I tedeschi, man mano che se ne andavano, minarono e distrussero tutti i ponti

Il 24 maggio del 1944, dalla fusione dei raggruppamenti partigiani “Checcucci”, “Romanelli”, “Lanciotto” e “Fabbroni”, si costituiva formalmente la 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” agli ordini della Delegazione Toscana del Comando Generale delle Brigate Garibaldi [1]. La nuova formazione, intitolata al nome di “Lanciotto Ballerini”, leggendario comandante partigiano caduto nel gennaio 1944 a Valibona in uno scontro con i fascisti della “Muti”, accorpava le quattro preesistenti formazioni che nei mesi precedenti avevano operato tra Monte Morello, Monte Giovi, il Mugello e l’appennino tosco-romagnolo. Dopo i rastrellamenti nazifascisti e la dispersione subita in aprile sul Falterona, molte di queste bande erano riparate di nuovo su Monte Giovi, tra Mugello e Valdisieve, dove potevano contare sul riparo e l’estesa solidarietà della popolazione locale. L’idea di accorpare queste bande ponendole sotto un comando unificato – un’ipotesi già discussa nella prima metà di aprile nel corso di un incontro avvenuto tra i capi della resistenza mugellana nella fabbrica Stefanini di Borgo San Lorenzo – presupponeva però l’abbandono di Monte Giovi, non adatto al concentramento di una nuova grande unità partigiana, per trasferirsi in un’area più idonea, individuata dopo qualche discussione nel massiccio del Pratomagno [2]. Il 23 maggio, un gruppo di circa duecento partigiani guidati da Aligi Barducci “Potente” –  già membro della banda di Alfredo Bini, poi raggruppamento “Romanelli”, e al quale era stato affidato unanimemente il compito di organizzazione militare della nuova formazione – lasciava Monte Giovi diretto sul Pratomagno, dove già alcuni partigiani guidati dallo stesso Bini e da Giulio Bruschi “Berto” erano stati inviati per predisporre il terreno.
Qualche giorno dopo l’arrivo di Potente in Pratomagno la formazione ebbe il riconoscimento ufficiale da parte della Delegazione toscana del comando delle Brigate Garibaldi [3]. I quattro raggruppamenti originari divennero le quattro compagnie costitutive: la “Checcucci” ne fu la I con Bruno Bertini “Brunetto” comandante militare e “Cecco” commissario politico, la “Fabbroni” la II con Lazio Cosseri comandante e Vasco Palazzeschi “Mara” commissario, la “Romanelli” la III con “Bini” comandante e “Zio” commissario e, infine, la “Lanciotto” la IV con Renzo Ballerini comandante e Pietro Corsinovi “Pietrino” commissario. Il comando militare della brigata fu affidato invece a “Potente”, cui si affiancarono Giulio Bruschi “Berto” commissario politico e Rindo Scorsipa “Mongolo” Capo di Stato Maggiore. La dislocazione sul Pratomagno della formazione vide le quattro compagnie schierarsi sul massiccio a copertura dei versanti del Casentino e del Valdarno secondo il seguente schema: la prima compagnia tra la Consuma e Strada in Casentino, la seconda tra Strada e Poppi, la terza tra Castelfranco e Reggello e la quarta tra Reggello e la Consuma [4]. Il comando della Brigata venne invece installato ben nascosto, tra i faggeti posti al margine di una radura tra l’Uomo di Sasso e il Varco di Gastra, in quota al rilievo.
L’arrivo della Lanciotto diede così luogo sul massiccio a un’alta concentrazione partigiana, considerato peraltro che nel settore più meridionale agivano altre formazioni autonome come la “Mameli” e “La Teppa”, nonché il gruppo di paracadutisti inglesi operanti dietro le linee nemiche del “Long Range Desert Group”, mentre tra il Casentino e il Pratomagno aretino erano attestati anche i partigiani della 23° Brigata Garibaldi “Pio Borri” [5].
