Il mio compito era di sapere quanti non si erano presentati dai tedeschi

Senigallia (provincia di Ancora): vedute varie – Fonte: Wikipedia

APPENDICE II
LA RESISTENZA NELL’ANCONETANO
1 – Intervista a Luigi Olivi, rappresentante militare del Comitato di Liberazione nel Senigalliese
D.: In quali circostanze e per quali motivazioni è entrato nel movimento resistenziale?
R.: Essendo nato a Senigallia nel 1920, sono stato chiamato per il servizio militare nel 1939. Al distretto hanno scoperto che avevo 3 fratelli militari e dovevo fare la forma ridotta, solo 3 mesi. Mi hanno rimandato a casa mentre sarei dovuto andare in Africa. Tutti i miei amici che erano andati in Africa non sono tornati. Mia madre che era molto religiosa e veniva dalla campagna, diceva che era il risultato delle sue preghiere. Dunque mi hanno rimandato a casa e sono tornato dai miei, ma all’inizio del 1940, in concomitanza con l’entrata in guerra dell’Italia, mi hanno richiamato e inviato nel 93° reggimento fanteria. Anche in questo caso è iniziato male, ma poi ho avuto fortuna perché ero musicista: suonavo e leggevo la musica, tanto è vero che credevano avessi frequentato il conservatorio, ma io avevo studiato da un maestro a Senigallia e a 11-12 anni suonavo nella banda. Il mio capitano era un maestro di musica richiamato: quindi mi ha sempre protetto e ho fatto il soldato da ‘signore’ per i primi tempi.
Per mezzo di questo capitano sono stato inserito in un reparto mobilitato come se fossi al fronte, quando è scoppiata la guerra. Era il 121° Comando di tappa con sede in Ancona ma si raggiungeva anche la Jugoslavia, attraversando il Mare Adriatico. Io andavo qualche volta anche di là. Quando portavano i soldati là, li imbarcavano in Ancona e li lasciavano a Zara o nelle isole vicine. Noi curavamo questi passaggi. Io facevo l’impiegato alle dipendenze di un colonnello. Il nostro comando non era in una caserma ma in una villa requisita: lì c’era il comando di tappa. Era nei pressi del Piano S. Lazzaro.
Finché arrivò la caduta del governo fascista, il 25 luglio 1943. Il ‘Gattopardo’ non era ancora stato scritto, ma la classe dirigente è sempre stata gattopardesca: “se vuoi che tutto rimanga come prima bisogna che tutto cambi”. Il 25 luglio Mussolini era ormai screditato… il re aveva nominato Badoglio … e Badoglio cercò solo di salvare la monarchia, mettendo il re sotto la protezione degli alleati e lasciando 50 divisioni di militari fuori dei confini del Paese alla pietà del vincitore e alla vendetta dell’ex alleato nazista, dopo l’armistizio dell’8 settembre.
Il mio colonnello mi aveva firmato una licenza illimitata da utilizzare solo in caso di estrema necessità, ma, prima di trasferirsi nella casa di un amico, a me che rimanevo solo aveva raccomandato: “Tu mettiti in contatto con un organismo superiore” cioè con un comando militare.
Telefonavo ogni ora al colonnello che, andando via, aveva assicurato che a me i tedeschi non avrebbero fatto niente perché ce l’avevano solo con gli ufficiali. Sono stato 20 giorni con la cuffia nelle orecchie giorno e notte, ma non ho trovato nessuno. Ero l’unico militare presente al 121° comando di tappa di Ancona: disponevo di tutti i numeri telefonici utili e cercavo di avere dei contatti con i comandi di divisione, di zona, ma nessuno ha mai risposto fino al 20 settembre 1943.
La mattina del 20 settembre è arrivata una camionetta tedesca con un soldato italiano incorporato nell’esercito tedesco.
Mi ha detto: “Siamo venuti per occupare il reparto. Dove sono gli ufficiali?” Ho risposto che non c’era nessuno e che ero rimasto da solo.
Il soldato altoatesino che parlava bene italiano – i tedeschi lo chiamavano “Sudtirolen” -, mi ha consigliato: “Se sei da solo squagliati perché tra poco veniamo ad occupare il reparto per prendere le armi”.
Io ho informato subito il colonnello chiedendogli disposizioni, rispose che dovevo andare via, facendomi gli auguri e dicendomi “Buon viaggio”. La licenza me l’aveva firmata prima di partire, in previsione degli eventi. Io mi sono infilato un giubbotto e sono andato a casa.
Mia madre aveva 4 figli militari, andava a lavare i piatti alla trattoria senigalliese “Buon Vivere” e mangiava gli avanzi e io non avevo né un soldo, né da mangiare, né da dormire. Una signora senigalliese mi aveva dato le chiavi della sua casa: mi conosceva perché mio fratello aveva sposato la sua donna di servizio e lei aveva paura che la sua abitazione fosse occupata; mi diede quindi le chiavi perché la controllassi.
