La strage consumatasi ai danni dell’inerme popolazione civile presente a Sant’Anna di Stazzema (Lucca) il 12 agosto 1944 per mano di soldati tedeschi appartenenti alla 5ª, 6ª, 7ª e 8ª compagnia del II Battaglione del 35º Reggimento della XVI SS Panzergrenadier Division “Reichsführer-SS”(Battaglione Galler) <1, pur essendo fra i maggiori episodi d’indiscriminata violenza militare perpetrati in Italia durante il secondo conflitto mondiale, fino a qualche anno fà era paradossalmente caratterizzata dalla mancanza di una strutturata memoria pubblica a livello nazionale. Secondo in Italia per numero di vittime coinvolte solo alla strage di Marzabotto/Montesole <2, l’arbitrario massacro consumatosi a Sant’Anna appare infatti avvolto durante la seconda metà del Novecento da un alone di indeterminatezza e oblio, a più riprese inutilmente scalfito dalla perseverante volontà di riconoscimento espressa dalla comunità superstite. Mancano infatti fino all’inizio degli anni Settanta riconoscimenti istituzionali di rilievo <3 e limitate appaiono anche le iniziative pubbliche ad opera dell’amministrazione centrale e periferica volte al sostegno materiale per la ricostruzione del paese e la preservazione della specifica memoria di guerra <4. Pressoché inesistenti – se si escludono alcune opere di memorialistica <5 – si dimostrano invece fino alla metà degli anni Novanta gli studi storici volti ad una dettagliata ricostruzione dell’azione armata, del contesto in cui ne matura la genesi e delle nefaste conseguenze che segnano indelibilmente la vita e la memoria della comunità locale. I procedimenti giudiziari, in cui l’episodio viene segnalato quale capo d’imputazione prima del 2005, appaiono incapaci infine di individuare responsabilità individuali dirette in relazione allo specifico crimine e di codificarne quindi gli avvenimenti a livello legale <6.
La mancanza di memoria pubblica – a livello storico, istituzionale e giudiziario – che per molti anni contraddistingue nell’Italia repubblicana la strage di Sant’Anna, appare ancor più sorprendente in misura della crudeltà e della barbarie che caratterizzano l’evento, anche limitandone la descrizione ai soli elementi essenziali <7. A partire dalle prime ore del mattino infatti il piccolo borgo montano, ubicato sulle Alpi Apuane alle spalle di Pietrasanta a circa 800 metri di altitudine, viene circondato da quattro colonne di soldati equipaggiati con armi pesanti (mitragliatori e lanciafiamme) e abbondante munizionamento. Mentre una prima colonna chiude la via di fuga verso il piano in direzione di Valdicastello, le altre tre colonne raggiungono le varie borgate che compongono il paese rispettivamente da Monte Ornato, dalla strada di Pontestazzemese /Foce di Compito e dalla Foce di Farnocchia fra il Monte Lieto e il monte Gabberi, stringendo l’abitato in una morsa concentrica che via via si chiude verso la piazza della chiesa. I militari giunti da direzioni diverse alle prime abitazioni situate nella vallata di Sant’Anna iniziano a radunare ed incolonnare i civili verso le borgate più interne; una volta raggiunti punti prestabiliti lanciano razzi luminosi per segnalare la propria posizione e danno quindi inizio simultaneamente all’azione armata. Nelle borgate della Vaccareccia, del Colle, dei Franchi, delle Case, di Coletti il rituale è sempre il medesimo: gruppi di civili inermi – composti anche da 30/40 persone – sono rinchiusi nei piani bassi delle abitazioni, colpiti a più riprese dal fuoco delle mitragliatrici posizionate sugli ingressi e dalle bombe a mano lanciate attraverso le finestre. Morti e feriti, dopo una rapida ispezione compiuta dai militari per dare il colpo di grazia ad eventuali superstiti, sono quindi dati alle fiamme appiccando il fuoco agli interi caseggiati. L’apice dell’orrore viene raggiunto sulla piazza della chiesa dove circa 150 persone sono radunate e indiscriminatamente mitragliate: i loro corpi sono quindi bruciati in un’enorme pira umana costruita con le paratie della chiesa nel frattempo saccheggiata; un agglomerato indistinto di corpi che brucia emanando una linea di fumo visibile dal piano per giorni, che diventerà per l’intera Versilia l’immagine simbolo dell’orrendo massacro compiuto a Sant’Anna.
