Il percorso di Borsa dimostra come ci fosse un’altra Italia liberale, progressista e laica che ha sempre cercato un modo di esprimersi attraverso i giornali

Il 25 aprile 1945 Mario Borsa diventò direttore del “Nuovo Corriere”: il CLN aziendale scelse il giornalista per il suo passato antifascista, non compromesso dalla benché minima macchia e “sostenitore della libertà e della giustizia sociale”.
Mario Borsa era liberal democratico, meglio definito dalla frase “liberale all’inglese o radicale alla francese”.
Il “Corriere”, visto come una guida tradizionale e sicura, era in quegli anni nelle mani di questo gran direttore che dovrà orientare “la grande massa della gente apolitica”.
S’imponeva un processo di rieducazione che partisse dalle radici. Per esempio, era necessario insegnare agli italiani che “Mussolini non è stato un grand’uomo è stata la borghesia italiana a gettargli sulle spalle una grandezza, di cui nemmeno la sua incommensurabile vanità avrebbe mai osato sognare”.
Alla fine il dittatore aveva portato l’Italia sull’orlo della catastrofe, “procurando lutti, dolori, sofferenze, torture, spoliazioni, miserie, affamamenti, umiliazioni, distruzioni, mutilazioni, devastazioni di una fosca, spaventevole, inaudita tragicità, quali nessuno avrebbe nemmeno sognato in trenta secoli di storia che un italiano avrebbe potuto arrecare alla sua patria” (26 aprile 1945).
Ora era necessario rimettere ordine nel Paese e ristabilire la legalità.
Bisognava compiere un’”epurazione dell’Italia dai fascisti e i loro metodi attraverso una lotta politica legalitaria e parlamentaristica, che non contempla l’uso di metodi extraistituzionali”, per poi “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale” (quello che sarà il futuro Art.49 della nostra Costituzione).
Il primo governo che s’insediò fu quello di coalizione di Parri, che Borsa non apprezzava molto, ma che sosteneva perché “non c’era nulla di meglio da fare” in quel momento poiché l’obiettivo era quello di ripristinare la legalità.
Alla caduta del governo Parri, Borsa metterà in risalto che il presidente rappresentava l’antifascismo che “è nato nel suo spirito, si è rinsaldato nel carcere, nell’isola di deportazione, si è nutrito di meditazione e di studio”.
Successivamente il nuovo candidato sarà un leader democristiano, De Gasperi. Il direttore del “Corriere”, sebbene fosse dubbioso, ne sosterrà comunque il governo.
Uno dei motivi per cui il “Corriere” di Borsa è stato importantissimo per l’Italia è il “suo atteggiamento complessivo, al di sopra dei partiti, che assume nei momenti più impegnativi” (Walter Tobagi) guardando sempre al bene della Nazione.
Borsa sperava che l’Italia arrivasse ad un “durevole governo di coalizione”, per ridurre il numero eccessivo di partiti.
In realtà, questo era sintomo dell’influenza inglese sul direttore; Borsa non gradiva i governi di coalizione, avrebbe preferito una maggioranza e una minoranza bene precisa, all’inglese, ma si rese conto che non era questo di cui l’Italia aveva bisogno in quel momento.
Il nuovo partito, secondo Borsa, doveva comprendere “certi dissidenti democristiani e liberali, la destra socialista, i repubblicani, gli azionisti, e gli altri partiti minori, e mettere la sua base nella media borghesia, nei ceti professionisti e in quella parte dei lavoratori specializzati che non vogliono essere dei semplici gregari tesserati; dovrebbe avere un programma di governo preciso, largo, riformista, radicale ma attuabile, e spiccata tendenza pratica e non semplicemente ideologica; non dovrebbe essere classista, ma rivolgersi al popolo italiano nella sua generalità, impegnandosi ad un graduato rinnovamento dei nostri istituti e a un’opera realistica, di onestà improrogabile giustizia per le classi lavoratrici” (20 luglio 1946).
Repubblica e Monarchia sul “Corriere”
Borsa ebbe la possibilità di riflettere sulla situazione e di preparare gli italiani al referendum del 2 giugno.
Mario Borsa chiamò la massiccia partecipazione al voto; parlò di “ordine, disciplina, compostezza, serietà e senso civico”.
Nei primi mesi dopo la liberazione, Borsa aveva cercato di placare la diffusa paura per le novità politiche, per smentire quanti sostenevano che l’avvento della Repubblica sarebbe stato un “salto nel buio”.