Avevo letto per il corso di Senigallia un manifesto in cui si ordinava a tutti i militari sbandati di presentarsi immediatamente al comando tedesco per essere arruolati. Chi non avesse ubbidito sarebbe stato fucilato e i familiari che avessero ospitato questi soldati sbandati sarebbero stati arrestati e inviati in campo di concentramento. Questa era la situazione che riguardava in realtà anche me, anche se io tecnicamente per l’esercito italiano non sarei stato da considerare ‘sbandato’: ero in licenza illimitata senza assegni in attesa di disposizioni, in base al documento che mi aveva rilasciato il colonnello. Ma in quel momento le leggi le imponevano i tedeschi.
Io praticamente ero solo. Avevo lavorato a Roma, a Senigallia non conoscevo quasi nessuno: un amico mi disse di andare in Municipio dove mi avrebbero detto cosa fare. Io andai in Municipio e trovai il ragioniere capo Magnani, che non conoscevo. Era tutto contento che mi fossi rivolto a lui, ma io ero lì solo per avere delle informazioni.
D.: Ma l’attività municipale non era guidata dal podestà Aldo Allegrezza?
R.: Sì, c’era Allegrezza, e di lui non posso parlare che bene. Mi ricevette Magnani e, contento che fossi un giovane esperto militare, mi ha dato l’incarico di rappresentare il Comitato di Liberazione nei comuni dell’entroterra che stanno tra il Misa e il Cesano <1262. Cominciavo da Ripe, per proseguire a Corinaldo, Castelleone <1263, fino ad Ostra Vetere, dove c’era Lombardi, costruttore di macchine agricole, che era la persona con cui dovevo prendere contatto. Barbara, a monte di Ostra Vetere, dipendeva invece da Arcevia. Il Comitato di Liberazione mi ha dato i nomi. A Ripe c’era Antonietti, padre della professoressa Ada direttrice del Museo dell’Agricoltura, a Castelleone c’era un certo Guerrino, che ora è morto, ma ha un figlio che gestisce un’officina e sono andato a trovare recentemente. Sono morti quasi tutti. A Corinaldo c’era uno che fece anche il Sindaco. Avevo riunioni settimanali con questi. <1264
A Barbara organizzai eccezionalmente una riunione in una vigna e c’era un certo Lazzari, “Gino de Leó”, che era un dirigente di Arcevia, <1265 ma l’ho trovato in questo incontro. L’incontro avvenne di giorno e io portai le disposizioni del Comitato di Liberazione di Senigallia.
Io dovevo radunare quella gente che non si era presentata al servizio e farne un esercito nuovo. Non dovevano decidere però per conto loro ma prendere ordini dal Comitato di Liberazione, di cui io ero rappresentante militare, come attestano i documenti che mi hanno rilasciato molto tempo dopo <1266.
Io mi presentavo da uno, ma dopo si radunavano in 8-10. Il mio compito era di sapere quanti non si erano presentati dai tedeschi e che dovevano rispondere ai Comitati di Liberazione, perché fare la guerra per conto proprio era pericoloso. Il nuovo esercito è nato così.
[…] D.: Quando lei faceva queste operazioni, come si muoveva: di notte o di giorno? E’ stato mai fermato?
R.: Mi muovevo anche di giorno, però passavo per i campi con uno zaino sulle spalle. Quando veniva notte chiedevo di dormire dietro i pagliai, dicendo che dovevo raggiungere la famiglia che era sfollata. Avevo una coperta dentro lo zaino e se c’era il cane dormivo con lui e mangiavo qualcosa che trovavo nel campo. Ho sofferto principalmente la fame. Ero armato con due pistole, ma fortunatamente non ho dovuto mai usarle perché non mi hanno mai bloccato.
D.: Ma entrando in paese non dava nell’occhio?
R.: No perché entravo come sfollato che andava a trovare la famiglia.
D.: Lei quante volte è andato a Ostra Vetere per esempio?
R.: Una decina di volte.
D.: Nella media e alta valle del Misa sono avvenuti fatti di sangue che hanno interessato partigiani, fascisti e tedeschi. Lei non fu mai coinvolto?
R.: No, anche se mi sono recato varie volte oltre Barbara, a Piticchio di Arcevia. Il mio compito era formare l’esercito agli ordini del Comitato. Poi non tutti obbedivano alle nostre disposizioni. Ad esempio, quando andavo a Castelleone ci radunavamo – ma lo facevano anche per conto loro – in un luogo che chiamavano “La selva del maggio”, una specie di boschetto in cui andavano tutti. A Castelleone la popolazione meno abbiente non disponeva di acqua e bagno in casa, così la mattina portavano il secchio con gli escrementi alla Selva del Maggio. Andavamo a riunirci lì. Ma quelli di Castelleone facevano più di tutti a modo loro.
Avrebbero dovuto organizzarsi quasi militarmente, trovando dei rappresentanti, senza prendere iniziative personali. A volte invece mi riferivano che alcuni facevano azioni per conto loro perché il loro non era un vero esercito ma un semplice gruppo di volontari. Io avrei dovuto essere il loro comandante ma non sempre mi ubbidivano.