Dai primi di giugno e a partire soprattutto dalla liberazione di Roma, il rapido avanzare del fronte di guerra spinge le diverse formazioni lì attestate ad accelerare l’organizzazione e il loro consolidamento, intensificando l’attività militare e di disturbo nei riguardi delle unità tedesche presenti nell’area. Per impedire che il Pratomagno possa divenire «un luogo di rifugio e di sosta per i nazifascisti in ritirata o, peggio ancora, un caposaldo di resistenza atto a contrastare l’offensiva alleata» in direzione di Firenze, il comando della “Lanciotto” decide di portare alcune squadre della I e II compagnia a Cetica [Frazione di Castel San Niccolò, in provincia di Arezzo] , considerata la «porta d’accesso al Prato Magno» [6]. Nel paese, «un agglomerato di case in pietra» ai piedi del massiccio dove termina la carrozzabile proveniente dal Casentino, si installano in pianta stabile e nello stupore della popolazione locale gli uomini della Lanciotto: «la gente di Cetica» – avrebbe poi scritto nelle sue memorie Fernando Gattini “Lupo”, allora membro del distaccamento “Adriano Gozzoli” della II compagnia – «sapeva che queste montagne ospitavano un gran numero di partigiani, ma non pensava che un giorno ci saremmo accasermati proprio in paese, come fossimo forze regolari. Perciò, nel vederci arrivare in massa, spavaldi e sicuri del fatto nostro, non hanno nascosto la propria meraviglia e una certa apprensione» [7].
Durante tutta la loro permanenza a Cetica si sviluppa con gli abitanti un profondo rapporto di solidarietà, non nuovo in un’area, quella del Pratomagno, dove gli uomini della “Lanciotto”, forti di un controllo del territorio e delle vie di comunicazione apparentemente incontrastato, instaurano secondo alcuni una sorta di «piccola repubblica» partigiana, intervenendo in soccorso e a protezione della popolazione locale [8]. Il 24 giugno, la II compagnia guidata da Lazio Cosseri assalta in località Quorle, non distante da Cetica, il magazzino di un commerciante speculatore asportandovi circa 120 quintali di zucchero che la formazione subito distribuisce agli abitanti di Cetica, Montemignaio, Strada [9]. Sopratutto a Cetica, il rapporto tra partigiani e abitanti è secondo Gattini solidale: “Non c’è famiglia che non si dia da fare per noi, per rappezzare il nostro precario abbigliamento, per confezionare fazzoletti rossi con il nome della formazione ricamato a mano, per farci mangiare in casa, insieme a loro. Gli abitanti del paese vivono con noi un mese di intensa comunione ideale e pratica, contribuendo come pochi altri alla lotta contro il fascismo.
Purtroppo, come è accaduto ad altri, pagheranno duramente la loro generosità”. [10]
L’attività partigiana nella zona è infatti in rapida ascesa dai primi di giugno con attacchi mirati che si susseguono a danno di tedeschi e fascisti e che contribuiscono a innalzare il livello di tensione. Le azioni di disturbo dirette in particolare dagli uomini della “Lanciotto” sullo snodo viario della Consuma mettono a repentaglio i collegamenti tedeschi tra Valdarno e Casentino. A queste vanno poi sommandosi la cattura e il sequestro a danno degli occupanti di uomini e mezzi. Il 23 giugno, sempre effettivi della II compagnia della “Lanciotto” riescono a catturare un colonnello e un capitano tedeschi, fermati in auto in compagnia della loro interprete, Fiorenza, una nobildonna fiorentina che li ha ospitati nella propria villetta