Le vittime sono in prevalenza individui inermi: donne, bambini e anziani. La maggior parte degli uomini abili e in età di leva si allontana infatti verso i boschi circostanti l’abitato ai primi segnali di pericolo, credendo di trovarsi di fronte ad uno dei tanti rastrellamenti di manodopera per il lavoro in Germania o nei vicini cantieri adibiti nella zona alla costruzione delle fortificazioni per la linea Gotica: nessuna delle vittime sembra infatti comprendere a fondo fino all’ultimo l’entità e gli obbiettivi dell’azione a cui si trovano esposti. Per quanto la zona limitrofa al paese si stata nelle settimane immediatamente precedenti teatro di scontri fra le forze militari tedesche e piccoli raggruppamenti di resistenti appartenenti alla Xª Bis Brigata Garibaldi “Gino Lombardi” <8, Sant’Anna di Stazzema non è infatti un paese che si contraddistingue per i suoi legami di solidarietà, parentela o adesione politica espressa verso il movimento di liberazione. Tracce sporadiche della presenza partigiana nei dintorni dell’abitato sono rintracciabili a partire dall’aprile 1944 <9, ma l’attività della Resistenza collegata al paese si riduce a scontri di modesta entità sui monti che circondano l’abitato, ad installazioni temporanee di accampamenti nella zona e, in particolare, alle incursioni condotte nei casolari alla ricerca di cibo – azioni di requisizione forzata che determinano sovente, in contesti montani poveri di risorse alimentari come quello di Sant’Anna di Stazzema, reazioni di esplicita contrarietà da parte della popolazione locale <10.
L’estraneità del paese con le azioni e l’attività partigiana – come ribadisce anche l’ultima sentenza sul caso emessa dal Tribunale militare di La Spezia <11 – amplifica la percezione del carattere arbitrario della strage di Sant’Anna, assommando agli effetti materiali del massacro l’incomprensione del senso della violenza subita. Colpita da un’ampia azione di rastrellamento finalizzata a reprimere il movimento partigiano e la popolazione civile ad esso assimilata, la comunità locale risulta infatti investita da una pianificata azione di “guerra ai civili”, che può essere compresa solo inserendola nel contesto dalle strategie militari tedesche che a partire dalla tarda primavera del 1944 contemplano esplicitamente anche in Italia il diretto e arbitrario coinvolgimento dei civili nelle azioni di controguerriglia antipartigiana, affermando il principio di equiparazione fra nemici armati e popolazione inerme <12.
Relegata dunque nel silenzio soprattutto durante i primi decenni del dopoguerra a causa del complesso quadro interpretativo che la caratterizza, la strage di Sant’Anna è invece in anni recenti tornata di forte attualità imponendosi a più riprese all’attenzione dell’opinione pubblica nazionale. Il barbaro massacro del piccolo paese della Versilia è stato infatti riscoperto all’interno del rinnovato sguardo politico sulla IIª guerra mondiale impostosi dopo il 1989: è stato ufficialmente ricordato e celebrato in occasione del 25 aprile 2000 dal presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi; ed è, in seguito, divenuto oggetto di un procedimento giudiziario dibattuto presso il Tribunale militare di La Spezia nel 2005 – frutto del ritrovamento nel 1994 di documenti d’indagine redatti dagli inquirenti anglo-americani e italiani durante il conflitto e nel primi anni del dopoguerra, ma sottratti alla naturale competenza delle Procure militari territoriali e indebitamente trattenuti presso la sede della Procura generale militare di Roma, dove furono occultati nel 1960 per mezzo di un illegale provvedimento di archiviazione provvisoria <13.
