I ribelli rimasti in montagna approfittavano della pausa forzata per analizzare la situazione e riorganizzarsi

Colle del Melogno. Fonte: mapio.net

L’inverno del ’44 vide le formazioni ribelli savonesi decisamente allo sbando, decimate e scompigliate dai rastrellamenti. Anche in città l’antifascismo aveva subito colpi molto duri.
L’unico gruppo a rimanere indenne ed intatto in quelle settimane fu quello attestato a Repiano, presso Montenotte, che nei primi giorni dell’anno uccise l’ex maresciallo dei Carabinieri di Pontinvrea Recuperi. Costui, aderente al PFR, pare si distinguesse per l’accanimento con cui dava la caccia agli sbandati ed ai renitenti alla leva <1. La sopravvivenza di un nucleo intatto di uomini preparati e in parte ignoti alle forze dell’ordine si rivelò un appiglio esile ma prezioso per lo sconquassato movimento ribelle savonese: prova ne sia il fatto che proprio su questi elementi fece affidamento il Comitato Militare per mantenere un minimo di inquadramento e di ordine nelle scarse forze a sua disposizione. Tra di loro si trovavano comunque alcune vecchie conoscenze della Questura, come Libero Bianchi “Emilio”, Giovanni Carai “Mirto” e Quinto Pompili “Jean” <2.
Lo scompiglio dell’organizzazione di città era tale che nel mese di gennaio il Partito Comunista, evidentemente poco fiducioso circa gli sviluppi della lotta in montagna e vivamente allarmato dalla piega presa dagli eventi nel capoluogo, decise di far tornare a Savona i più giovani tra i ribelli di Montenotte per ridare ossigeno all’attività urbana <3. Tuttavia, grazie a delazioni seguite da accurate indagini, la Gestapo e la Questura savonese furono in grado di identificare ed arrestare rapidamente buona parte di questi militanti. L’azione di polizia, iniziata nella seconda quindicina di gennaio, non si concluse prima di marzo. Già nei primi giorni caddero prigionieri Angelo Galli, i fratelli Armando “Piccolo” e Renato “Moro” Aiello, Lorenzo Della Rosa “Lillo”, Francesco Falco, Pietro Salvo e l’addetto ai collegamenti Edoardo Gatti. Il Della Rosa e i fratelli Aiello riuscirono ben presto ad evadere rocambolescamente dalla caserma dei Carabinieri di via Giuria e tornarono alla macchia. Ma il 31 gennaio toccava ai fratelli Attilio e Angelo Briano essere catturati in una casa presso il quartiere di Lavagnola in cui erano occultate armi e munizioni. In febbraio fu la volta di Attilio Antonini, organizzatore delle prime embrionali SAP, di Lorenzo Baldo, Giuseppe Rambaldi e Giuseppe Casalini. Infine, in marzo, i Carabinieri di Montenotte arrestarono Aldo Tambuscio e Nello Bovani, ferito. Anche il CLN subì un colpo durissimo con l’arresto di Gaetano Colombo, il quale, dopo essere passato per le mani degli psicopatici della Casa dello Studente a Genova, venne fucilato al Turchino il 19 maggio insieme ai fratelli Briano e ad altri 65 antifascisti; per ultimo fu incarcerato Arturo Sanvenero, noto commerciante, accusato di finanziare i ribelli <4.