Borsa contestò luoghi comuni, idee correnti, giudizi precostituiti.
Sul “Corriere” comparvero articoli per preparare gli italiani all’avvento di questo importante referendum: il direttore lasciò la parola a Bergamini perché esponesse le sue ragioni per votare per la monarchia e dopo fece replicare Manlio Brosio e Camillo Giussani, per la Repubblica.
Il primo scrisse un articolo che faceva emergere come punti forti della tesi monarchica, proprio le paure della borghesia: era necessario seguire la tradizione, altrimenti ci sarebbe stato “lo sconvolgimento dello Stato”; inoltre sarebbe potuta nascere una repubblica socialcomunista oppure asservita al capitalismo.
Essa si sarebbe rivelata sicuramente anticlericale, quindi anticattolica, poiché non esistevano repubbliche filoreligiose.
La monarchia aveva invece, secondo il senatore, una forza che univa, effettiva, centripeta; sicuramente avrebbe avuto più possibilità di mantenere l’Italia unita (19 maggio 1946)
L’avvocato Camillo Giussani in “Parola ad un Repubblicano” del 24 maggio 1946 espose la sua tesi. “Qualche volta è necessario nella vita chiudere un capitolo”, l’Italia doveva chiudere il “capitolo monarchia” che aveva dato solidarietà al regime fascista. L’unica cosa da fare era prendere “la via nuova”, anche per coloro che erano fedeli al principio monarchico. La fede doveva essere ora “solo per l’Italia”.
Mario Borsa come degno finale pose la sua argomentazione nell’editoriale: “Concludendo” 1 giugno 1946.
Dopo aver aperto le colonne del giornale alle varie tesi, il direttore riassunse e puntualizzò i concetti fondamentali per cui il cittadino alla fine dovrà “votare con coscienza”.
La prima tesi riguardava la monarchia e il suo rapporto con la dittatura fascista e la seconda guerra mondiale: essa aveva avuto responsabilità nel far salire Mussolini al governo? I monarchici affermavano che Vittorio Emanuele III era antifascista, allora perché nel 1924 non cacciò Mussolini? Questo fu un grave errore, da ricordare. Secondo Borsa “niente sarà così obbrobrioso come quello che si è avuto con la monarchia, la quale non è un’astrazione, ma una realtà individuata nelle persone”. Per quanto riguarda il pensiero di Bergamini, Borsa replicò che lo Stato era stato asservito a capitalisti egoisti e accentratori già con la monarchia e che il senatore aveva dimenticato di aggiungere un’ipotesi positiva sulla futura Repubblica: essa sarebbe potuta diventare come la Svizzera. Aggiunse che la Chiesa non doveva avere nulla da temere dalla Repubblica. La paura della Repubblica era infondata; era necessario “tutto considerare, tutto valutare, tutto pesare con calma e serenità”. Il cambiamento, se è voluto dal popolo, non porterà disordine, e la “stabilità non deve significare quietismo, agnosticismo, apoliticità, forzato assenteismo e mutismo fascista, in odio ai partiti e ai naturali e insopprimibili antagonismi di interessi nelle salutari contese civilmente concepite e civilmente condotte”.
Borsa e “la gente per bene”
Per Borsa una delle vere debolezze dell’Italia stava in quella stessa “gente per bene” per la quale Torelli e Albertini avevano originariamente creato il giornale. Malgrado tutta la sua perspicacia e spirito d’iniziativa, questa importante classe sociale era troppo preoccupata per i propri affari, e “amava solo il quieto vivere”. In Inghilterra, dove Borsa aveva trascorso buona parte della sua vita, il giornalista aveva osservato che fin dall’inizio del secolo la borghesia illuminata aveva compreso come soltanto la collaborazione con i radicali, e magari anche con i socialisti, consentisse di evitare rimedi disperati com’era stato il fascismo in Italia e come rischiava ora di diventare il comunismo: essa ne era consapevole. Di conseguenza in Inghilterra il fascismo non era mai stato un pericolo serio. In Italia invece la “gente per bene” aveva cercato il fascismo per difendere i propri interessi economici; e allo stesso modo avrebbe forse ora, fatto il gioco del comunismo, il quale “si rafforzerà sempre più dove si tenterà di eliminarlo con una violenta reazione”. (19 maggio 1946). Il principale difetto di costoro era di pensare che la politica fosse “cosa da lasciare ai politicanti: un mestiere nel quale credeva di non dover mettere le mani”. Era importante che ora gli italiani imparassero ciò che Borsa aveva fatto suo da molto tempo: la libertà come conquista.
