Ieri sono stato solennemente silurato alle elezioni del congresso

Significative sono le lettere politiche [di Italo Calvino] dell’ottobre del 1956, quando ci fu la rivoluzione ungherese, una sollevazione armata di spirito antisovietico nell’Ungheria socialista che durò dal 23 ottobre al 10-11 novembre. Molte delle lettere politiche che Calvino scrive alla De Giorgi sono concentrate in quel mese e in esse probabilmente, oltre ad aver espresso l’ansia per i fatti in Ungheria, le avrà parlato anche dell’imminente uscita delle Fiabe Italiane che sarebbero state pubblicate il 12 novembre. Ci sono lettere politiche scritte anche nei primi giorni di dicembre in cui Calvino iniziò a scrivere il Barone rampante, ma certamente i fatti storici di quegli anni risultano importanti oltre al fatto di diventare pertinenti al discorso calviniano in modo imprescindibile.
Questo fu un periodo determinante per Calvino: ci fu la vicenda dei quarantacinque licenziamenti su cento alla Einaudi che l’aveva sconvolto; la rivoluzione ungherese, l’uscita delle Fiabe, l’inizio dell’adorato Barone e l’incontro con Lukàcs, il grande filosofo e critico letterario ungherese. Questo groviglio di fatti importanti perché politici, perché storici e anche personali, ci fa capire come Calvino, proprio nel 1956 apra, davvero, una finestra sul mondo.
L’unica notizia che troviamo dell’ottobre 1956 nella raccolta Mondadori delle lettere di Calvino è un telegramma del 28 ottobre, conservato nell’Archivio della Cgil di Roma, in cui lo scrittore si riferisce ai fatti di Ungheria, rivolto a Giuseppe Di Vittorio del 28 ottobre. In esso Calvino trasmette il suo appoggio: “Commosso condivido tua posizione. Indispensabile per salvare nostro partito e causa socialismo” <102. Di Vittorio era il segretario generale della Cgil e fu l’unico esponente comunista d’indiscussa autorità morale e politica a pronunciarsi contro l’intervento dell’esercito sovietico in Ungheria per reprimere la rivolta, intervento sollecitato invece da Palmiro Togliatti. Fu quindi Togliatti, il segretario generale del PCI, che dettò la linea ufficiale al partito e sollecitò l’intervento armato sovietico contro la rivoluzione ungherese; secondo lui, per non perdere di vista la globalità del processo storico di affermazione del comunismo, si doveva essere a favore di un intervento, ma -a causa dei suoi metodi antidemocratici- questo determinò una frattura nel partito che negli anni successivi causò un’affluenza sempre minore di iscritti.
La CGIL prese posizione: «La Segreteria della CGIL esprime il suo profondo cordoglio per i conflitti che hanno insanguinato l’Ungheria…, ravvisa in questi luttuosi avvenimenti la condanna storica e definitiva dei metodi antidemocratici e di Governo e di direzione politica ed economica… deplora che sia stato richiesto e si sia verificato in Ungheria l’intervento di truppe straniere…» (‘L’Unità’ del 28 ottobre 1956). Anche molti intellettuali si scagliarono contro l’intervento sovietico: nel “Manifesto dei 101”, che venne firmato tra gli altri da universitari comunisti come Alberto Caracciolo, Alberto Asor Rosa, Mario Tronti, Enzo Siciliano, da storici e da filosofi. Ma firmarono anche critici come Mario Socrate, Luciano Lucignani, Dario Puccini, artisti e studiosi d’arte e uomini di cinema, giuristi, architetti e scienziati. Per finire, molti intellettuali, che erano iscritti o simpatizzanti del PCI, si dimisero dal Partito: tra di essi ci furono figure come Antonio Giolitti, Natalino Sapegno, il nostro Italo Calvino ed Elio Vittorini, oltre a molti altri. Questi presero le distanze in maniera decisa dal Partito dopo l’appoggio dato all’invasione sovietica, in ciò unendosi alla critica nei confronti dell’invasione formulata pubblicamente da chi aveva già abbandonato da tempo il partito (Ignazio Silone). Tale presa di posizione favorita da Giuseppe Di Vittorio al quale Calvino scrisse il telegramma in cui gli dava il suo appoggio, nonché dalla corrente autonomista del Partito Socialista Italiano e in particolare da Pietro Nenni, che condannò senza riserve la repressione.
