Imparammo a conoscere la frugalità esemplare dei contadini

Se l’arrivo degli sfollati e le operazioni belliche rendono, a partire dalla primavera del 1944, difficile la situazione alimentare nei comuni rurali, nei centri urbani, l’incalzare della guerra aveva già aggravato molto tempo prima la condizione alimentare dei cittadini, amplificando le già grandi disfunzioni palesatesi precocemente nell’organizzazione della raccolta e della distribuzione degli approvvigionamenti alimentari. Nel corso del 1943, le relazioni della commissione provinciale di Censura di Pesaro segnalano un progressivo aumento del malessere della popolazione civile in relazione alla situazione alimentare, avvalorate da numerosi stralci delle lettere verificate: “qui non si trova più nulla” – si legge in una lettera partita da Ascoli nel dicembre del 1943 – “ancora non è venuto nulla e forse non verrà più nulla. Chi poteva pensare non venisse più il sale, i fiammiferi?” <398; “…sappi” – chi scrive, ancora nel mese di dicembre, si trova in Ancona – “che da due mesi non abbiamo la distribuzione di niente, di generi, di tessera e viviamo come Dio vuole. E’ una vita difficile molto” <399.
Una situazione nella quale, il mercato nero, tollerato sia dai tedeschi sia dall’autorità fasciste che non desiderano inimicarsi ulteriormente la popolazione, diventa non più un mercato parallelo, ma praticamente l’unico mercato esistente <400: “con la tessera” – la lettera, scritta nel febbraio del 1944, proviene da Fano – “non danno quasi più niente. Se vuoi vivere a mercato nero altrimenti niente. Adesso Alberico ha preso due fiaschi di olio mille lire, due chili di lardo 320 lire, poi altre spesucce per farti sapere come va adesso da noi. Ho preso due rocchetti per cucire £. 70, mezzo chilo di marmellata £. 20, un chilo di varechina 8 lire, due chili di liscivia 24 lire. E’ un po’ che non ci danno più ne il latte ne lo zucchero. Pure lo zucchero si trova al mercato nero a £.80 al chilo. Ci vorrebbe essere miliardari!” <401.
Per coloro che sono rimasti nei centri urbani, la sopravvivenza esige dunque una lotta quotidiana fatta di numerosi espedienti: “Noi non siamo sfollati, siamo rimasti sempre in Ancona, abitavamo in via Isonzo, dietro c’era la campagna. Con il latte facevamo il burro […]. Gli ultimi giorni non c’era più niente. Mi ricordo di un fornaio che cucinava con il fiore di farina, erano sacchi di farina raccolti al porto dopo l’affondamento di un vapore, e che non mangiavamo perché era immangiabile. Ricordo che non si trovava carne, né il pane; la tessera non ci bastava. Un’amica di Anna Maria aveva il padre che stava al forno, in via Della Loggia. Prendeva i bollini alla madre, li dava ad Anna Maria e mia madre con quei bollini riusciva a prendere il pane. C’era invece tanta marmellata d’arancio. Forse perché non veniva più esportata. Ricordo anche che portavamo l’acqua del mare per il sale; andavamo a prendere l’acqua al pozzo. Una volta mio padre, che era andato al lavoro a Loreto in bicicletta, aveva incontrato una mucca azzoppata; aveva chiamato un contadino, l’aveva fatta macellare e aveva portato a casa tanta di quella carne … siamo stati bene per i primi giorni, poi non essendoci i frigoriferi, c’era anche il problema della conservazione. La città era spopolata e quando suonava l’allarme andavamo in via Trieste, dove c’era un paraschegge con sopra tre metri di terra, tanto per stare in compagnia” <402.
