Un giornalista esule tedesco, pacifista, rapito dai nazisti in Svizzera

Berthold Jacob (foto akg-images / TT News Agency qui ripresa da www.nzz.ch)

Il 9.3.1935 la Gestapo, la polizia segreta del regime nazista, rapì a Basilea e condusse a Weil am Rhein, in territorio ted., il giornalista Berthold Jacob, privato della nazionalità ted. nel 1933. Fin dagli anni 1920-30 J. aveva denunciato il riarmo segreto della Germania (attraverso truppe paramilitari illegali, la cosiddetta Reichswehr nera) e l’esecuzione di omicidi politici. La polizia basilese riuscì rapidamente a ricostruire l’accaduto e ad arrestare la spia Hans Wesemann. Il Consiglio fed. protestò per la violazione della sovranità nazionale e pretese riparazione. Di fronte al rifiuto delle autorità ted., fu avviata una procedura arbitrale in base al trattato di arbitrato e di conciliazione tra i due Paesi del 3.12.1921. L’eco europea del caso e il rischio di un aggravamento del torto con la produzione delle prove al tribunale arbitrale intern. fecero cedere il governo del Reich e portarono alla riconsegna di Jacob alla Svizzera il 17.9.1935. Sul piano giur., l’affare si concluse il 6.5.1936 con la condanna di Wesemann da parte del tribunale penale basilese, mentre nessun agente ted. poté essere incriminato. Scontata la pena, nel 1938 Wesemann fu espulso. Jacob fu nuovamente rapito dalla Gestapo nel 1941 a Lisbona, e morì nel 1944 a Berlino in seguito ai maltrattamenti subiti in carcere.
Bernard Degen (traduzione: Alberto Tognola), Affare Jacob, Dizionario Storico della Svizzera, 30 gennaio 2014

Basilea: vita e delitti del caso Berthold Jacob
Autore Stefano Ghigna
Pagine 154
Anno 2014
Edizioni Ponte Gobbo, collana I Girasoli
[…]
In questo libro [Stefano Ghigna] propone un romanzo giallo tratto da una storia vera, ambientato durante la seconda guerra mondiale. Racconta l’autore di aver avuto l’occasione di imbattersi nella storia del giornalista Berthold Jacob e in autorità governative della Confederazione Elvetica: una serie di personaggi operativi negli anni in cui incombeva l’ombra, già piuttosto sinistra, nonostante le orecchie da mercante e gli occhi imbalsamati dell’Europa democratica, di Hitler che pochi anni dopo scatenerà il putiferio mondiale.
Sull’intelaiatura reale di nomi, luoghi, personaggi e azioni, Ghigna ha imbastito la trama che si dipana con il commissario Pinon, uomo immerso nella realtà contrastata del momento, percorso da interiori dilemmi e sofferte delusioni e con una particolare famiglia, in cui emergono le comuni, eterne questioni e gli immancabili dubbi sulla conduzione dei rapporti tra genitori e figli. La narrazione non poteva però esulare dalla quotidianità, dal succedersi dei giorni e dell’intreccio del tutto fantastico di incontri, dialoghi, vicende collaterali, perché la vita è densa di affetti, dilemmi, rapporti, di arte, di bellezza, di persone che vivono in quei mesi in cui si dibattono questioni morali superiori e delitti di “ordinaria” amministrazione. Nella trama trovano così spazio un’enigmatica ballerina, il barone, viveur decaduto, l’industriale sedotto, la portinaia di logorroica simpatia, il napoletano trapiantato e anche spensierati suggeritori di “tecniche sessuali”.
Dalla narrazione emerge che la piccola Svizzera, tra i possenti calibri europei, silenziosi per casi analoghi, fu unica, nel marzo 1935, a osare un infuocato scontro diplomatico con il confinante stato nazista; iniziativa, non per un suo cittadino, ma per un giornalista, apolide tedesco, privo quindi di cittadinanza, una specie di pacco senza indirizzo, per un giorno solo, anzi poche ore, presente a Basilea e qui rapito dalla Gestapo, buttato in una Mercedes nera, narcotizzato e trasferito a tutta velocità in Germania, senza che i doganieri svizzeri, allora disarmati, potessero opporsi.
La Svizzera innesca una vibrante protesta, prima verbale, poi formale, in un iter di crescente indignazione, fino a essere pronta ad adire al Tribunale Internazionale, insediato a Losanna, con prove schiaccianti, prodotte da indagini accurate. Nel museo tedesco ora dedicato agli antinazisti ante-litteram, Berthold Jacob ha una collocazione significativa.
Renato Passerini, Basilea: vita e delitti del caso Berthold Jacob, il Piacenza, 6 febbraio 2015