Sulle vicende della fine del 1956, dunque, non ci rimane altro che quel telegramma scritto da Calvino e nessuna altra lettera scritta in quei giorni a persone coinvolte e vicine, come Vittorini o Socrate con cui Calvino pure manteneva una frequente corrispondenza. Ci sono però le lettere che lo scrittore mandò alla De Giorgi in quei giorni e anzi, quando potranno essere lette integralmente, senza dubbio risulterà che Calvino forniva notizie molto dettagliate al riguardo: il 31 ottobre ansioso annuncia: “le notizie si accavallano di momento in momento” e pochi giorni dopo, giovedì alle 11, scrive concitato nella 7,4:
“Mia cara, siamo tornati ai bombardamenti delle città. Sono amareggiato e sconvolto. La rete dei pensieri più volte ritessuta e cercata di assestare stabilmente negli anni della sempre crescente minaccia atomica e guerra fredda, e poi in questi ultimi tempi in cui pareva riaprirsi una prospettiva di pace e di progresso straordinaria, ancora va ritessuta per poter guardare in. mezzo al fuoco. Mi sento come sballottato e pestato. Notizie ancora più terribili arrivano dall’Ungheria dove tutte le mie speranze che il moto insurrezionale potesse avere alla testa la parte dei comunisti non compromessa coi crimini passati e salvare il socialismo sono ormai cadute e la controrivoluzione trionfa e i comunisti vengono massacrati in massa. Le posizioni che gruppi di compagni e io con loro avevamo preso in questi giorni, di critica alla direzione del nostro partito per la sua interpretazione dei fatti ungheresi, ricevono una smentita dai fatti, anche se profondamente giustificate nel fondo. Ora siamo fatti oggetto di gravi accuse da parte del partito, e ieri sera di fronte a una grande assemblea tumultuante ho riconosciuto la parte d’errori nella mia posizione, ho riconfermato la giustezza dell’esigenza che li aveva mossi. Sono arrivato ad assumere un po’ il ruolo di leader di questa piccola rivolta qui a Torino e devo battermi fino all’ultimo per non risolverla in disfatta, e a fianco degli amici e compagni che ho spinto a prendere posizione e non posso abbandonare (…).” [7,4: 1 novembre 1956]
Di seguito e a complemento di questa lettera si può inserire quella più tarda, di gennaio 1957, che Calvino scrisse alla ‘Nuova Stampa’ e alla ‘Gazzetta del popolo’ mitigando le sue posizioni:
“(…) i giornali hanno più volte fatto il mio nome, mettendolo in relazione a quello di comunisti recentemente usciti dal partito. Desidero chiarire che io condiviso sostanzialmente le opinioni di questi e altri compagni sul moto popolare ungherese, sull’urgenza d’un sincero e radicale rinnovamento democratico del campo comunista mondiale e italiano, sulla necessità di procedere verso un’unica organizzazione politica dei lavoratori socialisti italiani; ma che ciò nonostante io intendo rimanere nel partito, a fianco dei molti comunisti che in Italia e in tutto il mondo hanno in cuore questi giudizi e questi ideali e si battono per essi. Ritengo che, finché possibile, si debbano sostenere le proprie idee nel campo comunista…(…)”. <103
Negli stessi giorni scrive anche alla segreteria del PCI a Roma, in cui invita a lasciar sbollire la cosa nonostante il suo intento fosse stato quello di riconfermare la sua adesione al Partito; sulla sua figura di scrittore quindi si sovrappone con notevole scalpore una personalità politica che Calvino non aveva mai pensato di poter avere.
