La presenza di dromedari e cammelli, poi, sembrava aver trasportato in Friuli un lembo di Russia asiatica

Gemona del Friuli (IM). Fonte: Wikipedia

Lo scopo primario della Resistenza fu senza dubbio la lotta contro il nazifascismo. Quando, come conseguenza dell’armistizio, i tedeschi scesero in forze dall’Austria e dalla Germania e occuparono in modo capillare il territorio italiano, alla popolazione non restò che combattere con tutte le proprie forze per la cacciata dell’invasore. I partigiani, quindi, si ritrovarono a dover affrontare non solo un esercito forte, organizzato e ben equipaggiato come quello tedesco, ma anche tutta la schiera di coloro che avevano fatto la scelta della Repubblica di Salò. In Friuli poi, gli appartenenti alla Resistenza dovettero guardarsi anche dai cosacchi e questa fu certamente una particolarità che riguardò il nostro territorio e segnò in modo indelebile la memoria delle intervistate.
E’ interessante quindi vedere come fu vissuto, da parte delle donne partigiane, il rapporto con il nemico. Di episodi cruenti, tragici e violenti di cui si resero protagonisti i nazisti durante la loro occupazione è costellata, purtroppo, tutta la storia della seconda guerra mondiale e i racconti delle protagoniste friulane non si distaccano di certo. Il ricordo dei tedeschi, senza grosse distinzioni tra SS, Wehrmacht o altri reparti, è quasi sempre legato a termini come cattiveria, sadismo, brutalità e spietatezza.
Fidalma Garosi ripensando a quei momenti dice:
“Anche perché i tedeschi quando andavano in azione erano bestiali, erano proprio una cosa micidiale, forse gli davano anche qualcosa. Massacravano a tutto andare donne e bambini, non c’era via di scampo.
Per esempio noi eravamo terrorizzati perché tutto dipendeva da cosa gli rigirava nella testa, perchè potevano venire lì e spararti in testa, magari per dirti buongiorno ti sparavano. Ne abbiamo trovati tantissimi in Carnia morti con una pallottola in testa morti senza nessuna ragione, che poi bisognava andarli a recuperare”. (p.222)
Anche Mafalda Nadalin si esprime così:
“Negli ultimi giorni prima della liberazione, poi, qui c’è stata una gran confusione perché i tedeschi che si ritiravano uccidevano tutti quelli che trovavano sulla strada.
I tedeschi si vendicavano spesso e anche qui a Terzo hanno ucciso sei giovani in una strada di campagna. Io li ho visti e so anche che uno di quelli non era morto ed ha avuto il coraggio di trascinarsi fino nel centro abitato. Ha bussato disperatamente alle porte di una casa, ma nessuno gli ha aperto per paura di rappresaglie tedesche. Così è stato tutta la notte a piangere ed a lamentarsi nella stalla, e la mattina, quando i padroni di casa sono arrivati con il medico, lui era già morto. Aveva vent’anni”. (p.244)
L’odio verso l’occupante si riscontra in varie testimonianze, come nel racconto di Lida Lepre che era obbligata ad avere contatti con uno di loro per farsi dare i lasciapassare:
“Qui a Rigolato non c’erano i tedeschi, erano di stanza soltanto a Sappada, dove c’era una caserma di SS e a Comeglians, dove c’era un tedesco da solo che faceva i permessi per poter andare a Tolmezzo o a Udine.
Quando andavo là lui era sempre tutto sorridente e mi chiamava “belle gambe” e io dovevo fare buon viso a cattivo gioco, sorridendogli, facendo l’ingenua e dentro di me pensavo “stai zitto brutto porco schifoso”.” (p.237)
Anche nel racconto di Orsolina Angeli, che ha vissuto la deportazione in un campo di lavoro come prigioniera politica, emergono ovviamente forti risentimenti:
“Avevamo una Lagerführerin che era così cattiva, ma così cattiva che non si può neanche spiegare, si chiamava Angela ma era un diavolo di donna, proprio una di quelle tedescacce, con quegli stivali e quella divisa da SS.