di Rifiglio, presso Strada. Durante il trasporto dei prigionieri, però, l’alto ufficiale era riuscito a liberarsi e ad avere la meglio su “Giorgio”, il partigiano russo che lo scortava, salvo poi venir ucciso dai partigiani per evitarne la fuga [11]. L’azione aveva creato seri problemi al comando della Brigata, facendo temere una immediata reazione tedesca [12]. Stando al parere del parroco di Strada don Bozzo, un’incursione analoga compiuta il 26 nei pressi di Strada e conclusasi con il fermo e la requisizione di un’auto della Todt sarebbe stata alla base dell’attacco tedesco a Cetica del 29 giugno[13]. In realtà, anche dopo questo episodio, altri scontri tra unità della “Lanciotto” e reparti tedeschi erano continuati a susseguirsi fino al 29. Il 27, ad esempio, la compagnia di Lazio Cosseri aveva attaccato le postazioni tedesche a Strada «paese abbandonato dai tedeschi due giorni prima e in questo frattempo occupato dai partigiani per un’intera notte» [14], innescando così per rappresaglia la presa in ostaggio di una quarantina di civili, più tardi rilasciati [15]. Ma a quella data il comando della 10° Armata tedesca era già in allarme per la cattura, avvenuta il 26 tra Arezzo e Anghiari a opera dei partigiani della 23° Brigata “Pio Borri”, del colonnello von Gablenz responsabile del Koruck 594 (il comando preposto alla sicurezza delle retrovie), circostanza questa che di fatto determina da lì in poi un sensibile inasprimento tra Pratomagno, Valdarno e Val di Chiana della repressione tedesca contro civili e partigiani. Dal 27 gli uomini del 2° Battaglione del 3° Reggimento Brandenburg avviano infatti un massiccio rastrellamento tra Montemignaio e Cetica[16]. All’alba del 29 giugno (lo stesso giorno in cui in Val di Chiana unità della Herman Goering danno avvio alle operazioni di rastrellamento sfociate tragicamente nei massacri di Civitella, Cornia e S. Pancrazio) i reparti del Brandenburg giungono a Cetica. Allora – è riassunto nel diario della Brigata, “le vedette del 1° dis.[taccamento] della 2° [compagnia] segnalano spostamento di uomini vestiti in borghese ed armati provenienti da Strada e diretti a Cetica. Erano tedeschi, frammisti con italiani, travestiti da partigiani, che volevano distruggere il centro di resistenza partigiana. La 2° ingaggia battaglia con tedeschi potentemente armati. La 2° è dislocata a S. Maria di Cetica, a Calognole, ed al Mulino, dove due partigiani rimangono feriti. I tedeschi vista la resistenza opposta chiamano in aiuto i mortai; mentre la 1° giunge di rinforzo schierandosi sul ciglione della conca di Cetica. I tedeschi cominciano a subire le prime perdite; però ricevono rinforzi, ma i partigiani rinforzata dalla 4° cp. Continuano il combattimento sebbene vi siano delle perdite tra i nostri. Il nemico posto di fronte a serie difficoltà prese le donne ed i borghesi e gli fece marciare davanti, cosa questa che costrinse i partigiani di desistere dal fuoco, e di ripiegare di poco. I tedeschi giunti in Cetica, si trattengono un’ora circa e danno fuoco a tutte le abitazioni, fucilano prima tre innocenti borghesi. Tentarono fra tanto di raggiungere il mulino per distruggerlo, per toglierci la possibilità di macinare il grano, ma ciò gli fu vietato, poiché si riprese il combattimento. Quando i tedeschi ripiegarono su Strada, i partigiani, osservando le loro mosse, li precedettero, e fra Rifiglio e Pagliericcio tesero loro una imboscata che costò ai tedeschi gravi perdite”. [17]