D.: Quando ci fu il passaggio del fronte come lo ha vissuto?
R.: In quei giorni mi trovavo tra Ripe e Corinaldo. Infatti non avevo un punto fisso di riferimento, a Senigallia arrivavo e ripartivo, non dormendo mai in un letto ma nei pagliai, nelle logge dei contadini sulla paglia. Era il primo pomeriggio del 4 agosto e venivo a Senigallia per fare la relazione settimanale al Comitato di liberazione, quando, verso le 15, ho visto dei polacchi passare il fiume Misa nella zona della Villa Marazzana, presso la frazione senigalliese di Brugnetto. Era un gruppo a piedi. Io ricordavo che i tedeschi avevano minato il terreno e cercavo di metterli in guardia, urlando per fermarli, ma non mi capivano. Uno è saltato per aria, l’ho visto disintegrato e poi ho notato la cinta dei suoi pantaloni dondolare sul “filo della luce”. Arrivato a Senigallia il Comitato di Liberazione era riunito sotto il portico del municipio: c’era Gramaccioni, il padre del futuro avvocato comunale, Magnani, Romeo Gervasi, Carlo Mengucci, e un altro comunista che non ricordo: quelli di sopra erano fuggiti tutti. La mattina del 5 sono andato con loro, li ho portati di sopra e li ho presentati perché ero il capo militare. Era segretario l’avvocato Alfredo Manfredi <1270 e, su delega dei partiti, questi si sono trasformati in giunta comunale.
Io portavo sempre una o due pistole con poche cartucce, tenute nascoste una nello zaino e un’altra nella tasca della giacca. Ma non le ho mai usate. Ho avuto due fortune: nessuno mi ha ucciso e io non ho mai ucciso nessuno pur avendo portato le armi per 6 anni. Il primo sindaco di Senigallia era l’ing. Bartolini del Partito d’Azione, che era un uomo buono.
D.: Dunque la sera del 4 lei incontrò i componenti del Comitato di Liberazione che le avevano dato l’incarico di responsabile militare. Le truppe alleate o regie dove erano? Non erano in città?
R.: Io non li ho visti, ma non li cercavo. La sera ci siamo dati appuntamento per la mattina dopo. La mattina dopo i rappresentanti del Comitato di Liberazione cittadino, insieme a me, hanno ufficialmente preso possesso del Comune, io come rappresentante militare loro come rappresentanti dei partiti, trasformandosi in giunta comunale. La delega i partiti l’avevano data prima: Bartolini era infatti stato nominato sindaco due o tre settimane prima nella frazione del Vallone, durante una riunione clandestina nella casa del contadino Marsili. C’ero anch’io come rappresentante militare per difendere gli esponenti politici, ma non sono entrato: l’edificio si trovava lungo la via, prima del fiume; lì hanno indicato Bartolini come primo sindaco. Il 5 si è insediata la giunta in municipio, il 6 è stata convocata la prima riunione e nominato ufficialmente l’ing. Bartolini sindaco. Era buono e molte cose non le poteva fare: si dileguò dopo un acceso diverbio con un’influente signora, che, abituata ad ottenere tutto ciò che chiedeva, reagì a borsettate ad un suo diniego.
Allora il governatore militare statunitense – che non mi ha mai ricevuto – approfittando dell’assenza di Bartolini, lo ha fatto sostituire con Romeo Gervasi, perché era vicino alla Democrazia Cristiana. Poi Bartolini ha dato le dimissioni, evitando di contestare la legittimità della sostituzione, lasciando l’incarico di sindaco al danaroso rappresentante dei rivenditori di benzina, esterno al Comitato di Liberazione, che favorì l’apertura di nuovi distributori di carburante a Senigallia. Ma anche lui abbandonò la poltrona senza dare le dimissioni e fu sostituito da Gaiolini, che precedette Zavatti, il quarto sindaco di Senigallia <1271.