Questa sequela di colpi frenò gravemente il movimento partigiano, ma non riuscì a sradicarlo. Se i collegamenti con i residui nuclei di montagna erano saltati e le stesse organizzazioni cittadine erano in preda alla paranoia e alle difficoltà di comunicazione, concrete possibilità di azione clandestina permanevano grazie al Fronte della Gioventù, nucleo di giovani antifascisti fondato in autunno dagli operai della Scarpa & Magnano Francesco Vigliecca “Kamo” e Stefano Peluffo “Penna” e dallo studente Giuseppe Noberasco “Libro”. Ignoti alle polizie, gli appartenenti al FdG avevano potuto estendere la loro rete in tutta la provincia costituendo una preziosa base d’appoggio per tutto il movimento ribelle. Le loro attività principali consistevano nella stampa e diffusione di volantini sovversivi, nel recupero di armi, nel reclutamento di ragazzi e ragazze spesso giovanissimi <5. A fine febbraio venne diffuso il primo numero di ”La voce dei giovani”, foglio di propaganda del FdG il cui sottotitolo recitava: “a dispetto della sbirraglia fascista” <6; esso fu uno dei primi giornali clandestini della Resistenza, dopo “La nostra lotta” e “L’Unità” edizione savonese. In seguito, all’inizio della primavera, venne ciclostilato “Savona Proletaria”, organo della Federazione Comunista, che sostituì il mai uscito “Stella Rossa” (cui si stava dedicando Gaetano Colombo quando fu arrestato) <7. I frutti delle attività del FdG non tardarono a farsi vedere e si dimostrarono essenziali in una congiuntura così difficile come quella attraversata all’inizio del ’44 dall’organizzazione comunista, punta di lancia della ribellione savonese al fascismo salotino.
Parallelamente a questa fase di crisi attraversata dall’antifascismo militante, le autorità mostrarono un deciso attivismo, forti dei risultati conseguiti a Savona dalle polizie e a Cassino dalla Wehrmacht. Il 16 gennaio l’assemblea provinciale dei Fasci, presieduta dal delegato nazionale del PFR Piero Asti e svoltasi alla presenza del maggiore Nancke comandante la piazza di Savona, aveva sancito la riconferma di Bruno Bianchi a Segretario Federale e di Attilio Oltrabella a suo vice <8. Il fatto che un maggiore fosse il più alto ufficiale tedesco della città è indicativo di quanto la situazione a Savona fosse considerata tranquilla dagli alti comandi. I tedeschi erano relativamente in pochi perché potevano contare sulla piena collaborazione delle Forze Armate e degli organi di sicurezza italiani; l’eventuale sbarco degli Alleati era molto più temuto della minaccia dei ribelli alle spalle. Poi le cose cominceranno a cambiare. Tornando alla cronaca, il 25 gennaio il seniore della Milizia Alberto Crespi fu messo a capo della ricostituita 2a Legione MVSN, e lo stesso giorno il dott. Carlo Flaminio Becchi si insediò nella carica di Commissario Prefettizio al Comune. La provincia fu suddivisa in sei zone affidate ciascuna ad un ispettore federale. Escludendo la zona di Albenga, che esula dalla presente tesi, furono nominati: Riccardo Improta per Finale – Pietra – Calizzano, Carlo Alberto Ceraudo per Noli – Vado – Quiliano e Varazze, Giunio Colbertando per Sassello – Stella – Urbe, Alberto Rebella e il presidente dell’Opera Nazionale Balilla prof. Italo Materazzo per la Val Bormida. A Francesco Briatore, ispettore per l’entroterra ingauno ucciso dai partigiani il 25 giugno 1944 a Erli, sarà intitolata, come vedremo, la Brigata Nera di Savona. Questore del capoluogo era Enrico Parenti, con Michele Minervini quale vice <9. Il 28 gennaio la Questura savonese emanò un’ordinanza antiterrorismo che comminava l’esecuzione sul posto a qualsiasi ciclista sorpreso in possesso di armi e privo dell’autorizzazione a portarle. Due giorni dopo il quotidiano genovese “Il Lavoro” riportava il testo di un