Maria Luigia Guaita deve trovare in una brigata comunista a Volterra il compagno partigiano Sandrino

Simile a Gobetti, Maria Luigia Guaita era conscia degli effetti causati dalla sua presenza, ad esempio negli accampamenti dei suoi compagni partigiani, che ricorda con affetto. Nel 1943 Guaita non aveva figli, ma offre dettagli sul carattere e sui comportamenti dei suoi compagni che “ridona spessore” <145 alla loro personalità, sottolineando com’erano prima dell’armistizio. Durante una missione di natura politica lei deve trovare in una brigata comunista a Volterra il suo compagno Sandro Contini Bonacossi, la cui conseguente comparsa la costringe a paragonare l’aspetto del presente e quello del passato:
“Finalmente, attorniato da altri cinque o sei partigiani comparve Sandrino. Irriconoscibile, magro e sporco come non avrei saputo certo immaginare…Come era cambiato in questi pochi mesi il mio antico raffinato amico…Era audace, generosa, timido e schivo come a Firenze”. <146
Commenti di madre – “Quanto sei sudicio Sandrino!” – e gridi affettuosi vengono dalle labbra, che incitano sul viso la commozione, ma Guaita vede chiaramente il suo “desiderio di dominarsi.” <147 Quando la conversazione diviene più breve di quanto ha voluto la partigiana perché Sandrino deve far saltare un ponte, lei nota come a Sandrino dispiaccia lasciarla. Guaita coglie questo stato d’animo da un semplice gesto, Sandrino fa passare la mano nei “capelli biondi e fini.” Un riflesso che, secondo Guaita, mostra quanto significa per lui la lotta: “Sandrino nel modo incerto con il quale si era passata la mano nei capelli, mi aveva dato la misura di quanto gli dispiacesse andarsene, ma anche di quanto per lui contasse l’impegno con i compagni, l’esempio, e il puntiglio di mostrarsi duro.” <148 Infine, Guaita cerca di non mostrare la sua delusione e, simile a Gobetti, capisce quanto significa per i giovani partigiani prendere parte alla lotta clandestina. Tutte le due partigiane non volevano ostacolare i compiti dei suoi compagni maschili, e come tale non si occupano solo dei loro obiettivi ma anche quelli dei loro compagni maschili.
Ritornando all’opera di Gobetti, però, si deve sottolineare che la partigiana utilizza la sua visione materna per informare i lettori che tutti i ragazzi del mondo sono figli come quelli italiani. Dopo aver visto il corpo impiccato di un altro giovane, Davide, Ada commemora la sua morte (per la seconda volta nel testo) con un discorso sull’universalità della connessione madre-bambino:
“Andammo a mangiare in una trattoria. Anche là c’eran dei tedeschi: dei bei ragazzi biondi, allegri. Spogliati dalle divise, dai simboli odiati, in che cosa eran diversi dai nostri? Pensai che se ci fosse stato uno di loro al posto del giovane Davide, avrei provato la stessa ribellione e la stessa pena. Ricordai le parole d’una semplice vecchietta di Meana, che aveva un figlio in Africa durante la guerra. – Prego per lui e prego per tutti. Per tutti. Anche per gli altri -. Erano altri per lei, non nemici; semplicemente altri figli di altre madri. Era la coscienza universale ed eterna della solidarietà che lega tutte le madri”. <149
Gobetti vede i giovani tedeschi simili alla gioventù d’Italia: innocenti e dissociabili dalla responsabilità della guerra nazista. <150
[…] Nel settembre 1943, Maria Luigia ha appena compiuto trentuno anni, non è sposata e non ha figli. È nata da una famiglia di ceto medio, ormai diventata mezza partigiana e mezza “fascista”. Maria Luigia e suo fratello, Gianni, erano coinvolti nella resistenza e il loro padre lavorava alla Censura postale dove eliminava i messaggi nelle lettere ritenute pericolose dal governo. Guaita lo dipinge come uomo irruento e autoritario e, secondo lei, “mutilare quelle lettere fino a renderle talvolta incomprensibili doveva dargli un piacere quasi sadico.” <201 Lui litigava spesso con un’amica partigiana di Guaita, Annamà, e spaventava tutti gli altri amici. Ciononostante, non è molto chiaro quale fosse la sua posizione politica, perché Guaita spiega che lui era stato richiamato alla Censura, non si era offerto volontario. E soltanto dopo che la loro casa era stata sorvegliata dagli uomini vestiti di nero, lei ha rilevato che si era iscritto al fascio repubblicano con la voce che, secondo lei, tremava incertezza e inquietudine che “io non volevo, che non potevo capire.” <202 Inoltre, la madre cercava di essere il mediatore nella famiglia, risolvendo i conflitti tra il padre e Annamà, ed era consapevole delle attività illecite dei suoi figli. Però, durante la sorveglianza della casa Guaita era stata rimproverata da sua madre e le è stato detto che avrebbe dovuto smettere di occuparsi di “cose che non sono da donne.” <203
Dunque, si può affermare che Maria Luigia non è stata motivata a prendere parte alla Resistenza a causa della sua famiglia. Non era una famiglia politicamente allineata, Guaita non aveva un buon rapporto con suo padre e sua madre considerava i tentativi partigiani una cosa da uomo. Almeno suo fratello faceva parte della resistenza, ma lei non si è inserita nella lotta clandestina come reazione a un atto di violenza inflitto a Gianni da parte dei fascisti.