Il conflitto tra i due contendenti è piuttosto duro e assume la forma di un vero e proprio scontro frontale, inconsueto per chi come i partigiani della “Lanciotto” è abituato a operare con attacchi a sorpresa, come è nella pratica della guerriglia. Se l’imparità di fuoco è evidente, gli uomini di “Potente” dimostrano però d’aver conseguito un grado di preparazione e di organizzazione militare non trascurabile, considerata la recente costituzione della Brigata e l’endemica mancanza di armamenti, alla quale gli attesi aviolanci alleati previsti in quelle settimane sul Pratomagno non hanno per il momento saputo porre riparo. L’effetto sorpresa ricercato dai tedeschi con lo stratagemma dei soldati camuffati da partigiani è infatti prevenuto dalle sentinelle della “Lanciotto” presenti lungo la via d’accesso al paese che riescono tempestivamente ad avvisare a Cetica il comando di compagnia e sul Passo di Gastra quello di Brigata. Nel poco tempo a disposizione si cerca di porre al riparo i civili mentre i tre distaccamenti delle due compagnie presenti a Cetica vengono disposti a semicerchio a monte dell’abitato. Solo lo scudo che i tedeschi si fanno dei civili rastrellati durante il loro avvicinamento attenua il potenziale di fuoco dei partigiani, i quali, ben nascosti «fra le macchie, dietro le capanne» al limitare del paese, «si mordono le mani» perché costretti a sparare «a raffiche irregolari» per non colpire gli ostaggi, assistendo quindi semi-impotenti all’incendio del paese da parte degli occupanti[18]. Riescono tuttavia a circoscrivere l’azione degli assalitori, cercando di impegnarli verso altre direzioni e ponendo in salvo così il prezioso mulino di Cetica. L’abitato principale, tuttavia, è ridotto in macerie e alla fine della giornata si contano 13 civili (tutti uomini) uccisi dai tedeschi tra quanti erano stati presi in ostaggio. Un prezzo certamente alto, ma – hanno ragione di credere gli uomini della “Lanciotto” – ben diverso da quanto sarebbe potuto accadere in conseguenza di un ipotetico sganciamento delle compagnie partigiane: «a Cetica», avrebbe scritto più tardi Lazio Cosseri, «non accadde quello che di solito accadeva quando i tedeschi entravano come belve in un paese inerme, radunando donne, vecchi, bambini che trucidavano senza pietà». Ciò in questo caso non si verificò «perché i partigiani non abbandonarono mai il paese» [19]. Fu proprio all’iniziativa personale di Lazio, particolarmente scosso dal brutale colpo inflitto a Cetica dai tedeschi, che allora si dovette un’estemporanea e ardita controffensiva lanciata verso gli assalitori. Alla sera del 29, postosi alla guida di una quindicina di compagni divisi in due squadre, il comandante della II compagnia si diresse rapidamente sulla strada di Pagliericcio tra Cetica e Montemignaio lungo la quale dopo l’azione stavano ritirandosi i tedeschi . Qui Lazio riuscì a tendere un’imboscata a un gruppo in ripiegamento provocando – stando ai resoconti partigiani – l’uccisione di più di 50 soldati e portando a questo modo – sempre secondo le relazioni ufficiali partigiane – il numero complessivo dei caduti nelle file nemiche a 65 [20]. In realtà, il bilancio delle perdite, rispetto alle soventi poco attendibili ricostruzioni ex post, fu probabilmente più attenuato, da entrambe le parti. Le fonti tedesche infatti al termine dell’operazione del 29 giugno registrano la morte di soli 2 soldati del battaglione Brandenburg e il ferimento di altri 5 a fronte dell’uccisione di ben 45 «banditi»[21]. Solo 10 invece i caduti accertati nelle file della “Lanciotto” secondo i rapporti della Brigata [22].