La vera notorietà – che ha reso la strage da un giorno all’altro argomento di dominio pubblico suscitando profonde polemiche sulla stampa italiana – non è però rinviabile al sopravvenuto mutamento delle sensibilità nazionale sull’argomento in campo politico, storico o giudiziario, ma più prosaicamente all’interpretazione dei fatti offerta dallo sguardo del regista americano Spike Lee all’interno del suo ultimo film “Miracolo a Sant’Anna” – che nonostante il titolo suggestivo, riserva in realtà alla storia e alla memoria della strage toscana uno spazio piuttosto modesto all’interno di una più complessiva rappresentazione della IIª guerra mondiale quale guerra totale. La sceneggiatura, tratta dal omonimo romanzo dello scrittore statunitense James McBride, assume infatti quale specifico punto d’osservazione la contraddittoria esperienza dei soldati afroamericani inquadrati nei reparti della 92ª Divisione Buffalo e impiegati durante l’estate del 1944 in Toscana a ridosso della linea Gotica – i primi reparti armati ad entrare in contatto con la popolazione superstite di Sant’Anna di Stazzema. Per quanto il nodo tematico principale del film sia rappresentato dal contrasto fra mito del patriottismo americano votato alla lotta per la democrazia e la libertà e linee di demarcazione che segnano internamente l’esercito statunitense distinguendo fra reparti militari composti da soldati bianchi e da soldati neri e presupponendo quindi livelli diversi di cittadinanza, il film propone una raffigurazione della vita e dell’esperienza soggettiva della guerra sotto ogni aspetto dissacrante. La raffigurazione offerta da Spike Lee – seppur con risultati discutibili – scardina infatti volontariamente ogni semplificante punto di vista preconcetto o ideologico sul conflitto: incrina l’immagine democratica e ugualitaria dei liberatori americani inserendo il tema del razzismo interno, destruttura la monolitica raffigurazione del nemico tedesco sfaccettandone e personalizzando le diverse posizioni, inserisce a pieno titolo i civili quale soggetto di interazione con cui le diverse componenti militari in lotta (compresi i partigiani) sono costretti nella quotidianità dello stato di guerra a confrontarsi. L’intento provocatorio dell’intera operazione cinematografica – che cerca di spiazzare lo spettatore ad ogni cambio di inquadratura, finendo a mio giudizio per realizzare un effetto caotico e ridondante – investe anche l’immagine della strage. Il massacro, inserito all’interno del film come flashback, è infatti raffigurato attraverso l’episodio della piazza della chiesa <14: apice della ferocia espressa dai soldati tedeschi e immagine simbolo, che sintetizza anche nella memoria dei superstiti l’intera strage. Seppur in pochi fotogrammi ed evitando una narrazione lineare dei fatti, Spike Lee contestualizza anche la genesi dell’azione armata offrendo allo spettatore brandelli di spiegazione: da un lato inserisce il tema delle strategie tedesche di “guerra ai civili” – seppur in forma poco convincente e lasciando il dubbio che l’azione sia in origine volta davvero a colpire un nucleo di partigiani armati; dall’altro inventa la figura del partigiano traditore, che per ragioni personali denuncia il paese come base operativa della resistenza armata nella zona.
Per quanto sia comprensibile che quest’ultimo escamotage narrativo abbia urtato in profondità la sensibilità di chi ha combattuto all’interno del movimento di liberazione e ha poi dovuto nel dopoguerra difenderne la memoria dai violenti attacchi di delegittimazione politica che si sono susseguiti negli anni della Repubblica, è assodata nel contesto bellico italiano sia l’esistenza di figure duttili disposte per ragioni o profitto personale a passare da uno schieramento all’altro attraverso il doppio gioco; sia la permeabilità verso l’esterno delle prime formazioni armate partigiane, ancora incapaci di difendersi dalle infiltrazioni e dalle delazioni delle spie locali <15. Per quanto riguarda il contesto specifico di Sant’Anna, non vi sono prove della presenza di una simile vicenda all’origine dell’azione, ma è incontrovertibile che sia proprio la difficoltà di rapporti fra le formazioni partigiane e la popolazione l’elemento che segna nel dopoguerra la memoria della strage. Se da un lato a Spike Lee va quindi riconosciuto il merito di far riemergere dal silenzio la strage di Sant’Anna offrendo al grande pubblico per la prima volta una ricostruzione cinematografica dell’episodio cardine, non si può non ammettere che – pur con un’invenzione narrativa discutibile – il regista colga nel segno quando impietosamente mette in scena la contraddizione che ha orientato per anni le difficoltà di riconoscimento pubblico ed istituzionale dello specifico episodio. Che si avalli o meno gli esiti dell’ardita operazione cinematografica condotta dal regista americano, è interessante notare infine come essa non tocchi (se non collateralmente) la presenza e il ruolo nella strage del collaborazionismo fascista – pur adombrato a più riprese dai superstiti e da alcune indagini giudiziarie <16.