[…] Nel 1943, il Partito d’Azione (Pd’A.) includeva ancora i membri dell’altro gruppo antifascista, Giustizia e Libertà (GL). In tutto il libro Guaita usa entrambi i nomi dei gruppi per definire i suoi amici, però quando definisce sé stessa non fa distinzione. È diventata un membro del Pd’A. quando il suo amico Pippo, uno dei fondatori del partito, l’ha prescelta per lavorare con lui all’organizzazione. Ma lei si definiva anche come un membro del gruppo, per via del suo linguaggio: “I miei, di GL…” <205 Inoltre è molto interessante che, subito dopo essersi iscritta nel Pd’A., Guaita lavori con un compagno sui compiti che, secondo lei, erano condivisi ma non ancora quelli di partigiani: “Man mano che il nostro lavoro si faceva più intenso e complesso, anche Carlo prese ad affidarmi altri incarichi, e così avvenne il mio primo contatto coi partigiani, nella sede della Società per la cremazione dei cadaveri in Firenze.” <206 Dunque, lei non considerava ancora Carlo e gli altri come partigiani e a questo punto aveva la coscienza comune soltanto a causa del suo partito, non della resistenza intera.
Entro l’inizio del 1944, Guaita e i suoi amici avevano ancora un legame forte con le loro opinioni politiche in quanto non avevano fiducia dei loro compagni communisti e pure litigavano con il gruppo dell’estrema sinistra. Guaita sostiene che i comunisti la conoscevano poco, non si fidavano e quando chiedeva aiuto a loro rispondevano evasivamente e con promesse vuote. <207 Discuteva con un “amico” – Roberto, comunista e creatore delle carte d’identità finte – che l’ha ingannata per ottenere le carte preziose di Guaita. Ma più interessante è che lui è quello che doveva ricordarle che le carte “fanno comodo” anche a lui per la stessa ragione che “fanno comodo” a lei. <208 Più avanti, sembra che Guaita abbia imparato la lezione da Roberto perché utilizza la stessa logica per spiegare al lettore il significato di un altro tradimento svolto dai comunisti. Le armi, che erano portate con grande rischio dai aderenti di GL a Firenze per distribuzione ai partigiani e alle staffette, erano state rubate dai communisti che, secondo Guaita, “operavano al nostro fianco contro lo stesso nemico, che condividevano i medesimi rischi e credevano negli stessi ideali, anche se da un altro punto di vista politico!” <209. Magari questo episodio era un punto di svolta per Guaita, perché la sua coscienza comune si estende agli altri partiti partecipanti nella lotta clandestina, e perché da allora lei descrive tutti i partigiani come “i nostri ragazzi” in montagna ed entro il dopoguerra lei ha scoperto che anche se non si conoscevano e non appartenevano allo stesso partito, “si guardavano con simpatia, quasi con affetto, sicuri che anche l’altro era uno dei [loro].” <210 Quindi, è possibile che per un gran parte della sua esperienza come staffetta abbia mantenuto una subcoscienza comune, per così dire. Cioè, si può teorizzare che poiché il suo gruppo era vincolato fuori dalla famiglia, a un gruppo politico, la sua coscienza comune con tutti gli altri partigiani fosse secondaria rispetto a quella che sentiva con gli amici del Pd’A e di Giustizia e Libertà. È possibile dunque riconoscere un’estensione delle relazioni famigliari alla “famiglia politica” nelle biografie partigiane.
