I ragazzi dalle magliette a strisce

Genova: Piazza De Ferrari

La «crisi Tambroni»
Alla fine degli anni cinquanta, la necessità di lasciarsi alle spalle gli eccessi ideologici della guerra fredda e di allentare le gravi tensioni sociali innescate dal «miracolo economico» modificò l’agenda politica del paese e spinse le classi dirigenti a confrontarsi con i problemi connessi all’eventualità di una «apertura a sinistra». Eppure, nonostante l’emergere di fattori internazionali e nazionali favorevoli a tale svolta, gli avvenimenti sembrarono prendere una piega diversa. Nei primi mesi del 1960, infatti, la giovane e fragile democrazia visse una delle crisi più lunghe e gravi della sua storia.
Dopo la caduta dell’ennesimo Esecutivo centrista (il II Governo Segni) avvenuta nel febbraio 1960, per circa due mesi si susseguirono alcuni tentativi di aprire ai socialisti. Tuttavia, i settori più conservatori dell’economia e della politica si scagliarono contro questa ipotesi. I principali soggetti che intervennero a frenare la nuova formula governativa furono la Confindustria di De Micheli e alcune influenti personalità delle gerarchie ecclesiastiche le quali, a dispetto del principio della laicità dello Stato, interferirono in modo pesante sulla scena politica.
Alla fine, una soluzione fragile fu trovata dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi che decise di affidare al democristiano Fernando Tambroni l’incarico di costituire il nuovo Governo. Questi, mosso da una forte ambizione, dette vita ad un Esecutivo monocolore che però aveva bisogno dei voti del Movimento sociale italiano, partito di ispirazione neofascista. Dopo un primo tentativo fallito, a fine aprile Tambroni riuscì ad ottenere la fiducia dal Parlamento.
Dopo un paio di mesi di calma apparente, la situazione precipitò il 30 giugno. Quel giorno, infatti, si tenne a Genova lo sciopero generale cittadino, indetto dalla Camera del lavoro contro la decisione del MSI di svolgere nel capoluogo ligure, medaglia d’oro della Resistenza, il congresso nazionale. La manifestazione, organizzata dalla CGIL e dalle associazioni partigiane riunite nel Consiglio federativo della Resistenza, si risolse in una débâcle per i missini, costretti a fuggire dalla città, e in una umiliazione per le forze dell’ordine, costrette a difendersi dalla furia dei manifestanti.
Ebbero così inizio le drammatiche giornate del luglio 1960 quando in alcune città italiane si moltiplicarono gli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine. La miccia esplose a Reggio Emilia il 7 luglio, quando, durante lo sciopero generale indetto dalla Camera del Lavoro per protestare contro gli incidenti di Roma del giorno prima, la polizia sparò ad altezza uomo, uccidendo cinque dimostranti (Lauro Parioli, Ovidio Franchi, Emilio Reverberi, Marino Serri, Afro Tondelli). L’ondata di indignazione fu tale da spingere la CGIL, senza l’appoggio di CISL e UIL, a proclamare per l’indomani lo sciopero generale nazionale.
Con lo sciopero generale dell’8 luglio la CGIL si pose alla guida del malcontento popolare. In questo modo, la Confederazione colmò i limiti di un movimento di derivazione resistenziale, attivo solo in alcuni territori. Nelle giornate di luglio riemersero vecchi dissapori nel sindacato italiano, legati in particolare all’annosa questione dell’azione politica del sindacato. Pur opponendosi alla deriva autoritaria del Governo Tambroni, CISL e UIL rifiutarono ancora una volta la partecipazione ad uno sciopero politico contro il Governo. Al contrario la CGIL, in coerenza con la sua storia, assunse un ruolo politico, autonomo ma in stretta relazione con i partiti di sinistra, teso alla difesa delle istituzioni e alla richiesta di un loro rinnovamento in senso più democratico e partecipato.
Nell’atteggiamento della Confederazione appariva la volontà non tanto di supplire, quanto di incoraggiare e sostenere un mondo politico colto di sorpresa dalla radicalità degli avvenimenti di quei giorni. Solo dopo lo sciopero generale e dopo l’adesione di tutti al drammatico appello di pacificazione lanciato dal presidente del Senato Cesare Merzagora, i partiti ripresero il controllo della situazione: a cominciare dalla Democrazia Cristiana del segretario Aldo Moro, che esercitò tali pressioni su Tambroni da costringerlo il 19 luglio alle dimissioni. Si trattò di una reazione tardiva che però contribuì a rasserenare gli animi e ad aprire una nuova fase politica. Il nuovo Governo, presieduto da Amintore Fanfani, fu definito da Moro delle «convergenze parallele», con una celebre formula che rivelava tutta la delicatezza del passaggio politico. Infatti, per la prima volta dalla rottura dell’unità antifascista del 1947, il nuovo Esecutivo ricevette l’astensione del PSI, preludio al successivo ingresso dei socialisti nell’area di governo.
I ragazzi dalle magliette a strisce