[NOTE]
1 L’ultimo procedimento penale relativo alla strage ha infatti condannato all’ergastolo per “concorso in violenza con omicidio contro privati nemici pluriaggravata e continuata” 9 sottoufficiali inquadrati in questi reparti e presenti a Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto 1944 con funzioni di comando, in qualità di comandanti di compagnia o comandanti di plotone. Fra di essi il reo confesso Ludwig Göring – caporalmaggiore della 6ª compagnia del II Btg. 35º Regg. XVI Divisione SS. Cfr. Sentenza procedimento penale n. 89/02 Sommer +8, Tribunale militare di La Spezia, 22 giugno 2005; Sentenza d’Appello, Corte d’Appello militare di Roma, 21 novembre 2006 – ratificata dalla Prima Sezione penale di Cassazione l’8 novembre 2007.
2 Il numero ufficiale delle vittime riportato nella motivazione della Medaglia d’oro al valor militare concessa in memoria della strage è di 560, tuttavia nuove ricerche compiute da Renato Bonuccelli nel 1994 negli uffici anagrafici di Stato civile del comune di Stazzema propongono come cifra complessiva una stima compresa tra le 370 e le 400 vittime. Cfr. Sentenza procedimento penale n. 89/02 Sommer +8, cit., pp. 104-105.
3 La Medaglia d’oro al valor militare è infatti concessa al Comune di Stazzema in rappresentanza di tutta la Versilia solo il 28 febbraio 1970.
4 Fra i primi riconoscimenti ufficiali di rilievo la proclamazione nel 1970 da parte della Regione Toscana di Sant’Anna di Stazzema “Centro Regionale della Resistenza”.
5 Cfr. A. Graziani, L’eccidio di Sant’Anna, Tip. Beato Giordano, Pisa 1945; D.Orlandi, M. Cancogni, don G. Vangelisti, Sant’Anna 12 agosto 1944, Tip. Tecnografica, Lucca 1945; A. V. Rinnonapoli, Fuoco sulla Versilia, Edizioni Avanti!, Milano 1961.
6 La strage di Sant’Anna di Stazzema figura infatti quale capo d’imputazione sia nel processo contro il feldmaresciallo Albert Kesselring, sia in quello contro il generale Max Simon – entrambi istruiti da corti militari britanniche nel 1947; sia nel processo istruito presso il Tribunale militare di Bologna contro il maggiore Walter Reder nel 1951. Tutti gli imputati chiamati a rispondere del fatto sono però assolti dalle specifiche imputazioni. Sull’intera vicenda giudiziaria relativa all’episodio di strage, cfr. P. Pezzino, Sant’Anna di Stazzema. Storia di una strage, Il Mulino, Bologna 2009.
7 Per una minuziosa ricostruzione della strage costruita a partire dalle memorie dei testimoni diretti, cfr. T. Rovatti, Sant’Anna di Stazzema. Storia e memoria della strage dell’agosto 1944, DeriveApprodi, Roma 2004, pp. 19-44.
8 La Xª Bis Brigata Garibaldi “Gino Lombardi” – composta da 3 compagnie di circa 120 uomini ciascuna – si costituisce sui monti limitrofi a Sant’Anna il 24 luglio 1944. Dopo aver segnalato la propria presenza in una serie di scontri armati sostenuti contro le forze armate tedesche tra fine luglio e l’inizio di agosto, abbandona però la zona dirigendosi verso il Lucchese.
9 Per una precisa ricostruzione delle azioni partigiane sostenute nel territorio limitrofo al paese di Sant’Anna di Stazzema tra l’aprile e l’agosto 1944, vedi: Ivi, pp. 57-73.