Tornando al fenomeno dello sfollamento, la condizione di sfollato, aldilà del rapporto che legava la famiglia sfollata e la famiglia ospitante, precedentemente la forzata coabitazione, o del legame che si viene a creare successivamente, impone a coloro che dalla costa risalgono verso l’entroterra di dover fare i conti con condizioni di vita profondamente diverse da quelle vissute nella comunità d’origine. Alla scoperta dell’’industrioso mondo della vita di campagna’ <403 si affianca la sperimentazione della “esemplare” “frugalità contadina”, come ricorda una testimone, appartenente ad una famiglia borghese sfollata da Ancona nel novembre del 1943: “La nostra meta era una casa colonica in località Venetica, non lontano da Polverigi e da Augugliano. […] La casa dei Cortucci era una buona casa, ma come lo erano quelle dei contadini di quell’epoca: senza acqua corrente, senza riscaldamento (salvo il camino in cucina), senza
gabinetto. Il fattore aveva fatto apprestare prima del nostro arrivo uno stanzino in muratura, attaccato all’esterno della stalla, che ci servì appunto da gabinetto. Per l’acqua d’inverno si attingeva al pozzo di acqua piovana, che si trovava sull’aia, d’estate bisognava scendere in fondo al campo dei Cortucci, che era anche il fondo di quella valletta. […] Mancava, naturalmente, anche la luce elettrica e per l’illuminazione si usavano delle lampade a petrolio o ad acetilene […]. Quante volte, nell’andare a piedi in paese o in qualche casa colonica vicina, mentre camminavammo ci trovammo con un piede nudo mentre la nostra scarpa-zoccolo rimaneva fermamente impigliata nel fango! Ho usato il termine “scarpa-zoccolo”, perché quell’inverno le nostre calzature furono costituite da una via di mezzo appunto tra le scarpe e gli zoccoli. Infatti la suola era di legno, che isolava bene dal freddo e dall’umidità, e la tomaia, a scarponcino, in cuoio. Cominciò allora un periodo di vita assai semplice […]. Imparammo a conoscere la frugalità esemplare dei contadini” <404.
Per coloro che sono costretti a lasciare le proprie case, lo sfollamento rappresenta una rottura netta con il mondo domestico di provenienza, con i ritmi e i riti imposti dal lavoro e significa contestualmente l’apertura a nuovi tipi di comunicazione/relazione <405. Nelle testimonianze delle donne di città sfollate, la nuova condizione, per alcune, si configura essenzialmente come una sorta di riduzione “allo stato di natura”, che significa perdita di oggetti a forte valenza simbolica: la casa, quasi sempre distrutta dai bombardamenti, i mobili, le masserizie; per altre donne invece, l’annullamento delle coordinate spazio temporali abituali determina soprattutto nuove forme di comunità e socialità, di inusuali aggregati solidaristici: il nuovo spazio di vita è costituito dalla stalla, da una stanzetta in una casa di contadini, nei casi più fortunati dalla villa padronale che, oltre agli anconetani, accoglie a volte sfollati amici provenienti anche da altre parti d’Italia e gli stessi contadini legati da un rapporto di lavoro. In questo senso si verifica l’emergere di una socialità irripetibile, destinata a venire meno con la fine dell’esperienza bellica.
Valenze che riflettono anche una distinzione di tipo anagrafico-generazionale che impone ruoli e responsabilità differenti: se nel racconto delle donne all’epoca dei fatti, giovani, quella vicenda riporta alla mente ricordi di spensieratezza, di corse per i campi con i figli dei contadini, di amicizia, di libertà, anche se ciò può sembrare un paradosso, per coloro le quali in quei mesi dovettero farsi carico, in assenza degli uomini, della sopravvivenza dei propri familiari, la percezione di quel periodo è decisamente meno positiva. Queste ultime ricordano se stesse alla continua ricerca del cibo, sale, zucchero, oggetti da barattare con i contadini; alcune si ingegnano nel costruire borse a rete da scambiare con generi alimentari, altre fanno le parrucchiere per avere un po’ di carne <406.