Ad ogni modo, quella che fu da lì ricordata come la “battaglia” di Cetica, seppur difficile da descriversi come un completo successo partigiano, ebbe tuttavia grande rilievo ai fini dell’ulteriore sforzo di organizzazione della Brigata “Lanciotto” in vista delle più decisive prove cui sarebbe andata incontro successivamente, quando, col progressivo avvicinamento tra luglio e agosto del fronte di guerra alla linea dell’Arno, la formazione, col concorso delle altre Brigate e sotto il comando di “Potente”, si costituì in Divisione “Arno” contribuendo in modo capitale alla liberazione di Firenze. Qualche giorno dopo gli scontri di Cetica, infatti, in una riunione convocata da “Potente” al valico di Gastra tra tutti i comandanti e i commissari politici di compagnia della Brigata, si provvide alla ricostruzione dei fatti del 29 giugno e, ai fini di un utile ammaestramento per il futuro, a una disamina critica dei limiti e delle manchevolezze di quell’azione. Per quanto l’urto frontale dell’attacco tedesco non era riuscito a scompaginare completamente le forze della “Lanciotto” attestate a Cetica, che anzi erano state in grado di riorganizzarsi in breve tempo contrattaccando tempestivamente, diversi limiti erano emersi nel coordinamento tra i comandi delle diverse compagnie e a causa dell’eccessiva improvvisazione di alcuni di questi. In tal senso, emblematica era stata l’azione a sorpresa intrapresa dalla II compagnia di Lazio su decisione personale di quest’ultimo e in completo disaccordo col suo commissario “Mara”. Il dibattito sulle presunte responsabilità dei singoli o dei comandi si fece a tratti polemico, stando che diversi tra i convenuti erano convinti che «con le forze presenti a Cetica sarebbe stato possibile non solo resistere ai tedeschi, ma assestare un duro colpo al nemico e impedire o almeno limitare i danni al paese» [23]. Anche per questo, a riparazione delle supposte omissioni e manchevolezze, si decise di stanziare subito 100.000 lire distogliendole dalle casse della Brigata in favore dei sinistrati di Cetica e di distribuire loro quanto era rimasto in riserva in termini di alimenti e indumenti. Sulle responsabilità militari, spettò invece a “Potente” dire la parola definitiva, auspicando per l’avvenire un ulteriore potenziamento dei collegamenti tra i comandi e facendo osservare «con paterna dolcezza» a Lazio le imprudenze da lui commesse «nel predisporre lo schieramento senza curare la difesa alle spalle» lanciandosi all’attacco in un momento inopportuno [24].
Dalla condivisa consapevolezza degli errori commessi a Cetica per difetto d’organizzazione o eccessiva avventatezza – non diversamente da quanto nelle stesse settimane avveniva di analogo sui Monti Scalari entro la neocostituita 22° bis Brigata Garibaldi “Sinigaglia” a conclusione del sofferto esame dei limiti tattici e organizzativi scontati nel corso della “battaglia” di Pian d’Albero [25] – si presentava anche per la “Lanciotto” un’utile, seppur travagliata, occasione per riconsiderare alcuni aspetti operativi e strutturali che erano stato decisi, spesso in modo precario e poco organico, nel corso di un rapido e accidentato processo costitutivo tipico di una grande formazione partigiana in via di sviluppo. In sostanza, il successo che la Divisione “Arno” di Potente avrebbe in seguito ottenuto nei difficili frangenti della battaglia di Firenze richiese il superamento dei limiti che, come nel caso di Cetica, avevano caratterizzato al pari di altre Brigate le prime fasi di vita e attività della “Lanciotto”.

[1] La data del 24 maggio è indicata come atto fondativo della brigata nella relazione ufficiale della stessa (cfr. ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, relazione generale della XXII Brigata Lanciotto). Altre testimonianze fanno risalire invece l’atto ufficiale di costituzione della formazione all’8 giugno e a una riunione tenutasi all’Uomo di Sasso, sul Pratomagno, tra tutti i comandanti militari e politici dei raggruppamenti (ivi, b. 3, Relazione di Alessandro Pieri “Stella” presentata all’ANPI provinciale di Firenze nel maggio 1945, p. 17 e V. Palazzeschi, Mara. Dall’antifascismo alla Resistenza con la 22° Brigata “Lanciotto”, La Pietra, Milano 1986, p. 66).
[2] Giuseppe Maggi “Beppe” in Più in là. Ventitré partigiani sulla lotta nel Mugello, a cura del Circolo La Comune del Mugello e del Centro di documentazione di Firenze, La Pietra, Milano 1975, p. 47; L. Tagliaferri, Monte Giovi nella Resistenza, in AA.VV., Monte Giovi: se son rose fioriranno…Mugello e Valdisieve dal fascismo alla Liberazione, Edizioni Polistampa, Firenze 2012, p. 411.
[3] G. ed E. Varlecchi, Potente. Aligi Barducci, comandante della Divisione Garibaldi “Arno”, a cura di M. Augusta e S. Timpanaro, Libreria Feltrinelli, Firenze 1975, p. 85.
[4] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”.