10 Cfr. S. Peli, La Resistenza difficile, Franco Angeli, Milano 1999, pp. 35-57.
11 Cfr. Sentenza procedimento penale n. 89/02 Sommer +8, cit., pp. 177 e ss.
12 Cfr. Ivi, pp. 115 e ss. Sugli ordini militari e le fasi di sviluppo delle strategie di guerra tedesche volte all’esplicito coinvolgimento in Italia – in particolare sull’Appennino tosco-emiliano – della popolazione civile disarmata nelle azioni antipartigiane, cfr: M. Battini, P. Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro. Toscana 1944, Marsilio, Venezia 1997; L. Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra ai civili (1943-1944), Donzelli, Roma 1997; G. Fulvetti, F. Pelini (a cura di), La politica del massacro, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2006.
13 Cfr. F. Giustolisi, L’armadio della vergogna, Nutrimenti, Roma 2004; M. Franzinelli, Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Mondadori, Milano 2002.
14 Il massacro avvenuto nella piazza della chiesa, del quale mancavano testimonianze dirette non esistendo superstiti, è stato ricostruito per la prima volta in aula da Adolf Beckert – militare tedesco presente sul luogo il 12 agosto 1944 – nell’udienza del 10 novembre 2004 del processo dibattuto presso il Tribunale militare di La Spezia. Cfr. Sentenza procedimento penale n. 89/02 Sommer +8, cit., pp. 40-45.
15 Cfr. M. Franzinelli, Delatori. Spie e confidenti anonimi: l’arma segreta del regime fascista, Mondadori, Milano 2001, pp. 197- 308.
6 Sull’ipotesi di collaborazionisti italiani coinvolti nella strage e di supposte denunce fasciste a carico del paese inoltrate ai comandi tedeschi, cfr. Rapporto giudiziario del maresciallo Vannozzi, Stazione dei Carabinieri di Stazzema, 22 luglio 1946, in Sentenza procedimento penale n. 89/02 Sommer +8, cit., pp. 82-83; Rapporto del commissario Cecioni, Commissariato di PS di Viareggio, 5 marzo 1950, ivi, pp. 89-90; Rapporto del vice commissario Vito Majorca alla Procura presso la Corte Strardinaria d’Assise di Lucca, Commissariato di PS di Viareggio, 20 agosto 1946, ivi, pp. 108-109.
Toni Rovatti, La riscoperta della strage di Sant’Anna di Stazzema, Giornale di Storia, 2009
Sino all’entrata in vigore del trattato di pace, il 15 settembre 1947, il governo italiano provò, insomma, a giocare una partita su due tavoli: con gli alleati, evitando di consegnare Roatta, Robotti, Magaldi, Sorrentino e tutti gli altri generali sospettati di crimini di guerra, sino ad ottenere il riconoscimento a poterli giudicare direttamente (nonostante che il trattato di pace, all’articolo 38, prevedesse il contrario), e procedendo invece all’insabbiamento dei procedimenti penali; e con la Procura generale militare italiana, che il governo formalmente sollecitava contro gli stessi militari italiani, ma sostanzialmente invitava a dilazionare le iniziative processuali e a raccogliere semmai prove contro i crimini di guerra commessi dagli jugoslavi durante la guerra civile, al fine di contrastare la richiesta del governo del maresciallo Tito di processare gli alti ufficiali italiani <43. Nel maggio del 1947 fu addirittura trasmesso un comunicato ufficiale del governo italiano annunciando che il linea di principio ogni Paese aveva diritto di giudicare i propri cittadini accusati di aver commesso crimini di guerra. Ma poiché in Germania mancava un governo capace di esercitare tale diritto, si era «reso necessario» che la Magistratura italiana provvedesse a tale giudizio «secondo le norme vigenti del diritto italiano» <44. Anche se a rilento però, la macchina della giustizia italiana era ancora in movimento. Già a fine 1945, il procuratore generale militare Borsari, aveva scritto direttamente alle autorità alleate per avere notizie sulle generalità degli incriminati per crimini di guerra. Egli fece anche presente che
si erano costituiti vari comitati, come quelli di Sant’Anna di Stazzema e di Marzabotto, che desideravano costituirsi parte civile nel processo di Venezia contro il feldmaresciallo Kesselring. Ma la richiesta non venne accolta dal tribunale britannico, che era formato anche da alti ufficiali statunitensi. Borsari intanto, prosegue a portare avanti le istruttorie delle tante inchieste, facendo formare per ognuna di queste un relativo fascicolo con tutte le indicazioni possibili: luogo e data degli eccidi, numero e generalità delle vittime, segnalazioni di eventuali testimoni, rapporti dei carabinieri o delle autorità militari alleate. Inoltre, su un grande registro che va dal numero 1 al 2.274, fa annotare gli elementi essenziali <45. Nel giugno del 1947 lo stesso Borsari, incontrandosi con un alto funzionario del Ministero degli Esteri, G. Castellani, annuncia che i processi stanno per essere celebrati. Ma di questi, quasi nessuno avrà un futuro. Infatti, non più di una decina di processi a carico di criminali nazisti verranno celebrati in Italia <46.