Rapporti sociali che fino a quel momento erano risultati immodificabili, vengono ora azzerati, proponendo in numerosi casi un sovvertimento delle gerarchie preesistenti tra città e campagna, tra i “civili” e i “villani”. Alcune brevi frammenti tratti dalle lettere che Ilda Finzi Bonasera – costretta, suo malgrado, con il marito a lasciare nel giugno del 1944 una Pesaro, oramai “deserta”, e a riparare presso una famiglia di contadini che vive nella campagna di Monteccicardo – indirizzata al figlio, militare in Albania, durante il passaggio del fronte sulla linea Gotica e nelle settimane successive, lasciano intravedere quanto sta accadendo:
“[21 agosto 1944] Oggi, mentre scrivo, il Papà […] è giù nell’aia, sudato e impolverato “batte” (così vogliono i tempi) insieme ai contadini, il suo grano, meglio, dirò il nostro… .
[28 agosto 1944] Dopo una notte penosamente trascorsa nella caverna rifugio in una promiscuità orribile, a stretto contatto di altri corpi di ogni sesso e di ogni età, tra il fragore dei proiettili esplodenti a poca distanza, così che stamane il terreno circostante si è presentato cosparso di
schegge.
[19 settembre 1944] Ora ho faticato a sistemare le nostre librerie salvate dalle ruberie che di migrazione in migrazione, hanno finito per essere collocate nella stalla. Ho frenato a stento le lacrime di dolore nel vedere collocati così i mobili più … spirituali e di rabbia per la ferocia dei contadini che non hanno voluto apprestare un angolo più adatto, mentre avrebbero potuto. Quali altre umiliazioni, quali altre tristezze e privazioni ci attenderanno?” <407
Una domanda quest’ultima che rinvia a quanto accade una volta conclusa la liberazione dell’intera regione, avvenuta nei primi giorni del settembre 1944. Per molti, il ritorno a casa si realizza solo sul piano simbolico. I dati ricordati in precedenza e relativi all’ammontare dei danni materiale e, in particolare, alla situazione del patrimonio abitativo privato, nel periodo immediatamente successivo al passaggio del fronte, lasciano facilmente intuire come molti sfollati al loro rientro nel comune di provenienza trovino la propria abitazione danneggiata o interamente distrutta. Un dramma che non colpisce solamente coloro che risiedono nei centri costieri e nei centri industrializzati, maggiormente colpiti dai bombardamenti aerei e navali; nel pesarese, gli scontri che avvengono lungo la linea Gotica coinvolgono anche i centri minori fino a colpire decine e decine di case coloniche disseminate tra la vallata del Metauro e la vallata del Foglia.
Se Ancona, nel giugno del 1944, a poche settimana dalla Liberazione, appare come una città “morta”, “in ginocchio” <408, con interi quartieri del centro completamente distrutti, Pesaro al momento della Liberazione è una città “deserta” dove buona parte delle case rimaste illese sono occupate dai soldati alleati. Qui, nonostante il blocco dei rientri imposto dal comando alleato per motivi di ordine militare, l’afflusso degli sfollati è da subito imponente (il 9 ottobre vengono censite circa 10.000 presenze) <409. In poche settimane, l’emergenza alimentare, sanitaria e abitativa (i “senza tetto” sarebbero stati oltre 7.000) <410, raggiunge in città livelli insostenibili: una relazione redatta dall’ufficiale sanitario a fine settembre mette in evidenza che i focolai di infezione tubercolare e di febbre tifoide si erano trasferiti dai comuni di sfollamento alla città, dove lo stato di sovraffollamento favoriva sempre più ricorrentemente il contagio; si segnalava inoltre che a causa delle carenze alimentari, i casi di gastroenterite acuta andavano progressivamente aumentando <411.