Alla vigilia della nascita della Repubblica, Borsa venne però invitato ad essere più moderato e conformista.
Borsa è stato un direttore senza paura dell’impopolarità. Egli partì sfidando gli interessi costituiti e attaccando “la mancata epurazione, l’intangibilità della burocrazia fascista, il poco o nessun freno messo alla corruzione e al sopruso”. Condannò duramente l’atteggiamento corrente per il quale “Il passato è passato: non si parla, non si deve parlare delle sue colpe e dei suoi errori. La parola ora è alla gente di ieri”. Molti lettori dovettero reagire sfavorevolmente a queste parole, cosi come numerosi furono certamente gli insoddisfatti quando Borsa continuò a sollevare questioni come “il divorzio, l’abbandono del Concordato, e l’abolizione dell’insegnamento religioso nelle scuole”.
Era necessario che “la gente per bene” non ignorasse l’umore del popolo e i tempi che cambiavano “per gettarsi”, con il voto di questo referendum, “sotto i piedi di una monarchia di ieri: di un brutto ieri, un imperdonabile ieri, uno ieri indimenticabile”. Borsa sperava che la borghesia si sarebbe comportata diversamente dal 1922, e non avrebbe votato “per qualcuno che la salvasse da questi esecrati partiti popolari che sono sempre stati e sono il suo incubo”.
“Alla vigilia del referendum, la borghesia italiana è ora in preda al panico”.
Argomento centrale era la “paura”. Paura del “nuovo in sé e per sé”, disse Borsa, era un sentimento naturale di cui non bisognava preoccuparsi; il problema riguardava quella paura che viene fomentata dagli oppositori. Essa prendeva come tesi il fatto che “si diceva” che la Repubblica avrebbe portato immediati disordini e infine la dittatura. La paura non aveva fondamento, perché se il giorno del referendum fossero prevalsi i voti a favore, le masse sarebbero state soddisfatte e quindi sarebbero stati illogici i disordini presagiti. Borsa sottolineava il fatto che essa era “una tappa necessaria e di passaggio nella difficile crescita politica e democratica dell’Italia”. “La gente per bene” in quel momento doveva sentire una “grande responsabilità” nel votare, ancor più di tutti gli uomini e le donne del paese.
[…] Il direttore si mise nettamente contro i principi degli azionisti del “Corriere”, i fratelli Crespi, ormai reintegrati nella piena proprietà del giornale. Sebbene loro padre, Benigno Crespi, avesse iniziato una tradizione di non interferenza nella linea del giornale, essi decisero che “l’interesse del giornale esigeva uno spostamento a destra”.
Borsa venne estromesso nell’agosto 1946.
Laura Caloni, I quattro direttori di “rottura” del Corriere della Sera, Tesina, Università degli Studi di Milano Bicocca, 2004

Il caso di Mottola fu il prologo che convinse il direttore Mario Borsa a scrivere una lunga lettera in cui affrontava il problema di petto e chiedeva la conferma alla propria linea politica. Nella lunga comunicazione epistolare datata 1° luglio 1946 <915, egli illustrava un piano di riformismo liberale e indicava in sostanza la sua volontà di proseguire sulla linea tracciata nel primo anno di direzione; una lettera esemplare per coerenza e fermezza di intenti, ma soprattutto per la vivida fiducia in un giornalismo libero, mai servile, che lasciava trasparire <916. Non avendo ricevuto risposta il 5 agosto Borsa si dimetterà <917. Per questo si può di certo sostenere che egli venne estromesso per la sua linea politica, non per l’esito referendario, o almeno non solo per quello. Quando infatti Borsa si pronunciò contro le forze monarchiche, contestò la legittimità della continuazione statuale esito del sostegno dei poteri forti al fascismo; quando si oppose al qualunquismo ostacolò le forze liberali che lo sostenevano; spronando la borghesia ad un ruolo attivo e a non ricercare le “comodità” assicurate dal governo De Gasperi richiamò gli industriali ad un impegno diverso. In sostanza in tutto il suo discorso stigmatizzò gli atteggiamenti di una certa “Borghesia pantofolaia”, rivendicando la necessità di una democrazia progressiva. Come Parri, espressione della Resistenza armata, Borsa, postosi volontariamente sotto l’egida ciellenistica, voleva rinnovare le strutture e il costume del Paese attuando con coraggio una riforma radicale, una politica economica e sociale che configgeva con gli interessi dei conservatori, e con il mondo capitalistico e della finanza che aveva avuto forti legami sia con la dittatura che con la monarchia. Questa fu la parte più contrastata del suo programma, non certo la bonarietà delle parole che favorirono il ritorno all’ordine o il collocamento, per quanto non convenzionale, in politica estera. Come sostiene Aldo Aniasi, in un giudizio sulla politica di Parri, che è facilmente adattabile anche a Borsa, visti la comunanza di esperienza e di intenti, “[Era] soprattutto l’idea di Rivoluzione democratiche che non era ben accetta”. <918 Il perfetto rappresentante del nuovo clima instauratosi al giornale e fuori, sarà il successore di Borsa, Guglielmo Emanuel.