[…] Il generale Max Simon <82, nella dichiarazione spontanea rilasciata il 22 novembre 1946, quando era prigioniero di guerra (dichiarazione acquisita all’udienza del 3 novembre 2004 sempre sul processo riguardante Sant’Anna di Stazzema), ha specificato che anche per le battaglie contro i partigiani esistevano regolamentazioni precise. Tra queste vi è quella che escludeva l’uccisione dei catturati, da inviare, invece, alle Corti o alla Corte Marziale per essere processati <83, nonché quella, relativa alla popolazione, secondo cui donne e bambini dovevano essere lasciati liberi, a meno che non fosse evidente una qualsiasi partecipazione al combattimento <84. Queste disposizioni erano tutte ben conosciute dal personale, perché contenute nel Manuale del Servizio Militare “Comando e Battaglia” (“Fuehrung und Gefecht”), capitolo sulla guerriglia (Kleinkrieg), e nel “Manuale Speciale per la battaglia contro i partigiani”, cui si aggiungevano numerose disposizioni delle varie autorità di comando. I princìpi fondamentali ricavabili da tali fonti erano, infine, contenuti nel “Quaderno della Battaglia contro i Partigiani”, che lo stesso Simon sembrò ricordare come costituente allegato del libro paga di ogni soldato.
[…] Nella sentenza su Sant’Anna di Stazzema del 22 giugno 2005 si approfondì ulteriormente il punto della responsabilità individuale ricordando che anche l’ufficiale delle SS Max Paustian, collaboratore di Simon, nella dichiarazione rilasciata nel corso del dibattimento celebrato a Padova a carico di quest’ultimo, pur ammettendo di conoscere l’ordine principale e le direttive di Kesselring per la lotta ai partigiani, ammise di sapere che, anche nell’eventualità fossero state disposte contromisure nei confronti di questi ultimi, avrebbero dovuto comunque essere risparmiate donne e bambini, perché non avevano nulla a che vedere con i partigiani.
[NOTE]
43 Filippo Focardi, “La questione della punizione dei criminali di guerra in Italia dopo la fine del secondo conflitto mondiale”, op. cit., p. 60.
44 Filippo Focardi, “La questione dei processi ai criminali di guerra tedeschi in Italia: fra punizione frenata, insabbiamento di Stato, giustizia tardiva (1943-2005)”, in Annali dell’Istituto La Malfa, marzo 2006.
45 Franco Giustolisi, “L’Armadio della vergogna”, Nutrimenti, Roma 2004, p. 39
46 Pier Paolo Rivello, “Lacune e incertezze negli orientamenti processuali sui crimini nazifascisti”, in “Giudicare e Punire” di Luca Baldissara e Paolo Pezzino, op. cit. p. 263.
82 Max Simon, fu un ufficiale delle SS. In Italia comandò la Divisione Waffen-SS “Reichsführer” dall’ottobre 1943 all’ottobre 1944. Fu condannato a morte dal Tribunale militare inglese di Padova per la complicità nei massacri di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema. La pena fu commutata subito in ergastolo e fu spedito a scontarla in Germania. Ma come molti altri fu liberato nel 1954. Morì nel 1961.
83 P. 5 della dichiarazione di Max Simon.
84 Ibid. p. 8.
Marco Conti, Profili giuridici e problemi storici dei processi per i crimini di guerra nazisti nell’Italia del 1943-1945, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2008-2009
Come dichiara Michele Battini in un altro saggio dello stesso volume, le conseguenze di una simile condotta bellica ricadranno su vecchi, donne e bambini che verranno trattati alla stregua di nemici armati, venendo così «a cadere qualsiasi distinzione tra i combattenti e i non combattenti e tra la sfera militare e la sfera civile» <32.