La notizia del congresso missino a Genova iniziò a diffondersi nella seconda metà di maggio. Il 14, infatti, il Comitato centrale del Msi aveva stabilito di tenere proprio nel capoluogo ligure il suo più importante appuntamento politico, fissandone la data ai primi giorni di luglio. La scelta di tenere l’assise nella città medaglia d’oro della Resistenza fu accompagnata da altre provocazioni, in particolare l’invito a presenziare al congresso rivolto a Carlo Emanuele Basile, già prefetto repubblichino della città e responsabile di crimini efferati durante la guerra civile del 1943-45 (in particolare della deportazione operaia del 16 giugno 1944); e soprattutto nell’indicazione del Teatro Margherita come sede dell’evento, posto a ridosso del ponte Monumentale di via XX Settembre che ospitava il sacrario partigiano
Dalla fine di maggio, dunque, iniziò a montare la protesta. Il primo appuntamento pubblico nel quale si manifestò la volontà di ostacolare in tutti i modi il congresso fu l’annuale raduno partigiano del 2 giugno a Pannesi (nell’entroterra di Recco), concluso dall’intervento di Umberto Terracini. L’escalation di eventi s’intensificò nei giorni seguenti, attraverso appelli, comizi, scioperi; nella settimana che precedette il 30 giugno, gli episodi più importanti furono lo sciopero dei portuali del 25, con il comizio a piazza Banchi, quando si registrarono i primi scontri tra manifestanti e forze di polizia, e la manifestazione del 28, conclusa a piazza della Vittoria dal discorso incandescente di Sandro Pertini, ricordato nella memoria collettiva come «du brichettu», cioè del fiammifero, con cui venne dato fuoco alle polveri.
Le manifestazioni genovesi ebbero come principale promotore il locale Consiglio federativo della Resistenza (Cfr), l’organismo istituito a livello nazionale nel febbraio 1960 sotto la presidenza di Ferruccio Parri (il comandante partigiano «Maurizio», primo Presidente del Consiglio nell’Italia liberata), che racchiudeva quasi tutte le principali associazioni antifasciste (i partigiani di Anpi e Fiap, i perseguitati politici dell’Anppia, i deportati dell’Aned).
Se la direzione politica del movimento antifascista fu mantenuta saldamente (e saggiamente) nelle mani del Cfr, sul piano organizzativo il referente principale delle associazioni partigiane fu senza dubbio la Camera del Lavoro. La dimostrazione più evidente si ebbe proprio in occasione dello sciopero generale del 30 giugno, che rappresentò la spallata decisiva poiché cambiò radicalmente gli equilibri in campo e indirizzò gli avvenimenti verso approdi impensabili fino a poche ore prima. Infatti, l’astensione pressoché generalizzata dal lavoro mostrò un movimento tanto ampio e variegato, dagli operai ai portuali, dai tassisti ai docenti universitari, quanto unito e disposto a non cedere; ma furono soprattutto gli scontri avvenuti a piazza De Ferrari nel tardo pomeriggio tra giovani manifestanti e forze dell’ordine (le quali ebbero visibilmente la peggio di fronte a un’azione efficace di vera e propria rivolta), che indussero il Prefetto Luigi Pianese a modificare i piani: dapprima si pensò allo spostamento del congresso nella località periferica di Nervi; quindi, di fronte alle minacce di ulteriori manifestazioni ancora più radicali, si decise l’annullamento dell’assise. La vittoria del fronte antifascista era totale.
La mobilitazione fu organizzata in modo collettivo da una pluralità di soggetti (associazioni, circoli, gruppi, partiti, sindacati) che si riconoscevano reciproca autonomia ma che puntavano al medesimo obiettivo, vale a dire ricacciare il Msi in una posizione di marginalità politica. La sollevazione non fu per nulla organizzata, anzi scoppiò in modo improvviso, spontaneo, favorita dalla conformazione territoriale del centro storico cittadino, dalla sorpresa e dalla conseguente impreparazione di polizia e carabinieri, dalla gravità del disagio sociale vissuto dai ceti più poveri e dalla radicalità libertaria di chi rifiutava gli inviti alla prudenza provenienti da rappresentanti partigiani, sindacalisti e dirigenti di partito, i quali temevano la reazione spropositata delle autorità.
La rivolta, in breve, vide come protagonista una nuova generazione di giovani, i cosiddetti «ragazzi dalle magliette a strisce», che per motivi anagrafici non avevano partecipato alla lotta di Liberazione e che guardavano all’antifascismo non (solo) con gli occhi rivolti al passato, ma considerandolo come un insieme di valori e di pratiche in grado di sottrarli alla precarietà del presente e all’incertezza del futuro.
testi tratti da:
Loreto Fabrizio, Storia della CGIL. Dalle origini ad oggi, Roma, Ediesse, 2017
Loreto Fabrizio, Il sindacato nella città ferita. Storia della Camera del Lavoro di Genova negli anni sessanta e settanta, Roma, Ediesse, 2016

Redazione, Magliette a strisce, CGIL Liguria, 18 ottobre 2021