Forse è per questo che pur capendo il tedesco, non l’ho mai voluto imparare, neanche una parola. Anche adesso quando passeggio per Cividale e mi imbatto in quelle corrierate di turisti tedeschi, cerco sempre di superarli velocemente perchè non posso neanche sentire quel suono duro della loro lingua”. (p.136)
Speso però le donne riescono ad avere una parola di pietà verso il singolo che magari vedono giovane, quasi vittima egli stesso della guerra.
Sempre “Gianna” ricorda:
“D’altronde i tedeschi dovevano salvarsi ed era già difficile per loro, poveretti.
Dico poveretti perché c’erano tra loro anche molti giovani e se parlavo con uno di loro singolarmente, a me faceva pena.
Uno parlava di sua moglie, dei suoi bambini, della sua casa che non sapeva se la ritrovava ancora, insomma non so se in quel momento avrei sparato al tedesco e dire che il mio lavoro l’ho fatto per colpire i tedeschi! È un controsenso anche perché trattare con il singolo e diverso che pensarli tutti insieme”. (p.222)
La visione dei fascisti è invece leggermente diversa: mentre dei tedeschi le donne avevano paura perchè li sapevano capaci di violenze inaudite, i repubblichini godevano di scarsa reputazione ed erano temuti più perchè spie e collaboratori dei tedeschi.
Rosina Cantoni definisce “tre o quattro stupidi fascistelli” i primi che la interrogano in carcere prima di affidarla ai tedeschi.
Spesso i repubblichini erano giovani, se non giovanissimi ed anche per questo si comportavano da sbruffoni e arroganti, soprattutto se armati, tant’è che venivano ripresi dagli stessi superiori.
A questo proposito è emblematica la testimonianza di Orsolina Angeli:
“Mi ricorderò sempre un episodio. Vicino a casa mia c’era sempre una postazione di fascisti. In quegli anni uscivano i primi numeri di “Grand Hotel” , ma non lo si comprava, lo si passava di mano in mano, di famiglia in famiglia dopo che lo si aveva letto.
Io prima leggevo il giornale e poi mettevo dentro le stellette e le portavo così alla signora Del Fabbro. Non era una cosa così strana veder andare in giro una ragazza con un giornale sottobraccio, perché quella volta tutti si scambiavano i giornali.
Un giorno passando davanti a questa postazione di fascisti, ero con Ines e i due bambini, un ragazzetto fascista che avrà avuto non più di sedici anni, un cattivo ragazzo di nome Rodolfo, mi strappò da sotto il braccio il giornale.
Lui l’aveva fatto solo per farmi un dispetto, ma se cadevano per terra le stellette o lui apriva il giornale, io ero morta.
Così, con una presenza di spirito che ancora non so da dove mi fosse nata, gli ho strappato di mano il giornale e con tono minaccioso gli ho detto: “ricordati bene che prima di fare una roba del genere tu mi devi chiedere, se io te lo voglio prestare te lo presto, altrimenti no. Adesso lo leggo io e quando avrò finito se avrò voglia te lo presterò”.
Lui non ha fatto neanche una piega, anche perché un altro fascista un po’più anziano che era lì gli ha detto: “vieni qua, che non hai neanche i peli della barba e sei così cattivo e ti comporti così male con le ragazze. Vergognati!”.” (p.135)
Carla Cosattini, invece, non fa alcuna distinzione tra fascisti e tedeschi:
“Noi eravamo così sicuri di lottare per quello che era giusto che gli altri, quelli che avevano fatto la scelta della Repubblica di Salò, erano considerati veramente nemici, alla pari dei nazisti: io non ho mai avuto la capacità di considerarli in altro modo.
Spesso si dice che c’era incertezza su chi avrebbe vinto la guerra, ma io so per certo che a noi sembrava impossibile non vincerla, non si sapeva in quanti sarebbero sopravvissuti a questa tragedia, però si era talmente sicuri di essere nel giusto che non potevamo perdere: sarà stata anche presunzione ma era così.
Poteva esserci qualche caso di giovane che trovatosi allo sbando ha ritenuto coerente andare con la Repubblica di Salò, d’altronde i giovani erano stati lasciati soli e penso che qualcuno possa essere anche stato preso magari perché ingenuo, però ci sono stati anche i giovani e giovanissimi che hanno fatto la scelta opposta e hanno saputo farla. Comunque come hanno saputo fare la scelta giusta alcuni giovani, che magari non erano neanche di famiglia di sinistra, forse anche lì c’è stato qualcuno che si è trovato ingenuamente, però io credo che una scelta sia stata fatta comunque e da tutti.