Una volta rimossa la differenza tra il nemico e il fuorilegge, da parte dell’invasore non rimaneva altro che la pretesa della resa incondizionata, nel totale dispregio delle norme sancite dalle convenzioni internazionali. Per Pezzino, fu proprio a causa dell’assimilazione civili inermi-partigiani, oltre che della difficoltà per i tedeschi di catturare i veri combattenti tra i boschi e le montagne dove essi solitamente trovavano rifugio, che «le azioni antipartigiane assumevano l’aspetto di rappresaglie contro la popolazione» <33.
Per lo SS-Sturmbannführer Walter Reder che aveva alle spalle esperienze di lotta alla guerriglia partigiana sul fronte orientale, la violenza sui civili non rappresentava altro che la conseguenza incidentale delle azioni militari vere e proprie. Difatti Pezzino individua in alcune stragi naziste come quelle di Vinca, Monte Sole e Sant’Anna di Stazzema, un dispiegamento dei reparti tedeschi caratteristico delle azioni militari tradizionali, come confermerà lo stesso autore nell’opera “Sant’Anna di Stazzema. Storia di una strage pubblicata” nel 2008 e dedicata all’analisi del maggiore tra i massacri avvenuti in Toscana. Ma in altre occasioni sia Reder che il generale Peter Eduard Crasemann, responsabile della strage del Padule di Fucecchio, dichiararono che, nonostante l’apparente innocenza, anche donne e bambini ebbero parte attiva negli agguati alle truppe tedesche. È evidente quindi che in realtà la rappresaglia sui civili veniva applicata come punizione per l’aiuto dato alle bande <34.
Un’altra testimonianza importante è rappresentata dalla diffusione, alla fine del 1944, del documento intitolato Bandenkampf in der Operationszone Adriatisches Küstenland scritto dal corrispondente di guerra delle SS dottor Hans Schneider-Bosgard, con il quale, dopo aver puntualizzato che gli eserciti e i comandi militari nemici avrebbero abbandonato da tempo le normali regole di guerra per adottare i metodi sleali e disonorevoli della guerriglia, egli giustificava la rappresaglia da parte della Wehrmacht come un indispensabile criterio difensivo <35. Il documento citato da Pezzino non rappresenta che la sintesi teorica di quanto era già avvenuto e stava avvenendo nel corso della ritirata verso nord: una costellazione di stragi che sia Kesselring che Reder giudicavano come la necessaria e ineluttabile risposta alla sleale guerriglia partigiana. La responsabilità dei massacri quindi, incidentale o determinata dalla rappresaglia, per gli ufficiali tedeschi sarebbe stata da attribuire solo ed esclusivamente all’utilizzo cinico di donne e bambini da parte dei partigiani, nel contesto di una lotta armata contro le regolari truppe germaniche irrispettosa di ogni regola d’onore. Sotto questo punto di vista l’aggressore diventa vittima ed esercita solo a scopo di legittima difesa la violenza sui civili, divenuti a loro volta aggressori o quantomeno complici di banditi e criminali. Una tesi questa che gli esecutori delle stragi utilizzeranno a piene mani come linea di difesa nei processi del dopoguerra.
Gli ordini della Wehrmacht mirati al contrasto della guerriglia partigiana, ma che prevedevano direttamente o indirettamente anche misure a carico della popolazione, non possono che dimostrare per Pezzino quanto la violenza sui civili facesse parte integrante della strategia di occupazione e di difesa del territorio da parte dei nazisti; una vera e propria «politica delle stragi» di cui si resero conto anche le truppe angloamericane nel risalire la Penisola. Un esempio di legittimazione dell’eccesso di violenza è rappresentato dal famigerato «bando Kesselring» del 17 giugno 1944 in base al quale la garanzia dell’immunità per aver esagerato con le misure repressive veniva promessa dalla più alta carica militare della Wehrmacht in Italia direttamente a ufficiali e truppa.