[NOTE]
1262 Come dichiarato da Raffaele Maderloni e indirettamente confermato dallo stesso Olivi, in una parte dell’intervista qui omessa, un gruppo marxista clandestino si era costituito sul finire degli anni Trenta a Senigallia per iniziativa del cameriere Alberto Zavatti, con il quale era entrato in contatto il trentunenne Maderloni, futuro segretario provinciale comunista, tramite la frequentazione del barbiere Ottavio Palestrini, allorché nello stesso periodo lavorò come barista nella città balneare per due stagioni estive nel 1938-‘39. Oltre allo Zavatti – nominato responsabile cittadino nel 1942 dal nuovo segretario organizzativo zonale del PCI Maderloni – e al Palestrini, facevano parte della stessa ‘cellula’ Silvio Pasquini, Michele Manicci e Olivi (Maderloni 1995, pp. 86-92). Gilberto Volpini (2009, p. 17), citando Monti Guarnieri (1961, p. 427), sostiene che un primo comitato antifascista, costituitosi all’indomani del 25 luglio 1943 e di breve durata, era formato da Fratti Calamosca, Palamede Giunchedi, Enrico Gramaccioni, Oberdan Magnani e Alberto Zavatti. Allorché Senigallia venne liberata, il 4 agosto 1944, i componenti del Comitato di Liberazione Nazionale per il Comune di Senigallia, delegati dai rispettivi partiti “per l’amministrazione del Comune stesso” erano: 2 esponenti del partito d’azione, ing. Manlio Angeloni e Oberdan Magnani, 2 democristiani, dott. Romeo Gervasi e Palamede Giunchedi, 2 socialisti, Enrico Gramaccioni e dott. Renato Rozzi, 2 comunisti, Carlo Mencucci e Dino Pasquini. V. Deliberazione del CLN del Comune di Senigallia del 6/8/1944, con la quale si provvedeva alla nomina del sindaco nella persona di Bartolomeo Bartolini “da confermarsi con atto del Governatore militare alleato”.
1263 Castelleone di Suasa, comune ubicato su una dorsale collinare fra le medie valli del Cesano e del Nevola, affluente di sinistra del Misa.
1264 L’imprenditore Vito Lombardi guidava i partigiani di Ostra Vetere, v. qui App. I, n. 3. Il referente di Luigi Olivi a Castelleone di Suasa era Guerrino Gabrielli. Tuttavia, dal febbraio 1944, le iniziative militarizzate dei partigiani della zona venivano dirette da Antonio Marcelli, all’inizio verosimilmente in modo improvvisato o spontaneistico e dal marzo, con l’ufficiale costituzione di un GAP, che dipendeva direttamente dalla V Brigata ‘Garibaldi’ di Ancona, di cui il Marcelli era responsabile militare di zona, sottoposto dall’aprile al ferreo controllo del nuovo comandante militare comunista della Divisione Marche, Alessandro Vaia (Alberti), tramite il comandante politico Renato Bramucci (Uliano). Cf. Galeazzi 1980, pp. 54-55, 220-229, dove si descrive la nuova organizzazione militarizzata della Resistenza nel Senigalliese, dall’aprile 1944, e tutte le operazioni attuate nel territorio comunale di Castelleone di Suasa. Il Gabrielli (ibid., pp. 221, 222, 224), almeno dal marzo, risultava essere un semplice gappista alle dipendenze del Marcelli: era evidente che, almeno nei mesi aprile – agosto e per queste zone periferiche, la situazione non poteva più dipendere dalle direttive del CLN di Senigallia. A Corinaldo le formazioni di partigiani liberal-democratiche erano guidate dal tenente Arnaldo Ciani, un proprietario terriero nato nel 1919, di professione avvocato e docente universitario di diritto tributario dopo essere stato membro del CLN provinciale in rappresentanza del Partito Liberale, sindaco corinaldese dal 18 agosto 1944 e Difensore civico della Regione Marche. E’ scomparso a Corinaldo nel 1999, v. Severini 2010-III, p. 307, nota 393.
1265 Lazzari Gino, nome di battaglia “Gino de Leó”, fu il comandante della “San Ginesio”, una delle due squadre – insieme alla “Caccia dei Monti”, guidata dal Serg. Magg. Biancini Domenico (‘Siro’) – nelle quali si suddivideva il gruppo ‘Polli’, fondato il 24 settembre 1943 nell’Arceviese da Attilio Avenanti, con 18 uomini armati di moschetti, armi da caccia e bombe a mano. Dal primo febbraio, per una persistente malattia dell’Avenanti, Biancini venne nominato – da Mario Zingaretti, presidente del CLN zonale -, comandante interinale del ‘Polli’, il quale dal 14 marzo passò definitivamente alle sue dipendenze assumendo il nome di “Gruppo Sant’Angelo”, di cui il Lazzari fu vicecomandante. Nel frattempo il gruppo si era rinfoltito con l’aggregazione di una squadra di Palazzo d’Arcevia, composta da 15 uomini, ed un’altra della limitrofa frazione di Montefortino con 10 volontari, alle quali furono affidati i pattugliamenti notturni nei dintorni di Monte Sant’Angelo, dove si era acquartierato il gruppo, ormai forte di una trentina di un’unità (Galeazzi 1980, pp. 165-167). Dopo l’eccidio di Monte Sant’Angelo del 4-5 maggio 1944, il 25 maggio si decise di abbandonare la precedente sede montana, creando tre distaccamenti di una decina di uomini ciascuno denominati ancora ‘Sant’Angelo’, ‘Maggini’ e ‘Patrignani’, in memoria di due patrioti eroicamente caduti, rispettivamente affidati al Biancini, all’osimano Luna Quinto e al Lazzari.
