Tutti correvano a Torino

Torino. Fonte: Wikipedia

Ore 22.45 del 25 luglio 1943: le trasmissioni radio dell’Eiar interrompono la musica e una voce grave e roca richiama gli ascoltatori scandendo per due volte «attenzione-attenzione».
I torinesi ancora svegli sono molti, le finestre sono aperte per far scorrere l’aria in una notte calda d’estate, crocchi di cittadini cercano il fresco sotto gli ippocastani dei corsi. L’annuncio è fragoroso, di quelli destinati a cambiare la storia: «Sua Maestà il Re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di capo del Governo, primo ministro e segretario di Stato presentate da Sua Eccellenza Benito Mussolini e ha nominato Capo del Governo il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio». Cinque righe succinte per liquidare vent’anni, camuffando da dimissioni quello che in realtà è un “colpo di stato reale”.
La notizia non ha bisogno di essere ripetuta: vola da una bocca all’altra, i torinesi si affacciano dai balconi, scendono in strada, riempiono le piazze: dappertutto parole, commozione, sorrisi, abbracci tra sconosciuti, un vocìo che diventa entusiasmo popolare irrefrenabile. Compaiono le bandiere con lo scudo sabaudo, qualcuno comincia a inneggiare al Vittorio Emanuele III e ai Savoia, qualcuno altro a ricordare (impropriamente) il Badoglio di Vittorio Veneto. I più audaci prendono a martellate i simboli del regime, che si sgretolano sugli acciottolati.
Torino è diventata all’improvviso antifascista, dopo troppo tempo di fatalismo rassegnato? Oppure i fermenti che avevano animato gli scioperi del marzo contro l’emergenza bellica hanno fatto germogliare una nuova coscienza? Niente di tutto questo. Ciò che accade a Torino (e che si ripete analogo in tutta la Penisola) è l’illusione che la caduta del Duce significhi la fine della guerra e il ritorno alla pace dopo oltre tre anni di bombardamenti, di “pane nero”, di sirene d’allarme, di morti, di sconfitte. La gente scende per le strade e si abbraccia per respirare l’aria nuova di libertà e di normalità, convinta che la stagione della paura e della fame sia finita: si accendono i grammofoni, si balla nei cortili, tra Cavoretto e l’Eremo compare la luce di qualche falò. Torino è felice.
Cesare Pavese descrive l’atmosfera in modo esemplare in “Prima che il gallo canti”, osservandola dalla sua casa in collina: «Vennero le notizie. Fin dall’alba strepitarono le radio delle ville vicine, l’Egle ci chiamò dal cortile; la gente scendeva in città parlando forte. L’Elvira bussò alla mia camera e mi gridò attraverso la porta che la guerra era finita. Capivo adesso i clamori notturni. Il fratello dell’Egle era corso a Torino. Tutti correvano a Torino. Dalle ville sbucavano facce e discorsi. Gli occhi di tutti erano accesi, anche quelli preoccupati».
Il questore di Torino conferma il clima di entusiasmo nelle sue segnalazioni ufficiali: «Vi è stata un’ondata di entusiasmo seguita da dimostrazioni inneggianti alla maestà del Re e a casa Savoia». Giaime Pintor (che nel dicembre cadrà nella lotta resistenziale) rientra dalla Francia in Italia e coglie l’emozione che lega i borghi alpini della Valle di Susa al capoluogo industriale: «Dalla frontiera a Torino i segni crescono: qualche contadina appollaiata sulle scale cancella dai muri di casa sua le scritte mussoliniane; in molti luoghi cartelli con scritte “viva il Re”, “viva l’Italia”, “viva la pace”».
Illusione di un momento: nell’atmosfera eccitata del 25 luglio nessuno bada al proclama del maresciallo Badoglio, in cui si annuncia invece che «la guerra continua. L’Italia mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni». Nessuno può immaginare che la fine del fascismo non significhi anche fine della guerra fascista, nessuno è in grado di “esplorare” la strategia di autosopravvivenza politica del sovrano e del suo gruppo dirigente. Saranno le vicende delle settimane successive a togliere il velo alle ingenuità, con l’armistizio dell’8 settembre, la fuga di Pescara, l’occupazione germanica, la Rsi, la guerra civile. È ancora Pavese a rielaborare letterariamente i fatti: «Il 25 luglio cominciò quella ridda di incontri, di parole, di gesti, di incredibili speranze, che doveva cessare di lì a poco nel terrore e nel sangue». Ma almeno per qualche ora, tra il 25 e il 26 luglio, i Torinesi possono sorridere.
Laura Hess Seborga, A Torino. Quella felicità ingannevole: il fascismo era crollato ma la guerra continuava, Facebook, 25 luglio 2023