[…] L’esperienza di Guaita era analoga a quella delle donne spagnole in quanto si sentiva un obbligo collettivo che aveva radici nell’assegnazione dei compiti tra i partigiani e le partigiane. Guaita e le sue amiche non combattevano fisicamente i tedeschi (come facevano soprattutto gli uomini), piuttosto accettavano il posto di staffetta. Una staffetta era essenzialmente un corriere di messaggi e di oggetti clandestini come le bombe, le carte d’identità e i timbri falsi. Un altro compito adottato solamente dalle donne era la sicurezza delle case dove nascondevano gli oggetti clandestini e i partigiani in fuga e tenevano le riunioni segrete. In tal senso, le partigiane accettavano di avere il compito domestico di “badare alla casa” per riportare, nelle parole di Guaita, i loro ragazzi a casa sani e salvi.
Per di più, Maria Luigia sentiva un senso di cameratismo con le sue amiche Rita, Rosa e Bianca, che erano anche le staffette e venivano lodate da lei per le loro competenze. Ma in realtà queste competenze sono descritte con una prospettiva quasi “antifemminista”, nel senso che le donne sono applaudite per essere “piacenti senza essere belle,” cordiali, spregiudicate, dignitose, essenzialmente per non essere aggressive come un uomo. <212 Ciononostante, Guaita guardava con ammirazione le amiche perché erano coraggiose e riuscivano a combattere i tedeschi a modo loro. Si vede anche spesso che le donne erano incoraggiate a usare le loro “arti femminili” quando erano necessarie. A volte i trucchi sono raccomandati esplicitamente dai loro compagni maschi; per esempio, mentre Guaita e un compagno portavano materiali di contrabbando e una pistola, sono fermati dai repubblichini armati. Il compagno le ha detto di piangere e in seguito è diventata leggermente isterica per impressionarli. Il trucco ha avuto successo e li hanno rilasciati. Ma in altri casi gli atti femminili non si sono limitati al ricorso a piccoli espedienti, piuttosto sono usati in modo positivo. Per esempio, quando portava un grave messaggio ai partigiani in montagna, lei portava anche le parole di affetto dei loro amici e, secondo lei, una cosa inesprimibile – il sorriso tenero di una giovane donna, presumibilmente innamorata di uno di loro. <213 Cioè, lei faceva un lavoro che può fare solo una donna. Anche se non è il caso di Guaita, le conclusioni di Patrizia Gabrielli, ossia che alcune partigiane lottavano a nome dei loro parenti e cercavano di proteggerli, sono confermate in “Storie di un anno grande”. Un convincente esempio e il rapporto tra Bianca, l’amica di Guaita, e il suo fratello: “Bianca pretendeva dal fratello, che adorava, la più assoluta indifferenza per la sua attività clandestina; voleva così salvaguardarlo e le pareva che sarebbe bastato il disinteresse del ragazzo a tenerlo lontano da ogni rischio…” <214 Bianca si è unita alla lotta partigiana per proteggere suo fratello, anche se non considerava rischioso, curiosamente, farlo vivere in una casa sicura dove nascondevano le armi e di cui tutti conoscevano l’indirizzo. Per questa donna la procedura opportuna è di tenere all’oscuro suo fratello, mostrando una mentalità partigiana che la cosa più rischiosa era la conoscenza di attività illeciti.