telegramma inviato dalla Federazione fascista di Savona al Duce e a Pavolini: “I fascisti savonesi riuniti in comune palpito di fede, mentre la barbarie anglosassone tenta di raggiungere Roma, riconsacrata a dignità imperiale dalla rivoluzione, chiedono di riprendere le armi a fianco degli eroici camerati germanici per infrangere sulle sacre strade dell’urbe gli ambiziosi piani del nemico” <10. Al di là della stucchevole ed obsoleta retorica, era evidente il desiderio di sfuggire alla triste subalternità nei confronti dei nazisti: ma si trattava di fantasie prive di riscontro nella realtà. Ai tedeschi i fascisti savonesi servivano per tenere sottomessi i loro riottosi concittadini, non certo per difendere Roma. Il 9 febbraio, nel clima di esaltazione generato tra i fascisti dalle battaglie di Anzio e di Cassino, sfilarono per Savona le reclute della GNR e delle Forze Armate repubblicane. In piazza Mameli prese la parola il col. Zino, comandante del presidio, poi, conclusa la parata in piazza Mentana, fu la volta di padre Eusebio Zappaterreni, celebre propagandista della RSI <11. Infine, il 18 dello stesso mese, il Capo della Provincia Mirabelli, in seguito al decreto del Duce che comminava la pena di morte a renitenti e disertori, invitava questi ultimi a presentarsi alle armi e i ribelli a tornare al lavoro <12. Quanto alla credibilità delle istituzioni locali, è lapidario il giudizio riportato da Caviglia nel suo diario: “Il prefetto di Savona […] è uomo di nessuna cultura sociale, politica ed economica: inutile spiegargli il senso delle leggi. Il questore […], ferocia a parte, ha il sugo di una rapa. Con tali appoggi il governo è un cadavere tenuto diritto dalle forze militari straniere” <13. Chi non si lasciò impressionare dalle esibizioni di forza dello Stato fascista repubblicano fu senz’altro l’aviazione alleata, che tornò a bombardare Savona il 16 gennaio causando oltre trenta morti, quasi tutti riuniti in S. Andrea per un battesimo <14.
Mentre i fascisti si spartivano gli incarichi, i ribelli rimasti in montagna approfittavano della pausa forzata per analizzare la situazione e riorganizzarsi. Obiettivamente, la prima fase della ribellione armata si era conclusa con un grave insuccesso, motivato ora da un’errata applicazione della tattica della guerriglia, ora dall’inesperienza e insufficiente organizzazione delle bande, ora dalla perenne carenza di uomini e/o armi. Dei quattro nuclei comunisti insediatisi in montagna sul finire dell’estate, tre erano stati attaccati con i seguenti risultati: il gruppo di Gottasecca annientato; quello di Roviasca messo in fuga; quello di Bormida seriamente indebolito. Quanto alla banda azionista e a quella autonoma, i documenti a disposizione dello scrivente non ne fanno cenno fino a primavera inoltrata, dal che si deduce che per lunghi mesi esse si attennero ad un rigoroso attendismo (salvo poi riscattarsi pienamente, come vedremo). E’ anche possibile che “Bacchetta” e “Bormida” in questi primi mesi mirassero più che altro a tenere i contatti più stretti possibili con le maggiori organizzazioni resistenziali del proprio segno esistenti nei dintorni, vale a dire rispettivamente i badogliani in Val Casotto e le bande Giustizia e Libertà di Luciano Scassi nell’Acquese, ma in mancanza di notizie certe questa resta un’ipotesi. Si imponeva ora la costituzione di un’organizzazione più articolata e di reparti più mobili, numerosi e attivi, se si voleva incidere sul corso degli eventi. Considerando che il prossimo arrivo della primavera, congiunto con una probabile offensiva alleata, avrebbe “scongelato” il potenziale umano fino allora bloccato dal clima atmosferico e morale dei mesi invernali, c’era ragione di mostrarsi cautamente ottimisti circa la futura evoluzione della lotta armata. Ma