E quelli che sono andati con la Repubblica Sociale hanno fatto una scelta, anche perché i fascisti erano cattivi e anche sotto casa dei miei, in via Cairoli, non c’erano mica sempre i nazisti, molto spesso c’erano i fascisti, che facevano tutto quello che gli veniva ordinato: torturare, picchiare, incarcerare”. (pp.186-187)
Una visione diversa è riservata agli austriaci. Essi venivano considerati più buoni rispetto ai tedeschi, forse a causa della loro situazione di “annessi”, forse perchè visti come vicini di casa.
Rosina Cantoni dice:
“Poi mi ha fatto l’interrogatorio un austriaco che era anche abbastanza gentile e ho avuto fortuna perchè mi ha mandata subito in Germania. Fortunata perchè se mi capitava l’altro tedesco che di solito faceva gli interrogatori, quello non ti faceva neanche arrivare in Germania perchè ti massacrava di botte prima. (p.165)
Lucia Baldissera, poi, racconta di un episodio veramente particolare:
“Lì da noi, a Gemona, c’erano gli austriaci, che non erano così cattivi come i tedeschi, stavano sempre con loro, ma venivano trattati non tanto meglio di noi. I tedeschi erano proprio cattivi, cattivi, perché li avevano “tirati su” cattivi e avevano il cervello fissato sulla cattiveria e facevano proprio paura, ma se trovavi gli austriaci erano gentili e alla fine gli italiani hanno anche dato loro una mano.
Per esempio quando i tedeschi si sono ritirati hanno lasciato lì un gruppetto di austriaci, a Montenars, tutti armati, pieni di mitragliatrici e di fucili, ma senza cibo. Saranno stati sei o sette ed erano così spaventati perché erano a metà strada tra un paese e l’altro e non si azzardavano a muoversi per andar a prendere il cibo e morivano di fame. La gente allora dopo un po’ si è chiesta: – Ma questi sono lì da soli senza mangiare? – e così alla fine gli hanno portato la polenta e altre cose. Ti facevano anche pena.
E poi li abbiamo accolti anche nel nostro fienile e dopo aver parlato un po’ con loro abbiamo scoperto che erano austriaci che abitavano subito al di là del confine. Così alcuni giovani del paese li hanno accompagnati su per le montagne e riportati a casa. Quando c’è stato il terremoto del ’76, a Montenars sono arrivati da quei paesi dell’Austria, dove c’era qualcuno che si ricordava di quel gesto, con non so quanti camion con tutte le casette prefabbricate di legno: ne hanno costruite un bel po’!
E poi ogni anno venivano a fare la festa, era molto bello!” (p.143)
Il nemico che però impressionò maggiormente la popolazione friulana e che fu una particolarità del nostro territorio furono i cosacchi. Essi giunsero nell’estate del 1944, quando lo stesso Himmler autorizzò l’insediamento delle popolazioni cosacche nell’Italia del Nord, in Friuli. Sulla scia delle forze tedesche entrarono infatti in Carnia ben 18.000 soldati russi raccolti in due divisioni. Essi, seguendo un progressivo piano di occupazione, presero possesso, presidiandoli, dei vari paesi carnici che la popolazione impaurita aveva inizialmente abbandonato per fuggire sui monti. La Carnia diventò il “Kosakenland” precedentemente promesso dai comandi tedeschi alle truppe mercenarie russe, in cambio di un’energica repressione del movimento partigiano della zona. La loro funzione di semplici truppe di copertura della Wehrmacht era palese, se si considerava l’azione di sorveglianza e controllo delle linee ferroviarie, dei valichi e delle arterie di comunicazione più importanti.