[…] Quasi contemporaneamente Borsa, Sacchi e Alonzi, passarono per breve tempo al “Corriere di Milano”, di cui prese la direzione Sacchi <923 e poi Borsa, in particolare, prese a collaborare con “La Nuova Stampa” di Frassati, in una diaspora che per lui era il terzo abbandono volontario dopo essere uscito dal Secolo, dal Corriere della Sera e, infine, dal “Nuovo Corriere”.
Per comunicare la notizia ai collaboratori più stretti Borsa scrisse una breve nota giustificando il suo allontanamento per i motivi “di salute, di corpo e dell’anima” <924 in cui Sabatino Lopez vide il tono “nobilmente semplice” <925 di un uomo incorrotto. Come lui, molti nomi della cultura testimoniarono privatamente al vecchio direttore la propria solidarietà. Nelle lettere conservate dalla famiglia Borsa spiccano, tra le molte testimonianze, le lettere di Alberto Savino e Piero Calamandrei. Poiché la collaborazione tra lui e Borsa era iniziata con una certa diffidenza, è notevole osservare che, appena seppe del ritiro, Lopez gli scrisse: “Sono contento di aver conosciuto un così buon Italiano com’è lei, una mente così chiara e così profondamente onesta. […] grazie, mio caro direttore, se un giorno gliene capitasse l’occasione, conti pure su di me” <926. Piero Calamandrei, invece, pur non avendo avuto modo di conoscere Borsa di persona gli disse: “La sua cordialità verso di me e la coraggiosa serenità dei suoi articoli ai quali sempre mi sono sentito vicino e consenziente, mi suggeriscono nello scriverle la confidenza dell’amicizia […] la sua uscita dalla direzione del Corriere lascia addolorati e perplessi tutti quanti hanno continuato e continuano a credere, malgrado tutto, nell’avvenire della democrazia italiana” <927.
I problemi dell’indipendenza e dell’autonomia professionale sollevati dall’estromissione di Borsa, che era noto a tutti dovessero farsi risalire ai contrasti con la proprietà, furono commentati con preoccupazione, oltre che dai colleghi giornalisti, anche da molti dipendenti e lettori, che animarono la polemica sul suo caso ancora fino alla fine dell’anno <928. Rimanevano a quel punto, per una completa restaurazione, solo le “resistenze” della Commissione interna: ‘In una riunione del 2 agosto, preso atto del ritiro di Borsa dalla direzione per “motivi di salute”, la Commissione interna del Nuovo Corriere della Sera, dopo aver conferito con i proprietari votava un ordine del giorno (O.D.G. n12) in cui si stabiliva che il giornale, anche con un nuovo direttore, non avrebbe cambiato indirizzo; sarebbe dovuto rimanere cioè “indipendente, repubblicano, democratico e progressista”; che i giornalisti o i dipendenti allontanati o dimissionari perché compromessi con i nazi-fascisti non sarebbero stati riassunti se non previo esame ed accordi con la Commissione stessa; che il caso Mottola sarebbe stato rimesso ad un ulteriore esame’ <929. I Crespi avevano inoltre accettato di trattare la costituzione di un Consiglio di gestione, ma dato il disaccordo tra le organizzazioni sindacali dei lavoratori e la Confederazione degli industriali, si erano riservati di attendere le leggi dello Stato che avrebbero regolato la materia. <930 Quando dopo alcuni mesi apparve chiaro l’indirizzo moderato di Emmanuel, ci fu un susseguirsi di proteste: contattato dalla Commissione interna nell’Avanti del 20 novembre 1946 Borsa raccontò che avendo chiesto ad Emmanuel