«L’affaire Berthold Jacob
Ricorre quest’anno il settantesimo della scomparsa di Giuseppe Motta (1871-1940), Presidente della Confederazione a più riprese e fautore di un lungo periodo di governo che da lui prese il nome: la proverbiale “era Motta”. Alla figura e all’operato del ticinese nativo di Airolo sono legate le delicate fasi del caso Berthold Jacob, il giornalista tedesco rapito nel 1935 dai nazisti sul suolo elvetico. Giuseppe Motta si adoperò per ottenerne la liberazione, protestando con fermezza presso il governo del Reich fino a riuscire nell’intento.
Il clima politico dei primi anni dell’ascesa di Adolf Hitler al potere è ben evidenziato nelle sagaci caricature della rivista satirica svizzera «Nebelspalter», che con uscite settimanali ben cadenzate a partire dal 1933 svolse un’importante azione culturale e sociale nel tentativo di contrastare il diffondersi del fascismo e del nazionalsocialismo. In quest’ottica «Nebelspalter» dedicò grande attenzione alla vicenda in cui incorse nel 1935 il giornalista ebreo Berthold Jacob. Tutta la questione si presenta a tinte fosche: Berthold Jacob era in odio ai nazisti ancor prima dell’avvento di Hitler per aver denunciato fin dai tempi della Repubblica di Weimar l’accelerata militarizzazione della Germania. I suoi articoli, apparsi tra il 1928 e il 1929 nel Die Weltbühne, provocarono difficoltà ed imbarazzi nelle alte sfere dello Stato Maggiore dell’Esercito tedesco. Sentendosi minacciato in patria, nel 1932 decise di lasciare la Germania e di trasferirsi a Strasburgo, percependo che di lì a poco il Paese sarebbe entrato in una fase storica pericolosa per chiunque avesse a cuore la libertà e la democrazia. L’improvvisa privazione nel 1933 della cittadinanza tedesca ne fu la palese conferma. Altre conferme della protervia nazista si ebbero l’anno successivo, quando la Gestapo effettuò un primo tentativo, non riuscito, di rapire il giornalista nell’ancora autonoma regione della Saar per riportarlo in Germania, ricorrendo per questo ad un ambiguo personaggio di nome Hans Wesemann, inizialmente amico e collega di Berthold Jacob e poi assoldato come spia dal governo di Hitler. Fallito il primo tentativo e interrotta l’operazione per volere dello stesso Wesemann, che rischiò di farsi scoprire, nel 1935 il rapimento andò a segno quando la spia invitò il giornalista a Basilea offrendogli un passaporto falso tedesco e la lusinga di diventare corrispondente a Strasburgo dell’agenzia di stampa inglese «Indipendent Newspaper Service».
Il 9 marzo i due si incontrarono in un hotel di Basilea, subito raggiunti da un terzo uomo che finse di essere il falsario incaricato di procurare il passaporto. Questi riferì che era necessario recarsi nella sua abitazione per poter completare alcune parti del documento. In realtà si trattava di un espediente ben orchestrato per far salire Jacob su un taxi guidato da una terza spia e lanciare la vettura ad alta velocità oltre il vicinissimo confine con la Germania, dove tutto era stato preparato ad arte per accogliere i quattro e arrestare il giornalista. Questa volta il tentativo riuscì e Jacob fu immediatamente trasferito a Weil am Rhein dove furono avviate a suo carico le procedure per il processo di tradimento ai danni del Reich.
In una vignetta satirica di Gregor Rabinovitch pubblicata nel numero di aprile di «Nebelspalter», un candido Berthold Jacob appena “rientrato” forzatamente in Germania si intrattiene con un energumeno in divisa nazista che gli dà il benvenuto e gli indica la strada del patibolo; sullo sfondo un boia in tuba nera lo attende con un cinico sorriso accanto alla forca, mentre sei lugubri corvi sorvolano la zona. Il caso Jacob nel chiarimento ufficiale tedesco, recita il titolo della caricatura. Più sotto, riferito ad un’improbabile dichiarazione di Jacob, si legge: Io mi chiamo Salomon Jacob e sono felice di trovarmi in patria.
Come avviene nelle storie di spionaggio e di intrighi internazionali, spesso le spie si tradiscono e cadono in qualche errore fatale. Così fu anche per il subdolo Wesemann, arrestato dalla polizia federale poco tempo dopo nella stessa Basilea, dove era tornato per incontrarsi con la propria compagna. Confessò la sua appartenenza alla Gestapo e ammise il proprio ruolo nella vicenda del rapimento, inducendo il Governo di Berna ad intraprendere azioni di pressione diplomatica sulla Germania nazista per ottenere l’immediato rilascio di Jacob. La violazione della sovranità nazionale da parte del Governo tedesco e il successivo rifiuto di rilasciare Jacob, diede forza al Consiglio federale di invocare il trattato di arbitrato e di conciliazione firmato tra Svizzera e Germania il 31 dicembre 1921. In caso di diniego da parte delle autorità tedesche, Giuseppe Motta minacciò di ricorrere al Tribunale arbitrale internazionale fornendo tutte le prove dell’avvenuta violazione ai danni della sovranità nazionale elvetica.
Quella risoluta presa di posizione costrinse il Reich a disporre la scarcerazione di Jacob e a riconsegnarlo alla Svizzera il 17 settembre 1935. Da qui, con un tempestivo provvedimento di espulsione il giornalista riparò in Francia, mentre Hans Wesemann fu condannato l’anno successivo dal Tribunale di Basilea a tre anni di carcere con l’accusa di sequestro di persona, ed al conseguente obbligo di lasciare la Confederazione al termine della pena. La caricatura di Gregor Rabinovitch, posta in copertina dell’ultimo numero di aprile 1935 di «Nebelspalter», raffigura una soddisfatta Mater Helvetia nell’atto di felicitarsi con l’uomo di Airolo, che regge sottobraccio una cartella con la scritta Protest Note an Deutschland. Le splendide caricature di Gregor Rabinovitch ci danno infine la misura delle abilità di litografi, intagliatori ed incisori che all’epoca misero al servizio della satira politica le loro intuizioni e le loro capacità. Talvolta prendendo in giro anche se stessi, come volle fare per l’occasione Rabinovitch comparendo a margine destro della vignetta: il grafico spunta da dietro la veste dell’Helvetia per porgere un mazzo di fiori congratularsi personalmente con Giuseppe Motta.»
Halberdier, L’affaire Berthold Jacob, Termometro politico, 8 settembre 2009