1266 V. Foglio aggiunto al modello 106 (59) del militare Olivi Luigi, matricola n. 9695 del Distretto di Ancona, nelle cui note matricolari si dichiara che “Li 8 settembre 1943. Sbandatosi in seguito agli eventi sopravvenuti all’armistizio. Ha fatto parte dal 19/9/1943 al 4/8/1944 della formazione partigiana VI Divisione Ancona nelle Marche, assumendo la qualifica gerarchica partigiana di Vice Commissario di Brigata (Tenente)”, v. esemplare nell’archivio privato di Luigi Olivi, in Senigallia. Cf. la successiva autorizzazione rilasciata dal locale comando polacco, tre giorni dopo la liberazione di Senigallia, in data “7 sierpnia 1944”, con la quale si permette al “Mil(itare) Olivi Luigi” di risiedere in città e circolare armato (ibid.).
1270 “… l’avvocato Alfredo Manfredi – un ex magistrato di saldi ideali liberal-democratici che si era distinto, sotto il regime e fino alla ricostruzione postbellica, come Segretario Capo del Comune miseno – e trovò pieno appoggio nella Giunta Zavatti (Severini 2009-II, p. 84)”.
1271 Il Bartolini avrebbe avuto un sostituto ‘pro tempore’ nel democristiano Romeo Gervasi, a sua volta surrogato dal comunista Guerrino Gaiolini, che abbandonò la carica per un trasferimento a Roma nella primavera del 1945. Alberto Zavatti fu nominato sindaco con decreto prefettizio il 21 maggio 1945, cf. Benedetti 2007, passim. Testimone di tali eventi dall’interno del palazzo municipale fu anche Elio Casagrande, un fervente cattolico figlio di Umberto, operaio addetto alla porta marina del Cementificio, presso l’attuale Hotel La Vela, grande invalido di guerra e cofondatore del partito comunista senigalliese. Il futuro pluridecennale segretario del sindaco di Senigallia, diciottenne diplomato all’istituto tecnico-commerciale e sfollato a Scapezzano, ricevette nel ‘44 un incarico bisettimanale dal podestà Allegrezza per la distribuzione delle tessere alimentari nell’Ufficio Annonario – insediato nella villa della contessa Giannini, presso l’odierno cavalcavia autostradale – tramite l’intermediazione dell’insegnante di latino nel corso di avviamento, parente del podestà: qui rammenta la concitazione e l’ansia che trapelava nei discorsi delle mogli dei repubblichini per l’imminente prevedibile fine della Repubblica di Salò, dovuta alla progressiva avanzata del fronte alleato nella penisola. Poco dopo la liberazione di Senigallia, il 16 settembre il nuovo sindaco pro tempore Romeo Gervasi propose al giovane diplomato, provvisto di un’esperienza impiegatizia, di lavorare per il comune come anagrafista, mansione che svolse dal 18 settembre. Il Casagrande ricorda lo stupore con il quale, nei giorni immediatamente successivi, per la prima volta vide il governatore militare alleato seduto nel gabinetto del primo cittadino con le gambe incrociate sopra il tavolo, mentre il sindaco Bartolini – in posizione subordinata – occupava il futuro ufficio del segretario generale, presso la sala grande: dopo circa un semestre ci sarebbero state le prime elezioni comunali del periodo post-fascista (Casagrande 2013).
Ettore Baldetti, Marchigiani nel Risorgimento, Argalia, 2013

Alcune cose di questa cronistoria, contrariamente alla consuetudine, sono riprese dalla letteratura di parte opposta e quindi la prospettiva che si offre in questo articolo é, per così dire, a 360° e quindi il rinscontro con la realtà é altamente probabile. Alcune tracce sono di Massimo Morroni autore di “Osimo Libera”, ed. ANPI Osimo 2004. Spesso a sproposito si parla della “battaglia di Ancona”. Leggendo questa cronaca ci si rende conto benissimo in realtà che fu una “Battaglia per Ancona” in quanto la parte preponderante dello scontro avvenne lungo la linea del fiume Musone che corre tra l’Acqwuaviva (Loreto/Castelfidardo) e le Casenuove/Filottrano. Un episodio non inquadrabile temporalmente ma determinante per lo sconfinamento in terra osimana da parte polacca fu quello della cattura di un ufficiale della Wermacht che, catturato in zona ponte di San Domenico (Padiglione) dal distaccamento “Franco Stacchiotti” rese testimonianza scritta del posizionamento dell’artiglieria leggera posta a difesa di Osimo nella zona sotto la SS. 361. I partigiani con quella importantissima informazione si recarono presso il comando polacco di Recanati che li respinse perché al collo avevano il fazzoletto rosso. Increduli da quel respingimento ma fermi nella certezza della bontà di ciò che avevano in tasca, i partigiani si recarono all’altro comando polacco che stazionava a Villa Spada il quale prese sul serio quelle informazioni fornendole alle artiglierie che se ne servirono per centrare i tedeschi e scendere da Recanati verso Osimo. Singolare é il fatto che l’ufficiale tedesco, una volta catturato e portato al comando del distaccamento, la prima cosa che disse vedendo quei partigiani con il fazzoletto rosso disse loro “Comunisti ?”. I partigiani risposero positivamente e, a quella risposta, lo stesso ufficiale si strappò dalla divisa dosso ogni fregio tedesco e disse ai presenti “datemi carta e penna”; e disegnò la difesa tedesca. Quell’ufficiale non era di origine tedesca ma di nazionalità austriaca dal 1938 annessa al III Reich. Questo suo gesto fu forse di rivalsa verso chi aveva occupato il proprio paese e lo aveva trascinato in una guerra non sua o forse per convinzione politica ma fu certamente determinante. L’austriaco fu poi tradotto presso la sede vescovile di Santo Stefano adattata a carcere “sui generis” per i prigionieri e comandata dal raggruppamento GAP ” Vilfredo comandato da Vilfredo Giannini. Nelle frequenti escursioni di pattuglie lungo la zona tra Ancona e Osimo, una di queste attaccò proprio il luogo di reclusione e lì l’ufficiale austriaco venne ucciso.