era indispensabile preparare il terreno in maniera adeguata, far trovare una struttura ben organizzata ai nuovi giovani che sarebbero affluiti nelle file partigiane. Fu senz’altro anche in base a considerazioni di questo tipo che i ribelli comunisti ancora alla macchia decisero di riunirsi nel primo distaccamento garibaldino del Savonese. Già in gennaio i superstiti del gruppo di Bormida (Carzana “Fioretto”, Parodi “Noce”, De Marco “Ernesto”, Molinari “Vela” e pochi altri) si misero al lavoro per recuperare e raggruppare tutti gli uomini ancora alla macchia. In capo a due settimane alla cascina Donea, presso Montagna, si trovarono riuniti i superstiti dei rastrellamenti invernali <15. Fu così che il 26 febbraio 1944 fu formato ufficialmente il “Gruppo Calcagno” (il termine “distaccamento” non era ancora in uso tra i partigiani) di cui fu designato comandante G. B. Parodi “Noce”. L’atto di nascita del gruppo è riportato in una relazione scritta dal vicecommissario “Vela” e dalla quale traspaiono chiaramente la mancanza di armi automatiche del gruppo, la poca fiducia nelle possibilità della guerriglia di incidere sugli eventi, l’attesa quasi messianica di uno sbarco alleato e la sensazione di solitudine provata dai comunisti, che desideravano un maggiore attivismo da parte dei simpatizzanti degli altri partiti antifascisti <16. La relazione seguente, datata 1° marzo e più ampia e ponderata, consisteva in un’interessante analisi critica delle ragioni che avevano condotto il ribellismo allo sfascio nei mesi precedenti e che tuttora ne minavano le fondamenta. “Vela” lamentava 1) la mancanza di basi adeguate; 2) la problematicità dei rifornimenti; 3) la mancanza di un elemento militarmente capace; 4) il fallimento degli obiettivi, che erano di riunire forti gruppi e infliggere perdite al nemico con il minimo danno, mentre invece si erano creati piccoli gruppi di soli comunisti ed era stato il nemico a colpire duro con il minimo danno; 5) la scarsità di uomini e il fallimento del maldestro tentativo di calare sul capoluogo in concomitanza con lo sciopero del 1° marzo (di cui dirò più avanti); 6) la mancanza di viveri e l’ambiguo rapporto con i contadini, disposti a tollerare la presenza dei partigiani solo per breve tempo e pieni di paura; 7) la necessità di un incontro chiarificatore tra i dirigenti cittadini e i ribelli alla macchia <17. Con tutto ciò, il nuovo reparto era destinato a non cedere mai più e ad essere la matrice di tutta la Resistenza garibaldina del Savonese; anzi, la sua nascita è da considerarsi l’atto fondante della Resistenza vera e propria come fenomeno organizzato e incanalato secondo criteri certi, e non più riducibile ad un pulviscolo ribellistico. Commissario politico del reparto fu Angelo “Leone” Bevilacqua, antifascista di vecchia data destinato a diventare una figura mitizzata e leggendaria. Il nome di Calcagno venne estratto a sorte tra quelli delle vittime della repressione fascista <18, inaugurando anche a Savona l’uso universalmente diffuso di intitolare i reparti combattenti ai caduti della propria parte.
Circa la data di nascita del “Calcagno”, va detto, non c’è molto accordo tra le fonti. Gimelli <19 e Bocca <20 riportano che il distaccamento nacque alla cascina delle Traversine, presso Montenotte, il 10 marzo, data che come abbiamo visto è troppo tarda. Badarello e De Vincenzi riferiscono che il gruppo, prima di raggiungere cascina Donea, scelse il proprio nome alle Smoglie dell’Amore, vicino a Montenotte <21. Da queste fonti emerge un quadro confuso e parzialmente contraddittorio; sembrerebbe che il reparto sia rimasto per molti giorni diviso tra la zona di Montenotte e quella di Montagna. La carenza di testimonianze dirette non mi permette di andare più a fondo nella questione.