[5] G. Verni, Appunti per una storia della Resistenza nell’aretino, in I. Tognarini (a cura di), Guerra di stermino e Resistenza. La provincia di Arezzo 1943-1944, ESI, Napoli 1990, pp. 98-173 (in particolare pp. 142 e sgg.); A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Badiali, Arezzo 1957; C. Biscarini, Soldati nell’ombra. 1944. Operazioni speciali nelle province di Siena, Arezzo, Livorno, Grosseto, La Spezia, Effigi, Arcidosso (GR) 2011.
[6] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 72.
[7] F. Gattini, Le nostre giornate, La Pietra, Milano 1980, pp. 113-114.
[8] V. Palazzeschi, Mara, cit., p. 73.
[9] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 24 maggio 1944.
[10] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 115.
[11] L. Cosseri (a cura di), Lazio. Ribelle tra i ribelli, Aska, Firenze, 2004, pp. 185-187.
[12] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 122.
[13] Per l’episodio cfr. ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 26 giugno 1944. Per il giudizio di Bozzo cfr. G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue. Dal diario personale del tempo d’emergenza nell’alto Casentino, Libreria Salesiana Firenze, 1946, p. 44.
[14] ISRT, Fondo ANPI, b. 2, fasc. Brigata “Lanciotto”, relazione di Lazio Cosseri, Cetica, 27 giugno 1944.
[15] G. Bozzo, Giorni di lacrime e di sangue, cit., pp. 12-20.
[16] G. Fulvetti, Uccidere i civili. Le stragi naziste in Toscana (1943-1945), Carocci, Roma 2009, pp. 118-119.
[17] ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.
[18] ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, dattiloscritto, p. 4.
[19] L. Cosseri (a cura di), Lazio, cit., p. 191.
[20] Ivi, p. 192; ISRT, fondo Resistenza armata, b. 2, Diario della XXII Brigata “Lanciotto”, 29 giugno 1944.
[21] Bundesarchiv-Militärarchiv, Friburg, RH 2/663, Ic-Meldung, 30 giugno 1944.
[22] 12 caduti e 23 feriti sarebbero le perdite partigiane secondo il già citato diario della Brigata. Altre fonti interne indicano invece 10 caduti e 6 feriti, cfr. ISRT, fondo Alessandro Pieri, Cetica, cit., p. 5; G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., pp. 204-205.
[23] F. Gattini, Le nostre giornate, cit., p. 129.
[24] G. ed E. Varlecchi, Potente, cit., p. 234.
[25] M. Barucci, Sulla strada per Firenze. La Brigata Sinigaglia e la strage di Pian d’Albero 20 giugno 1944, Pacini editore, Pisa 2018, pp. 150-152.

Francesco Fusi (Isrt), La 22° Brigata Garibaldi “Lanciotto” e la battaglia di Cetica (29 giugno 1944), ToscanaNovecento

La zona di Poppi (AR) – Foto: Gian-Maria Lojacono

I tedeschi, dopo ogni attacco che facevano i partigiani o anche dopo una sola fucilata, per rappresaglia cominciarono a fare i rastrellamenti e a bruciare le case. E anche se a sparare erano sempre i partigiani, i tedeschi se la riprendevano sempre con quelli che non c’entravano nulla. Come quella volta che i partigiani spararono ai tedeschi da Capezzi e poi, quando questi risposero al fuoco, presero e scapparono. Quando i tedeschi andarono lassù non ci trovarono più nessuno e certo questo fu un bene, perché se ci trovavano qualcuno gli sparavano di sicuro, ma per rappresaglia bruciarono tutto. Quando però avevano risposto al fuoco, i tedeschi avevano ferito Stella e lo sbaglio grosso fu poi quello di portarlo all’ospedale a Poppi. Lì c’erano i tedeschi che, quando scoprirono che era stato ferito da una loro arma, lo portarono in Campaldino, vicino al fiume, e lo fucilarono con diversi altri. Come ti ho già detto, per rappresaglia i tedeschi avevano fatto anche una retata di uomini, che poi fortunatamente Don Bozzo riuscì a far rilasciare.