Sebbene il bando circoscrivesse la non punibilità alle violenze perpetrate in occasione di operazioni contro i nuclei partigiani, questo e altri ordini simili, in soldati ormai avvezzi alla violenza più estrema e in truppe stanche e preoccupate dall’esito infausto della guerra, incentivarono lo stragismo e la rappresaglia indiscriminata anche nelle situazioni in cui non vi era alcuna relazione con l’attività resistenziale. Anzi, analizzando 214 eventi tra stragi (5 o più vittime) ed eccidi (da 2 a 4 vittime) avvenuti in Toscana, Pezzino ha riscontrato che solo il 19,3 per cento furono attuati in risposta ad azioni partigiane, cioè vera rappresaglia. Per il restante ottanta per cento si tratterebbe di uccisioni avvenute in occasione di rastrellamenti, evacuazione e deportazione di cittadini, oppure per ragioni tattiche e di controllo del territorio. Un altro dato saliente riportato dallo storico pisano è che il 39,3 per
cento dei massacri coinvolse donne, anziani e bambini, a ulteriore dimostrazione che nel caso di molti degli eccidi e delle stragi si sia trattato “di operazioni sulla carta rivolte contro i partigiani, che si configurano in realtà come azioni terroristiche di ripulitura del territorio, veri e propri massacri di tutti coloro che venivano trovati all’interno dell’area delimitata come quella da «bonificare», a priori considerati «partigiani», il cui sterminio, anche se neonati o anziani infermi, era programmato prima della strage”. <36
Il significato di questa terrificante proporzione verrà approfondito in un recentissimo lavoro (2016) curato da Pezzino insieme a Gianluca Fulvetti “Zone di guerra, geografie di sangue. L’atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia (1943-1945)”, un’opera che completa un importantissimo progetto di ricerca del quale tratterò più avanti.
Pezzino cita, come Battini, gli investigatori inglesi i quali giunsero alla conclusione che il fenomeno stragista faceva parte di una deliberata condotta bellica che risentiva delle precedenti esperienze sul fronte orientale e che mirava alla completa sottomissione della popolazione italiana. Inoltre l’autore rileva che, mentre in alcuni episodi la ferocia nazista si riversò solo sulla popolazione maschile, in altri non fu fatta alcuna distinzione né di genere né di età, soprattutto da parte di reparti speciali imbevuti di radicato razzismo e culto della violenza come la divisione «Hermann Göring» e la XVI Divisione corazzata granatieri SS.
Malgrado gli ordini e le direttive dei comandi tendenti a inasprire la repressione sui civili, non vi fu uniformità nei comportamenti dei reparti germanici. In alcuni casi la repressione fu di portata limitata, in altri invece l’azione terroristica si dispiegò ben al di là degli ordini ricevuti, e questo da parte soprattutto dei reparti speciali comandati dagli ufficiali provenienti dall’esperienza brutale sui fronti orientali, oltre che da ambienti profondamente politicizzati.
[…] Per Fulvetti si è reso necessario prevedere un’ultima categoria, quella delle stragi eliminazioniste, per identificare quelle che apparentemente si manifestano come «quasi senza senso, prive di una qualsiasi razionalità strategica» <51. Questa caratteristica può esser rilevata nelle stragi di Vinca, Sant’Anna di Stazzema e del Padule di Fucecchio. Iniziate come operazioni antipartigiane o di ripulitura del territorio, esse si scatenarono in seguito in vere e proprie azioni di sterminio dell’intera popolazione.
[NOTE]
32 Michele Battini, I meccanismi della repressione. La responsabilità fondamentale della «Wehrmacht», in Battini, Pezzino, Guerra ai civili, cit., p. 212.
33 Paolo Pezzino, Sant’Anna di Stazzema. Storia di una strage, Il Mulino, Bologna 2008, p. 125.
34 Cfr. Pezzino, Guerra ai civili, in Baldissara, Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra, cit., pp. 11-13.
35 Cfr. Pezzino, Guerra ai civili, in Baldissara, Pezzino (a cura di), Crimini e memorie di guerra, cit., p. 9.
36 Paolo Pezzino, Atlante delle Stragi Naziste e Fasciste in Italia. Episodio di Sant’Anna di Stazzema 12 agosto 1944, Scheda monografica 2016, www.straginazifasciste.it.
51 Fulvetti, Le guerre ai civili in Toscana, in Fulvetti, Pelini (a cura di), La politica del massacro, cit., p. 23.
Livio Marchi, La violenza nazifascista sui civili. Ricerche, soluzioni interpretative e comparazioni, Tesi di laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2016-2017