Inoltre, Maria Luigia non aveva figli, ma si può dire che si sentisse responsabile dei partigiani in montagna e che erano come figli per lei. Lo si vede nel racconto, già citato in questa ricerca, della sua missione di portare un messaggio agli amici nell’accampamento sui monti Le Cornate. La relazione tra Guaita e il suo amico Sandrino è come quella di madre-figlio. Guaita descrive l’incontro come emozionante e lui si sente inquieto in sua presenza:
“Al mio grido affettuoso gli lessi sul viso la sorpresa, la commozione ma più forte il desiderio di dominarsi. Come era cambiato in questi pochi mesi il mio antico raffinato amico di Firenze! Nell’abbracciarlo vidi che polvere e sudore gli avevano formato sul collo strane incrostazioni nere”. <215
È importante notare che l’autrice l’ha chiamato con affetto come una madre che abbia trovato suo figlio perduto e ha riconosciuto la condizione di Sandrino come una madre che esamina i suoi ragazzi dopo che hanno giocato fuori. E Sandrino sembrava essere imbarazzato dal comportamento della sua amica o di essere visto dai suoi compagni, come un figlio. La presenza di Guaita femminile dava fastidio anche agli altri partigiani nell’accampamento, che Guaita descrive nel racconto della cena con i partigiani sconosciuti: “gli uomini mangiavano rumorosamente accaniti intorno agli ossi, parlavano poco forse a causa della mia presenza.” <216
Ciononostante, si sentiva responsabile per i partigiani, e scrive infatti che la vita faticosa dei partigiani “si dava un malessere quasi fisico” e che si rimproverava “di non ritrovare l’emozione per il loro sacrificio.” <217 Pretendeva di sapere cosa aveva compiuto Sandrino durante la notte precedente pericolosa, e pure esortava il suo altro amico Gianni di badargli perché lui era più vecchio dell’altro. Cioè, la madre delega responsabilità al più grande. Prima di partire, gli ha dato un avviso: “Fate attenzione, per carità… non vi mettete nei pericoli…” e nell’ultimo sforzo in privato con Gianni gli ha raccontato “del nostro lavoro in città, delle nostre pene, del nostro desiderio di essere il più vicino possibile a tutti loro, anche se eravamo spesso impotenti ad aiutarli nei loro bisogni, ma ansiosi per i loro pericoli, quasi dimentichi dei nostri.” <218 Sembra di nuovo come una madre, che ignora i suoi pericoli e concentrandosi solo suoi quelli dei “bambini”.
Storie di un anno grande offre un racconto degli atti clandestini di una partigiana toscana, che lottava a nome dei suoi compatrioti maschi, condividendo la coscienza comune con tutti ma sorprendentemente con uno scopo politico. Però sembra che la coscienza comune sia in contraddizione con la sua coscienza femminile. L’analisi dell’autobiografia di Guaita richiede una prospettiva nuova nel contesto della teoria politica; le donne nei movimenti rivoluzionari valorizzano i bisogni primari umani più dei loro diritti sociali e politici, la vita più della proprietà e i profitti individuali. È possibile che le altre autrici partigiane come Guaita – borghesi e iscritte nei partiti socialisti meno organizzati dei comunisti – mantenessero gli stessi scopi politici durante la guerra.
[NOTE]