durante lo scambio di consegne quale indirizzo avrebbe dato al giornale si era sentito rispondere: “l’opposto che gli hai dato tu”; questo riaccese le polemiche che, con il tempo andavano prescindendo le stesse figure dei giornalisti, mettendo in causa la stagione della Resistenza e l’azionismo. Nella sua lettera di dimissioni, ad esempio, Alonzi scriveva: “Io non posso dimenticare la solidarietà affettuosa che mi ha legato per oltre un anno all’opera di Mario Borsa alla quale opera ho dato quanto di meglio ho potuto senza alcuna limitazione, con entusiasmo, e mi permettano che questo, con sacrificio, quando è stato necessario, a grave pregiudizio della mia salute. Tale opera è valsa a ridare al Corriere una reputazione ed una autorità. Non riesco a mettere da parte il convincimento che il Corriere non può esimersi dal seguire un indirizzo politico attivo e definito, certo indipendente da qualsiasi partito, per essere invece un giornale timoroso di ogni atteggiamento critico verso chi è responsabile della politica italiana”. <931 Emanuel rispose: “mi rendo conto che preferisce la sua fedeltà al partito piuttosto che al Corriere, perché, mi permetta di dirle, l’unica differenza che le persone serene e di buon giudizio possono trovare tra il Corriere di oggi e quello di alcuni mesi addietro è questa: che non è più l’organo del partito azionista”. <932
Dopo la fine dell’esperienza al Corriere, oltre agli articoli per le testate ricordate, l’attività lavorativa di Borsa si orientò verso contributi a istituzioni, enti o giornali che gliene facevano specifica richiesta. Con alcuni esponenti della stagione antifascista Borsa si ritrovò all’I.s.i., istituto, che sotto un altro clima e con uomini nuovi, intendeva proseguire l’opera culturale del vecchio I.s.p.i.. Presidente ne era il Senatore Casati e del Comitato Promotore facevano parte, insieme a Borsa, Adolfo Tino, Luigi Salvatorelli, Ugo Guido Mondolfo, Rodolfo Morandi, Giovanni Mira e Cesare Spellanzon. La sua rivista, “Relazioni Internazionali” si pubblicava settimanalmente a cura del vice-presidente Riccardo Bauer e vide alcuni interventi dell’ex direttore <933. Gli ultimi impegni di una certa rilevanza riguardarono iniziative sulla stampa di cui egli si fece promotore, come la stesura del nome “Stampa” per l’enciclopedia politica internazionale curata da Lelio Basso e la moderazione del primo dibattito avuto alla Casa della Cultura, sulla proprietà dei mezzi di stampa, a cui parteciparono Luigi Simonazzi, Antonio d’Ambrosio Minetti, Riccardo Lombardi, Mario Melloni, Guido Mazzali, Gaetano Baldacci, Gaetano De Luca e Italo Busetti. I loro interventi erano idealmente legati alla discussione – allora in corso alla Costituente – che avrebbe portato alla formulazione dell’articolo 21 della Carta Costituzionale. In quel momento, infatti, si era ancora interessati a stabilire un’adeguata metodologia di sorveglianza e di controllo sulle forme di proprietà della stampa e la discussione fu organizzata, appunto, per orientare e coadiuvare con l’apporto di tecnici le scelte che l’Assemblea Costituente si accingeva a compiere, ma ebbe, com’è noto, scarsi risultati <934. Seguirono altri impegni, alcuni dei quali non portati a termine da Borsa a causa delle cattive condizioni di salute <935. Egli scomparve il 6 ottobre 1952, appena sei anni dopo l’impegno al maggiore quotidiano italiano.
