Io e Maia Paterna, incontrarsi dopo duemila anni

Gli Scavi archeologici nel complesso demico romano a Nervia dell’attuale Ventimiglia (IM) hanno permesso di evidenziare molte notizie sugli abitanti di Ventimiglia Romana (Albintimilium), ma come spesso accade vi son cose che più di altre attirano, chi per un verso e chi per un altro.

Io rimasi sempre colpito da una lapide molto semplice (qui sopra proposta) dedicata a Maia Paterna, una fanciulla morta a soli 11 anni.

Elio Lentini, Maia Paterna (acciao inox brunito), 2010

Al punto che nell’occasione di un esperimento di interazione tra scultura e letteratura nel contesto di una mostra scultorea di Elio Lentini tenuta presso l’Istituto di Studi Liguri di Bordighera (dell’artista toscano tanto apprezzato, specie dall’illustre critico d’arte e scrittore Antonio Aniante è l’opera scultorea che idealmente precede la lirica [di cui viene proposto il testo più avanti]) a corredo di un’opera d’arte, che sentivo molto vicina alla storia di questa fanciulla volli proporre (in modo del tutto arbitrario, certo) la lunga iscrizione che i genitori avrebbe forse voluto per la figlioletta – se fossero stati estremamente ricchi – in luogo della breve iscrizione su una lapide riutilizzata di cui, non essendo verosimilmente agiati, dovettero accontentarsi.

Attraverso i secoli possono persistere certi indefinibili legami suggeriti da suggestioni ed emozioni che l’esperienza archeologica e museale, fuor di qualsiasi riferimento al paranormale, può sublimare: ed io nel corso della mia attività di ricercatore e di docente – anche per il fatto di risiedere a lungo in prossimità degli Scavi Archeologici e soprattutto del Teatro Romano – ho sempre provato sentimenti vari, di compassione, pietà e può sembrare strano di affetto, per questa fanciulla morta quasi 2000 anni fa.

Da ragazzo ne parlavo spesso coi miei genitori nel contesto di un rapporto profondo ed invidiabile in cui si affrontavano tutti i temi, soprattutto della consonanza degli individui di fronte ai destini terreni a prescindere da spazio, tempo e persino religioni eventuali di appartenenza.

Con il tempo non ha ella smesso di visitare i miei pensieri e qualche volta persino i miei sogni sì che, rielaborandone poeticamente uno molto vivo, scrissi queste due righe poetiche che, banalmente forse, intitolai come qui sotto si legge e sfruttando, lo confesso, il titolo d’una bella canzone di Ron che, meno supponente della lirica qui proposta, ipotizzava (in un contesto peraltro assai diverso) un reincontro a distanza di “cento anni”.

Così prese vita la lirica Io e Maia Paterna, incontrarsi dopo mille anni, che viveva, come ben si intuisce, in sinergia quella che redassi poco prima per il citato esperimento di interazione fra arte e letteratura intitolata Quello che non fu scritto per Maia Paterna, edita e qui proposta.

Sono vestito come uso,
senza eleganza o affettazione,
uno fra tanti: uno degli
spettatori, che s’agitano sotto il sole,
e reclamano le donne di Gades,
quelle che accendono il sangue anche ai vecchi.
Sto diventando vecchio? anch’io son lì,
per scaldarmi nell’illusione d’un sogno
proibito? per prendere il garum e un sorso
di finto Falerno venduto al banco
del decumano, proprio oltre l’accesso?
Vorrei svegliarmi ma non posso,
non so più qual sia la realtà!
Il lustro dell’Impero che celebra se stesso
o questo grigiore di insegnante in pensione?
Suonano trombette di giunchi,
e crotali più o meno originali:
una bestemmia d’un latino che non fu
né di Virgilio né di Marziale desta
alla fine il silenzio, di colpo nulla s’ode più…
Anche le donne di Gades con le nacchere
e le vesti discinte, che mostrano seni
ora vigorosi ora presto appassiti,
per l’età se non per vietati abusi,
mi guardano: tutti mi guardano ora!
Abbasso gli occhi sul pulvino, oltre
il marmo finto ma di pietra nobile.
E vedo le scarpe, un po’ trasandate,
i pantaloni puliti, sbircio sul cadere
della giacca, oramai fuori moda.
Nessuno porta abiti come i miei;
fra strascischi di porpore e zaffiri,
toghe e tuniche paiono adesso intrecciarsi.

E’ un incubo, lo so, del sonno che
mai giunge e se giunge m’inganna!
Ma non mi sveglio, non balzo madido
nel letto: anche questo dono mi è proibito
da Morfeo, il Dio che mi scagliò la guerra.
Di colpo sento caldo dentro la mano,
la mano che sta rattrappendosi:
un’altra più piccola è entrata nell’incavo,
e cerca di scaldarmi o di darmi coraggio:
così credo, anzi spero o voglio sperare!
Non oso voltarmi, ma la voce di bambina
mi attira, mi blandisce, e m’afferra in fine
il cuore e il petto che però non esplodono.
Maia mi guarda, con gli occhi azzurri
dei suoi undici anni: la madre e il padre
nemmeno mi vedono più, come gli altri,
come le donne di Gades che sento cantare!
“E’ tutto così veloce, vero?” dolce è il latino
sulla labbra di Maia, come il miele…..
“Tu mi vedesti un giorno, oltre la lastra,
fredda di marmo: sentivo il tuo dolore
di ragazzo, per lo stame breve della mia vita…
Ed ho pianto ma di breve gioia, sappilo
per il sorriso con cui mi lasciasti,
e per la carezza fatta sul mio nome…
Io guardo ora te…ci siamo incontrati,
e ti ringrazio della compagnia lieve
che mi fece il tuo cuore addolorato!”.
Mi stringe forte la mano e sorride,
ma sento che è triste…d’una dolce tristezza…
Tempus fugit sospira ancora
prima di svanire con ogni cosa,
tutto intorno ….
Sono seduto sul letto….sveglio!
Ogni cosa della vita è così breve
…come un saluto, tra la folla,
come in un teatro di fantasmi.
La vita di Maia, la mia, quella
che tutti vorrebbero invece godere in eterno!
Ma è godere? così! sull’orlo dei dubbi?
e di domande che, da mai, trovano risposta?
Non lo so …. ma forse sì, se con un
sorriso, anche dentro un sogno,
se con una parola, magari in un libro
o graffiata su una pietra,
si è resa migliore la vita degli altri,
anche se son molto lontani da noi ….

Lo so che qualche pomposo e serioso collega, certo più rigoroso di me, dirà “la scienza è scienza: mettiamo da parte i sentimenti” = fermo restando il fatto che, per quanto queste indagini sian scientifiche penso che umanissima debba anzi in fondo solo possa, per intrinseca postazione anche filosofica, esser la lettura di frasi che si suppongono dettate dall’amore (anche se frasi concise come nella lapide reale di Maia Paterna) che, oggi come ieri, è fatto solo umano e non misurabile da alcuna supposta investigazione scientifica. E comunque credo che non sia sbagliato accedere anche emotivamente ai prodotti del passato sì da leggervi in essi non solo i parametri di catalogazione (importantissimi sempre) quanto, cosa di pari se non superiore rilievo, leggervi anche il messaggio che attraverso il tempo uomini e donne dimenticati hanno avuto la sorte di riuscere a tramandare. Se non altro per sentirsi tutti uguali nella condizione umana, come diceva l’antico Terenzio, e non trasformare in semplici reperti le grida di dolore od anche i graffiti d’amore che la grande tradizione epigrafica romana ci ha tramandato.

di Bartolomeo Durante in Cultura-Barocca