Armando Duranti (da testimonianze registrate) […] 3 Luglio 1944. Lunedì. La giornata inizia con un intenso fuoco di artiglieria polacca. Davanti all’ala destra si è attestata la 3 Divisione rafforzata dal grosso della 2 Brigata corazzata e dai lancieri di Karpazia, sulla sinistra la 5 Divisione di fanteria Kresy. I fucilieri tedeschi (278 battaglione) del maggiore Godorr, dopo un aspro combattimento, perdono la posizione di Centofinestre.
Così relaziona ora il generale Hoppe: “I granatieri del 994 con il battaglione fucilieri, che era stato aggregato, appoggiati in maniera eccellente dal 2 e 4 gruppo del 278 artiglieria, combattevano sotto l’accorto comando del maggiore della riserva Rudolf Godorr contendendo al nemico ogni metro di terreno: Centofinestre veniva perduta, ma il fronte si era però rafforzato. La situazione era peggiore sull’ala sinistra. Il nemico, appoggiato da un intenso fuoco di artiglieria, in due ondate di mezzi corazzati seguiti da fanteria motorizzata, aveva attaccato di buon mattino conseguendo una profonda penetrazione. Dopo aver conquistato Crocette, verso mezzogiorno, effettuava una conversione in direzione ovest ed alle ore 16 occupava Castelfidardo. Alla sera anche le deboli forze del 2 battaglione del 993 Granatieri, dislocato sulla strada costiera, venivano sopraffatte ed il nemico penetrava a Numana. Avevamo accertato la presenza della terza divisione polacca davanti all’ala destra del nostro schieramento e della quinta su quella sinistra”. (Hoppe p.26)
“Il giorno 3 – dal racconto di Dittman – ha inizio con un vivace duello delle armi pesanti. La nostra casa Catena, situata nell’immediate vicinanze del comando della sesta compagnia/993 viene ridotta ad un cumulo di macerie. Tutta la mattinata trascorre così mentre altri carri armati scendendo da Loreto, avanzano sul campo di battaglia. Soltanto a mezzogiorno ha inizio un violento attacco di mezzi corazzati che riescono nuovamente ad effettuare una penetrazione nel settore tenuto dalla quinta compagnia, questa volta proprio vicino al nostro settore. Il caporal maggiore Winkler della 14 compagnia distrugge uno Sherman con un razzo controcarro, ma pochi minuti dopo cade, colpito alla testa. Destino di un soldato! I resti della quinta compagnia ed anche gli elementi della difesa costiera, non avvezzi al combattimento, vengono presto completamente annientati. La penetrazione si fa più ampia investendo anche il nostro settore. Ma soltanto la squadra Velroyen viene sloggiata dalle sue posizioni mentre la squadra Marks, ad essa collegata, resiste tenacemente. Con un contrattacco riconquistiamo nuovamente la posizione in cui inserisco una squadra di riserva perché possa difenderci sul fianco. Nonostante le sensibili perdite, tra gli altri cade qui anche il caporale Daehnicke, riusciamo a mantenere le nostre posizioni. Invece nel settore vicino alla nostra destra, sembra che le cose si mettano male. Qui sulla linea del fronte si è aperto un varco di circa un chilometro in larghezza e profondità. Qui cade il sottotenente Gast, osservatore avanzato della 13 compagnia cannoni nel settore della quinta compagnia. Un aereo leggero da ricognizione (che I tedeschi hanno soprannominato “lahme Ente” cioè anatra zoppa N.d.T.) volteggia senza posa sulle nostre teste dirigendo il fuoco dell’artiglieria su ogni nostro movimento. Le nostre armi pesanti vengono mantenute costantemente in una situazione critica dai caccia bombardieri. A questo punto ci giunge dal comando di battaglione l’ordine di abbandonare la prima linea e, con la compagnia, attraverso la valle dell’Aspio, di raggiungere la via Adriatica (strada statale 16) ed il Monte S.Pellegrino (quota 85) a circa un chilometro dietro la linea attuale per bloccare lì la penetrazione dei carri armati. A mio giudizio quest’ordine è giunto troppo tardi perché la penetrazione dovrebbe essere più profonda di quanto sembra sia stato supposto dal comando di battaglione. Ciò nonostante bisogna correre il rischio di fare il tentativo. Superando molte difficoltà, riusciamo a sganciare la compagnia dal combattimento ed a riunirla nella valle dell’Aspio. Siamo costretti a ritirarci guadando l’Aspio con l’acqua sino al ginocchio il che, col caldo rovente viene accolto quasi come un ristoro. Inoltre l’angusta valle offre un buon riparo contro le cannonate e l’osservazione aerea. Avvicinandoci al punto assegnato, riconosciamo subito che qui non c’è più niente da bloccare. I polacchi sono già avanzati di molto ed I loro carri