La lusinga nazista di una ricca terra promessa, di una piccola futura patria ove potersi definitivamente stabilire, attirò in Carnia migliaia di illusi, dopo peregrinazioni di tre anni attraverso la Polonia, l’Ungheria, la Germania e l’Austria. Essi entrarono nelle valli carniche non con l’aspetto di una temporanea occupazione militare, ma con la convinzione di un forte diritto di proprietà acquisito. A questo proposito, i cosacchi si dimostrano subito nei confronti degli abitanti locali, violenti, baldanzosi ed estremamente prepotenti. <81
Ai gruppi armati dei cosacchi inquadrati nei vari reparti (costituiti perlopiù da squadroni di cavalleria) faceva seguito una lunga colonna di carri ove trovavano posto donne, bambini e vecchi: quasi a significare una vera e propria trasmigrazione di popolo. L’impatto con la popolazione friulana fu abbastanza traumatico: colpirono i costumi, gli atteggiamenti, le usanze di popoli così diversi che vennero sbrigativamente denominati “mongui” (mongoli), per i tratti somatici presentati da alcuni gruppi etnici.
Mafalda Nadalin descrive così l’incontro con una carovana dei cosacchi che attraversava la città di Aquileia:
“Loro passavano con i cavalli, carri, altri animali, donne, bambini e tutto quello che riuscivano a sequestrare durante il loro passaggio, ma nessuno di loro sembrava accorgersi di me.
Solo uno, vestito con un cappotto lungo, scarpacce, piccolo, brutto, nero, intanto che passava continuava a fissarmi. Io sono rimasta lì ferma e loro pian piano sono andati via, certo che avranno pensato anche loro: “ma guarda quella stupida lì, chissà chi è, lì fuori da sola a guardare.”” (p.244)
Anche Wanda Zanutti insiste sulla strana fisionomia degli occupanti:
“A vedere i cosacchi si prendeva proprio paura: erano alti, brutti e mal vestiti, sembravano dei selvaggi.
Quando ti arrestavano era meglio non rimanere troppo tempo sola con loro perché non si sa mai quello che poteva succedere, era sempre meglio dire che si voleva parlare con il comando tedesco, allora loro non si impicciavano più”. (p.262)
Gli usi e i caratteristici costumi propri di questa gente nomade si manifestavano maggiormente nei loro canti e nelle loro tradizioni religiose che però non venivano compresi o tuttalpiù considerati pittoreschi e antiquati dalla popolazione friulana. La presenza di dromedari e cammelli, poi, sembrava aver trasportato in Friuli un lembo di Russia asiatica. <82
Ornella Fabbro ricorda così una notte trascorsa a Cludinico [Frazione del comune di Ovaro (UD)]:
“L’oste mi consegnò una camera gelata, con un grande letto ed un grande piumino. C’era una stufa di terracotta, però non era accesa, c’era la legna ma io ero tanto stanca che andai subito sotto le coperte. Mi addormentai subito!
Durante la notte sentivo un dolce canto, credevo di sognare, mi svegliai e mi resi conto di dove mi trovavo. Balzai dal letto e andai alla finestra: mi si presentò uno spettacolo incredibile.
I cosacchi in un grande spiazzo bianco di neve avevano acceso un fuoco e in un grande cerchio attorno alla fiamma cantavano una melodia nostalgica, di speranza, di preghiera.
Sembrava che questo loro canto volesse arrivare ai loro cari in Russia, dove forse pensavano di non poter ritornare, essendo disertori per aver seguito i tedeschi.
La luna illuminava questa valle bianca circondata dalle montagne, sulle quali si spandeva questo canto nostalgico. In quel momento sentii tanto struggimento per la loro disperazione nella preghiera, che mi venne in mente il coro del Nabucco e mi sentii unita a loro, al loro canto, alla loro speranza.
Mi sentii vicina a loro, in quel momento li sentii esseri umani, invece l’umano sentire sarebbe venuto meno l’indomani quando assieme ai tedeschi, nei rastrellamenti, nei posti di blocco, nelle persecuzioni, essi ci avrebbero terrorizzati. Questa è la guerra!” (pp.202-203)
[NOTE]
81 F. Vuga, La zona libera di Carnia e l’occupazione cosacca, Del Bianco, Udine 1961, pp.119-122
82 P. Stefanutti, Quando il Friuli diventò terra cosacca, in “Patria indipendente”, 23 giugno 2002
Eleonora Buzziolo, Partigiane in Friuli: storia e memoria, Tesi di laurea, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2003-2004