Nel mese di marzo il neocostituito distaccamento si trasferì alle Tagliate, preventivamente individuate come il luogo più adatto dove porre una solida base. I primi tempi furono molto difficili: la repressione aveva parzialmente spezzato i collegamenti con la città e rendeva arduo qualunque tentativo di rifornire gli uomini alla macchia, più che mai costretti a contare esclusivamente su se stessi. Ma ormai i partigiani avevano appreso le lezioni dell’inverno precedente e non persero tempo. Il gruppo – forte di una cinquantina di elementi, in gran parte ventenni – si dedicò con impegno all’addestramento militare, alla conoscenza del territorio e all’istruzione politica. Pattugliamenti, marce diurne e notturne, esercizi di tiro (scarsi, le munizioni erano preziose), rudimenti di tattica della guerriglia, sensibilizzazione delle reclute ai temi della guerra di liberazione sostenuti dal CLN e dal PCI, formarono nel volgere di poche settimane il nucleo da cui sarebbe germinata tutta la Resistenza garibaldina di montagna del Savonese. Tra i partigiani del “Calcagno” si trovavano quasi tutti i futuri comandanti e commissari politici delle Brigate e dei distaccamenti che si sarebbero via via formati nella zona. E’ opportuno a questo punto precisare le caratteristiche dell’ambiente geografico che per lunghi mesi fece da scomoda casa ai resistenti garibaldini. Tra il colle del Melogno e il valico di Cadibona lo spartiacque alpino corre a breve distanza dal mare, mantenendosi sugli 800 metri di quota all’incirca, con vette che raramente superano i mille. La prima base del “Calcagno”, alle Tagliate, rimase il cardine dello schieramento garibaldino per tutto il corso della guerra, situata com’era a cavallo dello spartiacque; essa permetteva indifferentemente collegamenti ed azioni verso l’alta Val Bormida, Vado Ligure ed il Finale. Altri punti chiave tra i due valichi erano le modeste vette sui cui scoscesi pendii boscosi si accampavano i distaccamenti: Monte Alto (956 metri), Rocca dei Corvi (792 metri), Pian dei Corsi (1028 metri). Ai piedi della bastionata montuosa si trovavano vari paesi: sul versante marittimo, da est a ovest, Quiliano, Roviasca, Montagna, Segno, le frazioni di Vezzi (S. Giorgio, S. Filippo, Portio), Feglino, Carbuta, Calice Ligure; su quello padano Altare, Màllare, Pàllare, Bormida. Va detto che tutti questi piccoli centri, oggi in gran parte semiabbandonati, non solo erano discretamente popolati, ma ospitavano altresì un buon numero di civili sfollati dai centri rivieraschi per sfuggire alle bombe alleate e alla fame. La zona non si poteva certo dire ricca di risorse, ma nessuna base partigiana lo è mai stata. Oggi il bosco ha divorato tutto, ma durante la guerra in mezzo ai castagni si aprivano ancora orti, frutteti, fasce coltivate, miseri pascoli per le poche mucche e pecore rimaste. Fu su queste magre risorse, e sull’aiuto non sempre entusiasta dei contadini che i partigiani dovettero contare per sopravvivere lassù.
Dormendo spesso all’aperto, o sotto improvvisate capanne di ramaglie ricoperte da teli da carro merci, i partigiani del “Calcagno” si organizzarono in squadre e costituirono il servizio di intendenza, addetto ai rifornimenti, quello di collegamento, espletato da staffette che correvano gravi rischi in caso di cattura, quello delle informazioni militari (SIM, come il suo omonimo fascista) e infine, quando si poté contare su medici fidati all’esterno e all’interno del reparto, quello sanitario <22.
[NOTE]
1. M. Calvo, op. cit., p. 363.
2. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 741.
3. M. Calvo, op. cit., pp. 364 e 366.
4. Le Brigate Garibaldi…cit., vol. III, pp. 552 – 553. Anche la qualifica di “commissario politico” era stata sostituita da quella, politicamente più neutra, di “commissario di guerra”: vedi G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 779.
5. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 286.
6. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 341.
7. Cfr. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 272 e G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 352.
8. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 352.
9. Ibidem, ed. 1985, vol. II, p. 352.
10. G. Pansa, Il gladio e l’alloro…cit., p. 228.
11. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., pp. 272 – 273.
12. Ibidem, p. 273.
13. Cfr. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 353 e M. Calvo, op. cit., p. 100.
14. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 353.
15. E. De Vincenzi, O bella ciao…cit., pp. 134 – 135.
16. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., pp. 273 – 274.
17. N. De Marco – R. Aiolfi, op. cit., p. 151.
18. Ibidem, p. 151.
19. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 354.
20. R. Badarello – E. De Vincenzi, op. cit., p. 274.
21. G. Gimelli, op. cit., ed. 1985, vol. II, p. 355.
22. F. Pellero, Operazione Balilla…cit.
Stefano d’Adamo, Savona Bandengebiet – La rivolta di una provincia ligure (’43-’45), Tesi di Laurea, Università degli Studi di Milano, Anno accademico 1999/2000