Volendo fare un bilancio sulla sua esperienza più prestigiosa bisogna stabilire che l’estromissione dal Corriere rientrò in un clima, in una situazione che andava al di là della sua intransigente fermezza, ma andava altrettanto oltre la consumata duttilità dei Crespi <936, perché avvenne in un momento storico in cui, non solo nel giornalismo si assisté al rientro in massa delle firme e dei proprietari ante-resistenza, <937 ma nel Paese i rapporti politici e sociali, economici e civili, si andarono ristabilendo in una nuova rigidità, che non lasciava spazio reale a proposte alternative diverse da quelle cristallizzatesi nella guerra fredda. Come era avvenuto anche in occasione della sua nomina, quindi, ci furono fattori generali di forza più ampia, che agirono oltre all’azione delle singole personalità coinvolte nelle vicende del Corriere. Nel lungo periodo di ristabilimento dell’ordine attraversato dall’Italia tra il ’43 ed il ’46, che si citava in apertura, Borsa riuscì a cavalcare la prima ondata di normalizzazione, portata dagli Alleati, a cui anzi diede il proprio apporto specifico; rimase invece schiacciato dalla seconda, in cui la proprietà, la Democrazia cristiana al potere e le logiche internazionali, soffocano il suo esperimento riformista.
In un primo momento il suo discorso – si può dire – fu funzionale al ritorno ad una condizione di stabilità: la gente aveva bisogno di pace di lavoro, di miglioramenti materiali, che garantissero alcune libertà fondamentali e alcuni essenziali diritti. Rispetto a queste prime esigenze Borsa diede un apporto notevole, interpretando le accese speranze democratiche, molto sentite, e placando nel contempo le idee di rivoluzione sociale, che egli non condivideva. Quando poi la soluzione alla crisi più cogente aprì la strada ad una stabilizzazione duratura il suo progressivismo infastidì. La sua esperienza può essere presa – ancora una volta – come un caso emblematico dell’inattuabilità del disegno riformista nell’Italia del secondo dopoguerra: troppo radicale per le borghesia e i ceti medi, ormai appagata dal messaggio rassicurante democristiano e poco profonda per l’elettorato di sinistra già ben rappresentato da due partiti di massa.
Tuttavia, inserendo la figura di Borsa solo entro le grandi correnti politiche del periodo si rischierebbe di schiacciarne l’operato; un’analisi del “Corriere” non sarebbe valida se non desse conto delle sue iniziative personali. Nella storia del giornalismo, infatti, sono molti i casi in cui delle iniziative particolari hanno spesso caratterizzato determinate vicende o improntato di sé lunghi periodi: il percorso di Borsa dimostra come ci fosse un’altra Italia liberale, progressista e laica che ha sempre cercato un modo di esprimersi attraverso i giornali e probabilmente ha trovato il massimo compimento in questo momento, nella campagna referendaria del 2 giugno. Rispetto alla sua figura, inoltre, è importante sottolineare la capacità che ebbe di improntare il giornale di sé – non come è stato detto di farne un organo del partito d’azione – bensì di farne un organo fortemente rispondente alle idee del direttore e della èlite di giornalisti che lo compilavano, rendendo il Corriere “indipendente” nel senso in cui era stato discusso con Einaudi nel periodo della clandestinità, ovvero, libero di esprimere le posizioni dei giornalisti, senza aver paura di
scrivere idee nuove in accordo con le loro opinioni, anche se in contrasto con le tesi dominanti.
Una delle notazioni più interessanti che è stata fatta alla conduzione di Borsa è che i Crespi cercarono, allontanandolo, di spersonalizzare il Corriere: “di dargli la fisionomia anonima e mutevole che nasce[va] dal conformismo politico” <938. È proprio ciò che Borsa voleva evitare e averlo fatto rappresenta – a nostro avviso – il suo merito principale. Per Borsa il quotidiano doveva avere imprescindibilmente un ruolo politico attivo, spingere alla riflessione, e propugnare sinceramente le linee politiche che si riteneva fossero le migliori per le sorti della nazione.
Emerge, infine, dalla sua opera il disinteresse e la trasparenza di pensiero di un forte e generoso carattere lombardo, che ancora affascinano. Borsa dimostrando tutto il suo carattere anche nella fatica fisica del lavoro e nello scoraggiamento dell’isolamento ha condiviso le idealità di questa stagione, cosciente dei fragili entusiasmi di cui era portatrice e consapevole di andare incontro ad inevitabili delusioni. Ai familiari disse spesso che teneva d’occhio la porta del Corriere per uscirne, quando restare gli sarebbe costato troppo in termini di coerenza <939. Va ricordato come una persona seria, con le idee chiare e l’intransigenza severa di chi è sempre pronto a pagare in prima persona per le sue idee. La testata, ha raccontato Afeltra, non era di suo gradimento, però quei caratteri alti, slanciati, si può dire rispecchiassero la tensione morale del momento, ben sintetizzata nel direttore <940. Volendo segnare la discontinuità rispetto alla storia del giornale si potrebbe sottolineare che Borsa fece il “Corriere di Informazione”, organo della resistenza e dell’antifascismo militante – nel senso finora spiegato -; solo per poco tempo redasse il Nuovo Corriere della Sera che tuttavia era già un’altra cosa. Come scrisse giustamente Alonzi: “impiegarono troppo a togliere Nuovo” <941.