[…] Eletto pres. della Conf. per il 1920 (carica che ricoprì anche negli anni 1915, 1927, 1932 e 1937), Motta diresse, da allora e fino alla morte, il Dipartimento politico. Dovette subito affrontare la grave questione dell’adesione della Svizzera alla Società delle Nazioni (SdN), in favore della quale si era già molto adoperato il suo predecessore Felix Calonder. Con ripetuti interventi presso i responsabili del partito conservatore e la gerarchia cattolica, Motta influì certamente sull’opinione dei cattolici svizzeri, contribuendo così al successo della votazione popolare (16.5.1920) che sancì l’entrata della Svizzera nella SdN e inaugurò il periodo della cosiddetta neutralità differenziata. Oratore ascoltato della tribuna ginevrina, Motta intervenne più volte in favore dell’universalità della SdN e a difesa del principio dell’arbitrato interno.
[…] I rapporti con l’Italia, a cui Motta prestò particolare attenzione, furono caratterizzati sul piano ufficiale da grande cordialità. I molti incidenti suscitati dalla presenza di rifugiati antifascisti e dei fasci italici e dalla propaganda di stampo irredentistico non intaccarono fondamentalmente l’amicizia con Roma, che per il capo della diplomazia aveva priorità sulla difesa del diritto di asilo. L’invasione italiana dell’Etiopia e le sanzioni economiche della SdN contro l’Italia posero Motta in una situazione molto delicata: in definitiva più che il Patto della SdN fu la difesa della neutralità e degli interessi economici a determinare la posizione della Svizzera, che partecipò alle sanzioni in modo molto limitato e quasi simbolico. Nel dicembre del 1936, su proposta di Motta al Consiglio federale, la Svizzera fu il primo Paese neutrale a riconoscere de jure l’Impero italiano in Africa. In seguito sia alla crisi della SdN sia alle minacce di referendum popolare perché la Svizzera si ritirasse dall’istituzione, Motta cercò di ridurre i legami con essa; nel maggio del 1938 il Consiglio della SdN liberò infine la Confederazione da ogni obbligo di sanzione.
I rapporti della Svizzera con il Terzo Reich furono in gran parte condizionati dagli ingenti scambi economici fra i due Paesi e dai cospicui investimenti elvetici in Germania, su cui Motta ovviamente non poté influire molto. A livello diplomatico si sforzò soprattutto di ottenere da Adolf Hitler la promessa ufficiale di rispettare la neutralità elvetica. Pur perseguendo essenzialmente una politica di modus vivendi con il minaccioso vicino del nord, la linea di Motta non mancò di fermezza; riuscì così a ottenere la riconsegna di Berthold Jacob, giornalista rapito a Basilea dalla Gestapo nel 1935. Nel dicembre del 1938 Motta prese posizione contro le pretese esorbitanti della stampa nazista, che voleva imporre una sorta di neutralità “totalitaria” all’intera opinione pubblica elvetica.
Attivo per un ventennio consecutivo (la cosiddetta “era Motta”) sulla scena Svizzera e ticinese, Motta esercitò sulla politica estera elvetica un influsso diretto e personale, che non va tuttavia sopravvalutato. Nei rapporti con Mosca, ad esempio, malgrado il suo anticomunismo e il suo antisocialismo, non fu il fautore della linea più dura in seno al governo, anche se toccò a lui difendere pubblicamente tale posizione. Egli in genere rispettò la regola della collegialità; la sua impronta personale fu invece più evidente nei rapporti con l’Italia e la SdN. La sua azione politica può essere vista come uno sforzo di sintesi fra idealismo e realismo politico; il contesto interno minaccioso degli anni 1930-40 e la crisi della SdN lo spinsero tuttavia a porre l’accento sulla Realpolitik, cercando di salvaguardare a ogni costo i rapporti con il Terzo Reich e con l’Italia.
Luciano Milan Danti, Giuseppe Motta…, Giornale Adula, 15 marzo 2016