Ancora nel luglio del 1945, a dieci mesi dalla liberazione della città, la situazione appariva per molti versi drammatica: “La città di Pesaro” – si legge nella relazione del sindaco – “subisce ancora pressoché invariati, i disagi gravissimi dell’occupazione militare alleata: tutta la vasta zona mare è ancora interdetta alla popolazione civile, la quale è agglomerata nel vecchio centro urbano, che maggiormente ha subito i danni della guerra e che, anche in condizioni normali, è il meno adatto ad accogliere un numero così eccessivo di abitanti. Sono molte migliaia le persone le quali da lunghi mesi vivono ammassati in ambienti insufficienti e anti igienici, in una promiscuità degradante, prive della possibilità di soddisfare alle più elementari necessità della vita civile e con pericolo gravissimo per la salute, pericolo che di giorno in giorno va aggravandosi per l’inoltrarsi della stagione estiva. Per la maggior parte si tratta di famiglie che sino dai primi mesi del ’44 sono state costrette a sfollare per varie volte, peregrinando di casolare in casolare senza indumenti, senza masserizie, esposte a enormi disagi e privazioni di ogni genere: si tratta di gente che da oltre un anno soffre pene inenarrabili ed atroci e che ha raggiunto il limite estremo dell’umana sopportazione […]. A questa situazione sconcertante si deve aggiungere che la maggior parte delle case allora abitabili, sono da dieci mesi occupate dalle truppe e che in questo lungo periodo i danneggiamenti di varia natura, le distruzioni di quasi tutte le finestre, delle porte, delle cucine, degli impianti di riscaldamento e di illuminazione hanno resi inabitabili anche la maggior parte di tali case, specie per il periodo invernale, talché oggi l’intiera popolazione di Pesaro non può contare che su di un terzo appena delle proprie abitazioni” <412.
[NOTE]
398 Avb, Fondo S. Severi, Prefettura di Pesaro – Commissione Provinciale di Censura Pesaro. Copia degli stralci della quindicina dal 1 al 15 Gennaio 1944. Stralcio n. 4 16.12.43.
399 Avb, Fondo S. Severi, Prefettura di Pesaro – Commissione Provinciale di Censura Pesaro. Elenco Stralci dal 16 gennaio al 31 gennaio 1944 – XXII. Stralcio n. 4 – 27.12.43
400 L. Segreto, Economia e soietà di una regione in guerra, in La Guerra e la Resistenza nelle Marche, cit., pp. 26-27.
401 Avb, Fondo S. Severi, Prefettura di Pesaro – Commissione Provinciale di Censura Pesaro. Elenco degli stralci quindicinali da 16 febbraio al 29 febbraio 1944. Stralcio n. 12 14.2.44.
402 Testimonianza di Adriana Falana, in M.G. Camilletti, I bombardamenti. L’identificazione del nemico, in M.G. Camilletti (a cura di), Le donne raccontano: guerra e vita quotidiana. Ancona 1940-1945, Istituto Gramsci Marche, I quaderni n.9/10, pp. 71-72.
403 P. E. Comandini, La Grande casa tra l’VIII army e la X armee, Urbino, Quattroventi 1997, p. 37.
404 Adn, memoria di Arianna Ascoli, pp. 17-19.
405 S. Lotti, Donne nella guerra. Strategie di sopravvivenza tra permanenze e mutamenti, in G. Rochat, E. Santarelli, P. Sorcinelli (a cura di), Linea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, cit., p. 324.
406 M.G.Camilletti, Lo spazio-tempo dello sfollamento, in M.G. Camilletti (a cura di), Le donne raccontano: guerra e vita quotidiana. Ancona 1940-1945, Istituto Gramsci Marche, I quaderni n.9/10, pp. 58-61.
407 I. Finzi Bonasera, Lettere dalla “Linea gotica” (1943-1945), selezione a cura di F. Bonasera, Cagli, Edizioni PR 2003.
408 R. Lucioli, Sfollamento, mobilità sociale e sfaldamento delle istituzioni nella provincia di Ancona, cit., p. 64.
409 S. Adorno, Lo sfollamento a Pesaro, cit., p. 294.
410 Ibidem, p. 295.
411 Idem.
412 Citato in S. Adorno, Lo sfollamento a Pesaro, cit., pp. 294-295.
Luca Gorgolini, Un lungo viaggio nelle Marche. Scritti di storia sociale e appunti iconografici dal web, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum Università di Bologna, Anno accademico 2005-2006