E ciò che maggiormente lasciò, oltre all’indubbio risultato della Repubblica, che, per i termini sopra indicati, giustamente va fatta risalire a lui, è il ristabilimento di non solo di un grande giornalismo, attraverso un organismo che rappresentava la storia della nostra stampa, ma in particolare di uno spirito pubblico esposto a tanti possibili disorientamenti dopo la fiammata illusoria seguita alla fine della guerra, che egli con chiaroveggenza e lucidità cercò di riportare alla serenità e alla calma costruttiva.
Anche per questo la sua opera andrebbe accostata a quella di Parri <942.
[NOTE]
915 Il tempo intercorso fino all’agosto fu atteso da Borsa per evitare di lasciare il posto vacante prima che Emanuel potesse sostituirlo e fu oggetto di discussione in fase di liquidazione.
916 DFB, lettera di dimissioni datata 1° luglio 1946; La lettera è stata pubblicata in appendice a Walter Tobagi, Mario Borsa giornalista liberale, in Mario Borsa, Libertà di stampa (1943), cit., pp.159-165.
917 Nel commiato, apparso il giorno seguente, egli scriveva laconicamente: “I miei compagni di lavoro sanno del proposito, più volte manifestato, di lasciare la direzione del giornale, divenutami alquanto onerosa. Se al momento di effettuarlo dicessi che non mi rincresce, direi una bugia: quello che posso sinceramente dire, e lo dirò con le belle parole di San Paolo, è che andandomene, mi sento la coscienza tranquilla, come di uno che ha fatto il suo dovere: «Bonum certamen certavi: cursus consumavi: fidem servavi”. Borsa Mario, in «Nuovo Corriere della Sera» 6-7 agosto 1946. Si noti la vicinanza alle parole di Romussi che scriveva nel suo commiato trentasette anni prima: “Del bene e del male che ho detto non mi pento, perché nella lode e nel biasimo fui sempre sincero e disinteressato e neppure gli amici risparmiai, fedele al precetto del mio primo maestro: «il santo vero mai non tradir, non proferir mai verbo che al vizio plauda o la virtù derida». E più volte Ella – più esperto delle cose umane – mi trattenne nella mia foga ingenua ammonendomi che gli uomini erano ben diversi dalle fantasie oneste della mia mente. Aveva ragione. Quante disillusioni per coloro che si sono gettati nel fitto della mischia politica col cuore aperto e colla fede di poter giovare ai propri simili con la semplice buona volontà!” Romussi Carlo, Commiato. Lettera aperta e Edoardo Sonzogno, in «Il Secolo» 14 novembre 1909.
918 Aldo Aniasi, Ferruccio Parri dall’antifascismo al governo, in Fiap, Il governo Parri, atti del convegno, Roma, Fiap 1995, pp.28 sgg.
923 Emilio Radius, Cinquant’anni di giornalismo, p.252: “Il Corriere di Milano emanazione del Corriere Lombardo, quotidiano del mattino, fu il primo tentativo non infondato di far concorrenza al Corriere della Sera del tempo. Ne era amministratore Aldo Palazzi; il direttore Filippo Sacchi tendeva ad una politica di centro-sinistra allora prematura. Si avvicinavano allora le elezioni politiche che diedero a De Gasperi il modo di estromettere dal governo comunisti e socialisti. Sacchi, se oggi deve essere considerato un precursore della politica di centro-sinistra o di apertura a sinistra, nel 47-48 andò contro-corrente. Il giornale anche per questo ebbe scarsa fortuna e durò poco. […] Sacchi non era un giornalista spregiudicato ma uno di quelli che credevano alla possibilità di un giornalismo morale, educativo, formativo, istruttivo, didattico; e lo dimostrò non solo a parole, ma anche coi fatti. Erede di una tradizione civica che ci viene dal riformismo settecentesco e dal Risorgimento”.