armati, da quota 85 sparano in direzione nord est dominando il terreno in profondità. Presto siamo coinvolti in un combattimento a fuoco con un autoblindo piazzato davanti a noi sulla via adriatica. Per evitare di essere travolti sul fianco destro e per difenderci in quella direzione, inserisco il plotone Reiter sulla strada che porta verso Numana. Alle 18,30, la staffetta del battaglione, caporal maggiore Pristaff, mi consegna l’ordine di ritirarmi immediatamente. Ciò sarebbe già dovuto avvenire sin dalle ore 17, ma sino a quel momento la staffetta era stata alla nostra ricerca. Siamo dunque proprio in un bell’impiccio; attraverso I campi di mais con una vegetazione alta più di un uomo tentiamo di sganciarci possibilmente inosservati e di raggiungere quota 44 (Casa Stroppato) situata circa due chilometri ad oriente, dove l’ultima volta aveva la sede il comando del battaglione. Giunti ai piedi dell’altura,troviamo una brutta sorpresa: carri armati nemici sono penetrati sino qui e ci sparano addosso da due lati con I cannoni di bordo e con raffiche di mitragliatrice, tanto da rimanere storditi. Tuttavia mi riesce, con elementi del secondo e del terzo plotone, di superare la quota, procedendo con lunghi balzi, scomparendo al di la’, nei campi coltivati a mais. Solo lì possiamo finalmente riprendere fiato. Il maresciallo Bursky, invece, col primo plotone gira intorno alla quota dirigendosi verso sud tentando così di raggiungere Numana. Come si è saputo in seguito, in quella direzione non è riuscito a sfuggire all’accerchiamento e così gran parte del plotone è caduta prigioniera. Frattanto noi, ancora ansanti, stazioniamo in un vastissimo campo di mais e, per la prima volta, ce ne stiamo nascosti. Poiché si comprende che in pieno giorno potrebbe essere quasi impossibile passare, decidiamo di attendere la notte. Ho stabilito il percorso secondo il terreno e le carte. Durante la notte, attraverso I campi, evitando strade e centri abitati, tenteremo di sfondare in direzione del monte Conero (572 metri) e il diavolo ci dovrebbe proprio mettere la coda se non riuscissimo a farcela.I polacchi non possono aver occupato tutto il territorio in maniera così totale! Se da un lato ci sentivamo relativamente al sicuro, questa attesa dietro il fronte nemico sta scuotendo il sistema nervoso per cui proviamo una certa contentezza quando, dopo oltre due ore , finalmente possiamo andarcene. Per quanto avevamo progettato, la notte è fin troppo illuminata dalla luna. Con la maggiore velocità possibile e silenziosi ci spingiamo in avanti. Dai centri abitati giunge ai nostri orecchi il baccano prodotto dai polacchi e dagli italiani, e questo può essere solo di vantaggio per noi. A mezzanotte scorgiamo su un’altura alcune sagome umane e con il sergente Marks mi avvicino con prudenza: chi può descrivere la nostra felicità scoprendo che si trattava di elementi di copertura della nostra settima compagnia! Così ce l’avevamo fatta. Quando, verso le 1,30, mi presento a rapporto dal capitano Hamkens provoco grande gioia perché ci credevano già prigionieri. Le perdite del battaglione negli ultimi due giorni sono considerevoli: la quinta compagnia è stata annientata e ridotta a due squadre che vengono assegnate alla sesta compagnia, la mia, che ha subito la perdita di 43 uomini fra caduti, feriti e dispersi (la squadra d’assalto Bursky con I sergenti Schneider, Seeger,Koenig, Geissler,Velroyen e la squadra mitragliatrici pesanti Leupold). Anche l’8.a compagnia ha perduto tutti I plotoni e le squadre che la componevano combattendo nel settore della quinta compagnia. Se l’è cavata meglio la settima dato che il settore costiero è stato quello più tranquillo. Per gli ufficiali, oltre alle perdite già menzionate (sottotenenti Landmann, Scholl e Kuhnt) anche il sottotenente Wolf viene dato per disperso. Ma il giorno dopo (5 Luglio) riuscirà a passare le linee ed a raggiungere il battaglione. La nuova linea tenuta dal battaglione, corre ora attraverso il Monte Freddo (quota 119) verso Numana. Proprio là staziona un gruppo di combattimento del reggimento composta da un plotone ciclisti ed elementi della compagnia controcarro divisionale al comando del tenente Weinreich. Accanto al mio nuovo posto di comando, un piccolo rifugio scavato nella terra nella parte interna di un pendio, appena a 200 metri dietro la linea del fronte c’è un cannone di assalto italiano, che presto si dovrà dimostrare utile (carro Fiat Ansaldo M 42 di preda bellica N.d.T)” . (Dittman pp.6-7-8).