“Militante, sempre più critico, del Partito comunista italiano, nell’ottobre del 1956 Calvino aveva ispirato un duro ordine del giorno che denunciava le mistificazioni compiute dall’’Unità’ a proposito della rivolta ungherese. La cellula einaudiana del PCI lo approvò, ciò che procuro ai militanti la qualifica, all’epoca gravissima di “controrivoluzionari” da parte del segretario del partito Palmiro Togliatti. L’8 dicembre (una settimana dopo l’uscita dell’articolo sull’Espresso) si sarebbe aperto l’VIII congresso del Partito, quello della “via italiana al socialismo”, dei primi cauti passi di destalinizzazione, ma anche della rottura del patto d’azione con i Partito socialista.” <104
Il giorno in cui Calvino non ritenne più possibile sostenere le sue idee comuniste non tardò però a venire perché il 1° agosto egli rassegna le proprie dimissioni con una sofferta lettera ai suoi compagni, al Comitato federale di Torino, lettera che venne poi pubblicata il 7 agosto su ‘L’Unità’. In vista di una possibile trasformazione del PCI, Calvino aveva come punto di riferimento Antonio Giolitti105che incarnava per lui l’ultima speranza di rinnovamento e, in seguito all’abbandono del Pci da parte di quest’ultimo, in una lettera del 22 luglio a Michele Rago, si dichiara molto pessimista:
“Sono più che mai pessimista. Per tutte queste ultime settimane abbiamo lottato per far desistere A.G. dal dare dimissioni, per far sì che la sua posizione a tutt’oggi fortissima si concretasse in un’azione a cui poter legare forze del Partito, e non solo intellettuali. (…) non ne ha potuto più ed ha scritto la lettera di dimissioni. È una grossa sciagura. Nessuno più nelle file del Partito ha la statura e le ossa per poter reggere una funzione di pressione rinnovatrice. La situazione è più buia che mai”. <106
Si può provare a leggere dunque il culmine drammatico di questa concatenazione di eventi attraverso dei testi calviniani di natura diversa tra loro come può esserlo il documento ufficiale di dimissioni –utile anche al fine di capire i rapporti tra intellettuali e potere- e una lettera privata come quella rivolta alla De Giorgi. Di poco precedente a questi giorni, si inserisce la lettera che Calvino scrive all’amata Elsa comunicandogli le sue decisioni. Si riferisce al VIII congresso del Partito che si aprì l’8 dicembre:
“(…) Ieri sono stato solennemente silurato alle elezioni del congresso. La cosa non ha fatto altro che rallegrarmi perché coincide con la mia decisione di abbandonare l’attività politica sul piano spicciolo, delle piccole battaglie interne. (…)Io vivo giornate tese in cui le cose da fare mi si accumulano a valanga, e non riesco a fare che pochissimo, con Carlo Levi che mi ha preso ieri tutto un lunghissimo pomeriggio e oggi di nuovo e domani forse anche, col lentissimo ritmo delle sue correzioni, mentre la casa editrice è nel suo periodo di punta stagionale, sono carico di testi pubblicitari da fare e in più c’è la politica in un momento culminante e non si farebbe che star tutto il giorno a discutere e combattere le posizioni dell’uno e dell’altro. In mezzo a tutto questo t’amo d’un amore furioso, la notte non dormo, eccitatissimo e girando a vuoto come una girandola. Gioia bella t’abbraccio e corro da Carlo che mi incalza di telefonate, a cercare di concentrarmi sulle sue virgole e congiunzioni (…)” [lettera 7,7 del 10/12/1956]
Oltre alle lettere politiche, ma non distanti da esse c’è l’incontro filosofico con Lukàcs che fu ospite per due o tre giorni a Torino e del quale Calvino racconterà alla De Giorgi, un mercoledì alle 14.30 del 1956 (vedi nota 53):
“Il grande filosofo e critico letterario ungherese, il maggior pensatore marxista vivente e la più grosse teste che ci siano al mondo (…) Un uomo che esercita su di me insieme avversione e attrazione, di cui percorro pagine e pagine avversando il suo – pur duttilissimo e acutissimo- sistematicismo e ogni tanto ci trovo uno squarcio d’una tale ampiezza d’illuminazione da lasciare storditi. L’intelligenza (che tu dici che ho, ma non è vero; ho solo la capacità di sentire quella degli altri) esercita su di me una strana attrattiva; non mi prende mai nella sua rete; e per goderne e non lasciarmene prendere sto a guardarla come si guarda un gioco d’acrobati, esatto e emozionante”. [lettera 7,2]
