova, lo sai, è un piccolo cimitero abbandonato,
in cima ad una collina verde, da un muro di mattoni rossi è circondato. Due alberi fanno la guardia
al cancello di ferro arrugginito e i fidanzati, la domenica, sostano a guardare le alte erbe odorose che
copron le tombe antiche, intrecciano le dita tra le sbarre si guardano con tenerezza. Laggiù, laggiù!
Sotto il sole, davanti al mare tra un verde fluttuare di alte erbe in fiore, o Signore, vorrei riposare.
Fa’, o Signore che io non divenga fumo che si disperde, fumo in questo cielo straniero ma riposare
io possa laggiù nel mio piccolo cimitero sotto la terra della mia terra, dove il sole mi scalderà, il mare
mi cullerà, il vento mi porterà i profumi delle riviere e sarà la pace.

Remo Alloisio, Ricordando Liana Millu la scrittrice-partigiana, Patria Indipendente, 27 gennaio 2008