Anche io una volta stavo per fare un attentato vicino a Strada, al ponte del Rio, dove c’era sempre fermo un autoblindo tedesco. Una sera si partì, s’andò laggiù e ci si nascose sotto il ponticino, io, Cicalino e altri di Strada, con due o tre bombe a mano. Gli si voleva tirare, si voleva vedere di fare qualcosa. Ma alla fine non se ne fece di nulla perché Lisa, la mamma di Clara, c’implorò di stare fermi, perché aveva paura che gli bruciassero la casa, lì al Pizzico. Noi gli si dette retta e non si fece nulla, ma si vede che la sua casa era destinata ad essere bruciata perché, dopo qualche giorno, i tedeschi la bruciarono per rappresaglia contro l’uccisione di un loro soldato, che avvenne proprio vicino al ponte del Rio. E anche in Prato, dove i partigiani tirarono a una motocarrozzina, i tedeschi bruciarono parecchie case.
Ma fu a Pratarutoli e a Cetica che i tedeschi fecero la rappresaglia più atroce e tremenda e successe il 29 Giugno, proprio nel giorno di San Pietro e Paolo. Il giorno avanti i partigiani avevano ammazzato Farina ma, anche se questo forse fu un motivo in più per fare quello che poi fecero, i tedeschi e i fascisti fecero questa strage per vendicarsi di alcuni attacchi che avevano avuto dai partigiani. Questi, pochi giorni prima, avevano ammazzato due tedeschi al ponte del Rio, due tedeschi che sembra avessero la Croce Rossa al braccio. Quella rappresaglia fu una cosa spaventosa e in quel giorno i tedeschi, ma per me con loro c’era anche i fascisti, ammazzarono parecchia gente. Cominciarono a Pagliericcio, dove ammazzarono un Grifoni, che non fece a tempo a entrare in casa. Poi, lungo la strada, ammazzarono i Municchi, un ragazzo di quindici anni e il suo babbo, e a Pratarutoli altri cinque. Lì cominciarono anche a dare fuoco alle case. Dopo arrivarono a Cetica, e lassù ne ammazzarono parecchi, più di una decina di sicuro. Di questi due o tre erano di Cetica, e meno male che quasi tutti gli abitanti erano già fuggiti, avvisati dal rumore dei primi spari a Pagliericcio e Pratarutoli, mentre gli altri che erano stati uccisi erano partigiani che avevano cercato di difendersi. Poi cominciarono a far saltare e a bruciare, insomma a distruggere molte case, ma le case dei fascisti, anche se a Cetica erano pochi, non le toccarono. E secondo te, come facevano a sapere quali erano quelle dei fascisti e quelle no, se con loro non c’erano anche i fascisti, questi qui della zona? Nella serata dello stesso giorno i partigiani, quando i tedeschi tornarono verso Strada, li attaccarono vicino al ponte di Pagliericcio e ne ammazzarono parecchi.
La mia mamma il giorno dopo andò a Cetica, a piedi, per avere notizie di mio fratello Giannetto, che si sapeva che era con i partigiani in Pratomagno. Lassù seppe che a Cetica lui non c’era, ma quando tornò in giù i capelli le erano diventati tutti bianchi, tornò terrorizzata dalle scene spaventose che aveva visto. Nei giorni seguenti i tedeschi, prima di partire verso il Nord, bruciarono e minarono un monte di case a Prato, a Rifiglio, a Pagliericcio e in tanti altri posti e dappertutto continuarono ad ammazzare gente, parecchia, tutta gente innocente, come a Montemignaio. E man mano che se ne andavano, minarono e distrussero tutti i ponti. A me sembra che da queste parti rimase in piedi solo il ponte romanico di Cetica.