924 Istituto Storico della Resistenza in Toscana, Archivio Storico, Fondo Riccardo Bauer, Carteggio Mario Borsa, lettera datata 6 agosto 1946: “Carissimo, da questo romitaggio alpino dove mi riposo, lasciata la Direzione del Corriere per motivi di salute del corpo e soprattutto dell’anima, ti mando il mio cordiale saluto di commiato, ringraziandoti della tua collaborazione nella quale ho avuto la soddisfazione di sentire la tua solidarietà con la mia linea di condotta”.
925 DFB, lettera di Sabatino Lopez datata 6 agosto 1946.
926 DFB, lettera di Alberto Savino datata 30 luglio 1946; Tra le altre, anche le lettere di Silvio Benco, datata 7 agosto 1946; di Piero Treves datata 15 ottobre 1946 e di Pietro Nenni datata 6 novembre 1946.
927 DFB, lettera di Piero Clamandrei datata 8 agosto 1946. Tra l’altro Calamndrei lo invita a scrivere per il “Ponte” cosa che avviene con un paio di articoli pubblicati nel corso dell’anno successivo. Mario Borsa, De Marchi, in «Il
Ponte» a.3 (1947) n.3
928 DFB, lettera dei dipendenti Secondetti, Bassini, Feerario, Pasinelli, Costantino, Gerezano ed Arighi datata 23 novembre 1946.
929 FCS, fasc. Crespi, Ordine del giorno n.12 allegato alla lettera a Bartolini, datata 3 agosto 1946.
930 FCS, fasc. Crespi, lettera a Giuseppe Colli datata 29 ottobre 1946
931 FCS, fasc. Giulio Alonzi, lettera a Guglielmo Emanuel datata 16 settembre 1946.
932 Ivi, lettera di Emanuel datata 26 settembre 1946. Si veda anche la polemica tra Giorgio Borsa ed Eugenio Montale avutasi dopo la scomparsa di Mario Borsa e riportata alla luce dalla pubblicazione su Belfagor di una lettera a Franco Fortini da parte di Montale. In essa lo scrittore registrava gli appunti ricevuti da Giorgio Borsa ad alcune sue esternazioni sulla figura del padre, che tendevano a trascurare volutamente i tratti etico-politici del suo operato. Anche l’autore dell’articolo rileva, a proposito del necrologio di Borsa curato da Montale, che “i riferimenti all’antifascismo di Borsa sono parchi e di natura squisitamente informativa e, comunque, anche su questo piano manca una cenno marcato agli arresti ed alle persecuzioni subite da Borsa negli anni del regime fascista”, come se l’autore si preoccupasse di non mettere in gioco la propria personale valutazione politica e di sottolineare piuttosto un’ammirazione per l’uomo che per l’intellettuale e per l’antifascista. Giorgio Tinazzi, Varietà e documenti. Le lettere antagoniste, in Belfagor a.1982 vol. XXXVII, pp.685-699.
933 INSMLI, Fondo Carlo Prato, fascicolo 2, sottofascicolo Riccardo Bauer, lettera datata 27 maggio 1946.
934 A questo riguardo vedi anche Borsa Mario, Del nostro giornalismo, cit.
935 INSMLI, Fondo Antonio Basso, busta 2, fascicolo 14, lettere inviate da Borsa datate tra la fine del 1947 e l’inizio del 1948.
936 Walter Tobagi, Mario Borsa giornalista liberale, in Mario Borsa, Libertà di stampa (1943), cit., p.155
937 Valerio Castronovo, Nicola Tranfaglia, Storia della stampa italiana, vol. V, cit., pp.184 sgg.
938 Vittorio Capecchi, Marino Livolsi, La stampa quotidiana in Italia, Milano, Bompiani, 1971, p.72.
939 DFB, Memoriale Giorgio Borsa, cit.
940 Gaetano Afeltra, La grande giornata dalla trincea del Corriere, cit.
941 Giulio Alonzi, Mario Borsa direttore del Corriere, in «l’Avanti» 2 giugno 1959.
942 Su Parri si veda anche Luca Polese Remaggi, La nazione perduta: Ferruccio Parri nel ’900 italiano, Bologna, Il Mulino, 2004.
Maria Assunta De Nicola, Mario Borsa: biografia di un giornalista, Tesi di Dottorato, Università degli Studi della Tuscia – Viterbo, 2012