[…] “…Il comando del 1 battaglione/992 viene immediatamente trasferito vicino alla uscita orientale di Osimo. Vengono assegnate alla terza compagnia una squadra del plotone ciclisti reggimentale e la riserva del battaglione, mentre una seconda squadra del plotone ciclisti resta presso il comando del 1 battaglione/992 come riserva. In serata entrambe le squadre erano state con urgenza inviate dal comando del reggimento sull’ala sinistra, esposta alla minaccia nemica. Considerata la situazione esistente nella zona di Castelfidardo, I comandi e la truppa prevedono per il giorno seguente un forte attacco che si sarebbe concentrato sull’ala sinistra dove, nel corso del tardo pomeriggio, si sono potuti osservare anche forti concentramenti di carri armati… Ci sarà il 4 luglio l’atteso attacco in grande stile da parte polacca? Su quale del punto del fronte ci si dovrà attendere l’attacco principale?… La terza compagnia viene attaccata da carri armati con accompagnamento di fanteria che avanzano a cavallo della strada Castelfidardo Osimo ed è costretta ad indietreggiare soltanto di 300/400 metri” .(Heymann p. 40)
Così continua il rapporto del maggiore Klennert al comando del 51 corpo d’armata alpino ” Il 3 luglio si è verificato l’attacco principale, partito dalla zona nord di Loreto e condotto da 40 carri armati e dalla fanteria sui due lati della strada in direzione di Ancona sino a Crocette: di qui l’attacco si è rivolto verso Castelfidardo tentando, attraverso quest’ultima località, di sfondare in direzione di Osimo. Per impedire questo sfondamento era indispensabile arretrare la linea del fronte sino a tre chilometri a sud est di Osimo e due chilometri a sud est della stazione di Osimo.
Nel settore ad est di Filottrano gli attacchi nemici, all’inizio di forte intensità, sono sensibilmente diminuiti nel corso della giornata così che in questo punto del fronte si poteva prevedere che il nemico proseguisse nell’effettuare soltanto operazioni di secondaria importanza mentre c’era di nuovo da attendersi che continuasse a concentrare il suo massimo sforzo nel settore di Osimo”. (Klennert p.279.)
Il caporale Alfons Hoffmann narra un episodio che mette ancora una volta in risalto quanto sia determinante il destino nella vita dell’uomo: “Appartenevo al comando del 1 battaglione del 993 Granatieri e sono caduto prigioniero il 3 luglio a Crocette, presso Castelfidardo, assieme a tutti I componenti del comando, eccettuati gli ufficiali. Avevamo con noi anche due camerati della 14.ma compagnia controcarro del nostro reggimento che poco prima avevano distrutto un carro armato polacco con un colpo di Ofenrohr. La loro postazione si trovava all’uscita dell’abitato di Crocette, sulla strada che porta verso Castelfidardo. Il carro che avanzava poco dopo centrava una granata su di loro e li feriva gravemente. Pertanto I due si erano trascinati al comando di battaglione ed erano rimasti con noi quando, nel pomeriggio, siamo stati fatti prigionieri. Siamo stati rinchiusi in un negozio di Crocette, situato in un incrocio di strade. La nostra artiglieria aveva preso allora l’abitudine, per noi scomoda in quel momento, di fare fuoco proprio su quell’incrocio dove avanzava carro armato dopo carro armato. Ogni dieci minuti arrivava una granata. Più di una volta ufficiali polacchi erano venuti da noi chiedendo chi aveva colpito il carro armato: se non l’avessimo indicato, saremmo stati fucilati tutti ed una volta erano stati addirittura portati fuori cinque uomini, messi con spalle al muro e minacciati di morte se non avessero riferito il nome dei due appartenenti alla compagnia controcarro. Ma nessuno li ha traditi. Dopo qualche tempo arriva un polacco, prende con sé i due feriti dicendo che sarebbero stati trasferiti in un ospedale da campo e, con essi, si ferma all’incrocio. Ma non erano neppure trascorsi cinque minuti che in quel punto cade una granata. La nostra artiglieria aveva sparato ancora un colpo uccidendo il polacco ed i due nostri camerati” ( Hoffmann A., in Die Neue Bruecke n.27 natale 1962, pp.15-16)  […]
Redazione, La battaglia per Ancona, ANPI Osimo