145 Gabrielli, Scenari di guerra, 17.
146 Guaita, Storie di un anno grande, 41-42.
147 Guaita, Storie di un anno grande, 41.
148 Guaita, Storie di un anno grande, 42.
149 Gobetti, Diario partigiano, 102. Enfasi nell’originale.
150 Sull’immagine del “ragazzo in divisa” proposta da Bravo si veda la nota 126.
201 Guaita, Storie di un anno grande, 21.
202 Guaita, Storie di un anno grande, 35.
203 Guaita, Storie di un anno grande, 31.
205 Guaita, Storie di un anno grande, 28.
206 Guaita, Storie di un anno grande, 8.
207 Guaita, Storie di un anno grande, 28.
208 Guaita, Storie di un anno grande, 26.
209 Guaita, Storie di un anno grande, 37.
210 Guaita, Storie di un anno grande, 74, 79.
212 Guaita, Storie di un anno grande, 56-57.
213 Guaita, Storie di un anno grande, 37.
214 Guaita, Storie di un anno grande, 57.
215 Guaita, Storie di un anno grande, 39.
216 Guaita, Storie di un anno grande, 40.
217 Guaita, Storie di un anno grande, 41.
218 Guaita, Storie di un anno grande, 45-51.
Jordan Lin Brewer, Salvare la nazione: la coscienza femminile della seconda guerra mondiale, Tesi di dottorato, Georgetown University, 2021

Radio Cora era l’emittente clandestina del Partito d’Azione fiorentino, attiva tra il 1943 e il 1944 e ospitata in un appartamento in piazza D’Azeglio. Il 7 giugno 1944 l’irruzione dei nazifascisti vi sorprese i partigiani Luigi Morandi, Enrico Bocci, Carlo Campolmi, Maria Luigia Guaita, Giuseppe Cusmano e Franco Girardini; poche ore dopo fu arrestata anche Gilda La Rocca. Italo Piccagli, sperando di scagionare gli altri, si consegnò spontaneamente. Morandi morirà due giorni dopo in seguito alle ferite riportate nello scontro a fuoco avvenuto al momento dell’arresto. Piccagli venne trucidato il 12 giugno nei boschi di Cercina insieme a Anna Enriques Agnoletti, a quattro paracadutisti alleati e ad un ignoto partigiano cecoslovacco. Il corpo di Bocci, presumibilmente ucciso poco dopo l’arresto, non è mai stato ritrovato. Tutti gli altri furono torturati e inviati nei lager, con l’eccezione di La Rocca e Guaita che riuscirono a scappare prima dell’arrivo in Germania.
Redazione, 78° Anniversario dell’ Eccidio di Radio Cora, ANPI, 5 giugno 2022

Prima pagina di “Patrioti” del 22 dicembre 1944. Nota e fonte cit. infra

Stampato a Porretta Terme (il primo numero) e poi a Firenze (gli altri due), è un giornale anonimo redatto principalmente da Enzo Biagi, giornalista del “Resto del Carlino” e partigiano azionista. A lui è possibile attribuire la stesura di gran parte degli articoli non firmati, a partire dall’editoriale di apertura del primo numero, Perché l’Italia è viva. Tra gli altri collaboratori annovera Luigi Amaduzzi, Renzo Bacchelli (Mario), Francesco Berti Arnoaldi Veli (Checco), Giuseppe Campanelli, Wilmo Cappi, Alessandro Contini Bonacossi, Leonardo Gualandi (Alpino), Raffaello Leonelli, Pietro Pandiani (Capitano Pietro), che fanno parte di una brigata GL attiva nella zona di Porretta Terme e Gaggio Montano ed entrata in contatto con le truppe alleate – alle quali, tuttavia, non sono risparmiate critiche severe per l’atteggiamento di scarsa collaborazione con la lotta partigiana. Essendo pubblicata dopo la liberazione delle zone appenniniche nelle quali è diffusa, non è una testata clandestina ma rimane comunque espressione della Resistenza bolognese. Trasferita in Toscana durante l’inverno 1944-1945, la brigata riprende l’azione e partecipa alle operazioni militari fino alla liberazione di Bologna. Sul piano dei contenuti, la testata si caratterizza per articoli dal taglio agile, che alternano tematiche combattentistiche a riflessioni politiche, considerazioni storiche e note di costume.
Bibliografia: L. Bergonzini, L. Arbizzani, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, vol.II, La stampa periodica clandestina, Istituto per la storia di Bologna 1969; Dizionario della Resistenza, Einaudi 2001.
Matteo Pasetti, Patrioti. Pubblicazione della 1^ Brigata «Giustizia e Libertà», Istituto Parri

Nel 1948 Elsa de’ Giorgi sposò Alessandro Contini Bonacossi, detto ‘Sandrino’ <9, partigiano, scrittore e curatore d’arte al quale dedicò il memoriale partigiano “I Coetanei” […]
9 Alessandro Contini Bonacossi, nipote affiliato di Alessandro Bonacossi e Vittoria Galli, era legato ai due genitori acquisiti da doppio vincolo di parentela: suo padre era infatti fratello di Alessandro e sua madre era invece figlia di Vittoria, avuta dal precedente matrimonio. L’omonimia col conte Alessandro Augusto (Sandro), figlio primogenito di Alessandro e Vittoria, ha generato talvolta confusione e sovrapposizioni errate tra i due personaggi.
Eugenia Petrillo, Italo Calvino ed Elsa De Giorgi: l’itinerario di un carteggio, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Padova, Anno Accademico 2014-2015