Gianni Ronconi, (Intervista a mio zio Gilberto Giannotti) La guerra del postino di Cetica, Mémoires de guerre

60 lunghi anni sono passati da quel tragico 1944 che vide le nostre contrade sotto il terrore nazista, quei giorni di una lunga estate di sangue che fece della Toscana una terra di morte, distruzione e deportazione. Caduta Cassino, con la presa di Roma, la Toscana divenne il perno di tutto il sistema difensivo della “Linea Gotica o Linea Verde”. All’avvicinarsi del fronte, il Maresciallo Kesserling intende rendere sicuri i luoghi dove si arresterà la prima linea tedesca, quindi ordina i grandi rastrellamenti in quelle zone rese insicure dalle forze partigiane, ormai forti, come i rilievi montani e i passi appenninici che i tedeschi segnavano con cartelli con scritto “Achtung-bandegebiet”. Già nella primavera, con il grande rastrellamento della Falterona del 12 Aprile 1944 si è avuto visione della strategia nazifascista che cerca di recidere il legame tra la popolazione e i ribelli, così avvengono gli eccidi di Vallucciole, Partina, Moscaio, con centinaia di vittime innocenti, e con le distruzioni e il terrore si vuole piegare la gente dei paesi e delle campagne a interrompere l’aiuto morale e materiale che viene dato ai partigiani; aiuto che è doveroso non dimenticare, quello dato dalla Chiesa, che in particolare coi poveri preti delle piccole parrocchie, ha scelto di combattere con la Resistenza per la libertà. Anche l’azione di Cetica del 29 Giugno 1944 contemporaneamente a quelle di Civitella della Chiana – Cornia S. Pancrazio (223 morti) viene effettuata da reparti speciali della Wehrmacht nell’ambito della stessa operazione programmata (vedi K.T.B = 10 = N° 7) nei documenti dell’esercito tedesco ora consultabili dagli storici, nonostante i quali c’è ancora chi si ostina a dire che tutto avvenne perché i partigiani avevano ucciso dei soldati tedeschi, anche se ciò sicuramente aumentò la rabbia bestiale dei nazisti. Dal 26 Giugno, il II Battaglione del 3° Brandemurg era in marcia per Strada in Casentino per rinforzare il Koruck 594 che avrebbe dovuto attaccare il 29 i partigiani a Cetica, distruggerli e proseguire per il Pratomagno e sbaragliare la brigata “Lanciotto” che al comando di Potente rendeva insicure le vie di comunicazione tedesche del Casentino e del Valdarno. Ma per la prima volta le forze partigiane non solo resistettero, ma contrattaccarono, infliggendo forti perdite ai tedeschi che all’alba, guidati dai fascisti locali, avevano attaccato sicuri del successo dell’operazione. Durante la tragica giornata, rimasero uccisi 15 civili, mentre il piccolo centro montano ebbe centinaia di case distrutte dalle granate e dagli incendi, i partigiani ebbero 14 caduti e molti feriti. Ma nonostante la storia, per molti anni una parte del mondo politico ha tentato di sminuire l’apporto fondamentale dato dalla Resistenza alla liberazione del paese, non volendo riconoscere il giusto diritto di un popolo a combattere per la propria liberazione. Anzi, negli ultimi tempi, il vento del revisionismo ha raggiunto livelli impensabili, come mettere sullo stesso piano chi ha lottato per la libertà dei popoli, e chi ha combattuto insieme agli aguzzini dei forni crematori, cercando di rimettere in discussione il giudizio storico sulla Resistenza e il ruolo avuto dalla stessa sulle fondamenta della democrazia e della carta costituzionale. E’ in questo clima che la piccola comunità di Cetica si appresta a festeggiare il 60° della Resistenza e della sua tragedia, commemorando i suoi morti e quelli partigiani, affinché si mantenga viva la fiamma di libertà e di giustizia per le quali molti nostri giovani scelsero di battersi, e molti dettero la vita. La lezione storica che la Resistenza ci ha lasciato: per il rispetto e la dignità dell’uomo è stata ripresa e rilanciata dal Presidente della Repubblica Ciampi che a Como ha detto: “Quello della Resistenza fu un sentimento diffuso che ebbe nei Partigiani la sua punta più avanzata e fu condiviso dalla maggior parte degli italiani, soprattutto i più umili, e dalla Resistenza nacque la Repubblica consacrata dalla costituzione”. Questo autorevole giudizio crediamo sia da considerarsi definitivo.
Redazione, Storia di Cetica, Proloco “I tre confini” di Cetica