e poi ancora mentre accompagnava il filosofo in giro per le strade di Torino:
“Ti scrivo in una pausa di una giornata intensamente «filosofica», in discussione d’estetica con Lukács la mattinata, poi a pranzo con lui in collina (nel ristorante in cui un anno fa ho portato la più affascinante delle donne, quest’anno sono andato con la più formidabile testa di filosofo) e tra poco lo dovrò accompagnare in giro per Torino. È un vecchietto dalla formidabile chiarezza, venata dalla malinconia e malizia degli ebrei. Mi diverto a cercare di buttare sassolini puntuti nella sua macchina e vederglieli restituire perfettamente levigati e sferici. (…) L’averti incontrata è stato un’esplosiva conquista di tante cose per me, dentro di me, un tale salto e volo nella mia vita, che mi sembra di non riuscire a toccare terra, a riportare queste mie forze in una vita integrata. E tu dirai: «E che dovrei dire io allora?». E io sarei al solito confuso, ma non è vero: per te sono crollate cose intorno, tu sei rimasta te stessa, puoi decidere di te come ora dicendo che reciterai con sicurezza di quel che sei. A me, in una generale irritabilità per tutto, non resta che un nugolo di ragioni astratte, e la concretezza del tuo corpo nudo. (…)” <107
Il brano della lettera sembra diviso a metà: una parte viene riservata al racconto dell’incontro con Lukács e l’altra è riservata immancabilmente alla tematica amorosa dell’incontro con l’amata. Leggendo l’epistolario di Calvino si trovano lettere che parlano del filosofo già dal settembre del 1953 quando lo scrittore invita Severino Dal Sasso ad iniziare la lettura di Lukács dal seconda parte del suo Il marxismo e la critica letteraria. Dalle parole di Calvino si intuisce l’importanza che per lui ebbe questa lettura che rende l’incontro che avrà con il filosofo un evento straordinario.
“(…) A ogni modo ora non sono nella situazione ideale per fare questi discorsi perché sono alle prese con una lettura che mi scombussola tutto: il Lukács. Leggilo subito (l’avrai ricevuto): comincia dalla seconda parte, ti consiglio. Io da quegli altri due libri non me ne facevo un’idea: credevo fosse un abile trasformatore di problemi estetici in problemi di storia della cultura. Invece è il primo – forse- marxista che leggo che parlando di letteratura tocca proprio la carne e il sangue delle opere, e ti mette davanti ai problemi senza lasciarti fiato. Ma allora i generi letterari sono davvero una cosa importante? Ma allora… Sono qui che non capisco più niente.” <108
[A Severino Dal Sasso, 23 settembre 1953]
[NOTE]
102 I. Calvino, Lettere (1940-1985), a cura di L. Baranelli, Meridiani Mondadori, Milano 2000, p.468
103 I. Calvino, Lettere (1940-1985), a cura di L. Baranelli, Meridiani Mondadori, Milano 2000 p. 470
104 Stefano Bartezzaghi, Italo Calvino e il gioco sulla pelle propria in Scrittori giocatori, Einaudi 2010 p. 207
105 La De Giorgi racconta delle lunghissime telefonate dalla sua casa di Roma che Calvino faceva a Giolitti. Calvino poi le riferiva le sue preoccupazioni: “Nel mio partito è scoppiato uno sconvolgimento grave che va dal vertice alla base, uno stato di insoddisfazione e turbamento espresso talora con brutalità che può portare grandi risultati come grandi pericoli. Comunque è un grande momento da vivere” [HPT pag.149]
106 I. Calvino, Lettere (1940-1985), a cura di L. Baranelli, Meridiani Mondadori, Milano 2000, p. 500
107 I turbamenti del giovane Calvino di Pasquale Chessa in Panorama del 16/08/2004
108 I. Calvino, Lettere (1940-1985), a cura di L. Baranelli, Meridiani Mondadori, Milano 2000
Eugenia Petrillo, Italo Calvino ed Elsa De Giorgi: l’itinerario di un carteggio, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2014-2015