La teoria della modernizzazione fu il prisma attraverso il quale, negli Stati Uniti di Kennedy, si guardava ai paesi del cosiddetto Terzo Mondo

La preoccupazione principale del gruppo di esperti vicini alla presidenza Kennedy era la politica estera. Il primo problema che gli Stati Uniti dovevano affrontare riguardava, come si è visto, l’approccio più adatto da tenere nei confronti del processo di decolonizzazione in atto in Africa ed in Asia; il secondo, in parte connesso al primo, era dato dalla convinzione che lo scontro bipolare stesse procedendo a favore dei sovietici sia sul terreno ideologico che su quello militare. Kennedy stesso, durante la campagna elettorale, fu tra i primi sostenitori del cosiddetto “missile gap”, cioè del presunto vantaggio che l’URSS stava ottenendo nella corsa agli armamenti nucleari. Ad amplificare i timori statunitensi sull’espansione sovietica si aggiunsero l’evoluzione politica cubana, dove i leader della rivoluzione Fidel e Raùl Castro, che insieme con Ernesto “Che” Guevara avevano spodestato la dittatura di Fulgencio Batista, si avvicinavano sempre più al modello socialista sovietico. In Medio Oriente, poi, il presidente egiziano Nasser, da subito incline a utilizzare a proprio vantaggio lo scontro tra Stati Uniti e URSS, decise di definire l’Egitto un paese socialista. Tanto nell’opinione pubblica quanto nel mondo politico statunitense si era diffusa la convinzione che fosse necessario e urgente mettere in piedi strumenti efficaci a contenere l’espansione della forza sovietica e del comunismo. Fu allora che si affermarono le “teorie della modernizzazione”, un insieme di approcci diversi che miravano a indicare la via per il raggiungimento dello stesso risultato, ossia quello di accompagnare i paesi arretrati economicamente sul cammino della modernità: secondo gli intellettuali che la elaborarono, le società (modulate sulla concezione organica suggerita da Talcott Parsons in ‘The Structure of Social Action’ del 1937 <124) si dividevano in «moderne» e «arretrate», così definite sulla base di criteri socio-economici e politici universalmente validi.
Per passare dallo stato dell’arretratezza a quello della modernità, era necessario attraversare vari stadi intermedi, o «stadi dello sviluppo», secondo la definizione dell’opera fondamentale di Walt Rostow ‘The Stages of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto’. Rostow riteneva che tutte le società industriali, data la neutralità dei mezzi tecnici utilizzati, avessero affrontato i medesimi gradini dello sviluppo economico, indipendentemente dalle differenze storiche, culturali o geografiche. Il compimento dello sviluppo le avrebbe portate, dunque, a sposare lo stesso modello politico liberal-democratico. Con il suo libro, un vero e proprio contro-manifesto del comunismo di Marx, l’economista americano prometteva, in ultima analisi, una spiegazione del perché alcuni stati, specialmente in Occidente, erano economicamente avanzati mentre altre parti del mondo non lo erano; Rostow forniva, inoltre, gli strumenti teorici (oltre che una giustificazione per portare avanti alcune scelte di politica estera) per realizzare una comunità di stati con un’economia capitalista retti da regimi democratici. Il comunismo, per Rostow, non era altro che una «malattia della transizione», che poteva essere contratta durante le fasi iniziali del processo di sviluppo economico <125.
L’idea di modernità avanzata da Rostow e dagli altri teorici della modernizzazione era disegnata, in modo piuttosto evidente, sulle democrazie di stampo liberal-capitalista, il cui modello più riuscito era incarnato dalla nazione «born free», gli Stati Uniti. Come sottolinea David Ekbladh, si trattava di un’idea di modernità che era il frutto di una serie di influenze intellettuali di lungo periodo, modulate dal corso degli eventi, di cui risulta pressoché impossibile stabilire l’origine <126.
La teoria della modernizzazione fu il prisma attraverso il quale, negli Stati Uniti di Kennedy, si guardava ai paesi del cosiddetto Terzo Mondo; l’afflato modernizzatore, tuttavia, ispirava anche la politica nei confronti di altri paesi, tra cui l’Italia, un paese giudicato politicamente immobile, con una classe dirigente immutata ed immutabile. In effetti, fu proprio durante l’amministrazione Kennedy che si concretizzò l’“apertura a sinistra”, l’inclusione del PSI nell’area di governo, con l’obiettivo di avviare una serie di riforme progressiste in Italia <127.
L’ambizioso progetto di utilizzare la conoscenza elaborata dagli intellettuali a fini politici venne sintetizzata anche dalle scelte di includere alcuni dei teorici della modernizzazione all’interno dell’amministrazione, direttamente o in qualità di consulenti: Rostow divenne il Consigliere per la Sicurezza Nazionale alla Casa Bianca e, in seguito, il Chairman del Policy Planning Council del Dipartimento di Stato; Lincoln Gordon, economista dell’Università di Harvard, fece parte della Task Force sull’America Latina e divenne ambasciatore degli USA in Brasile; Lucien Pye del MIT impartì corsi sulla dottrina della contro-insorgenza presso il Dipartimento di Stato e divenne consigliere per l’Agenzia Internazionale per lo Sviluppo (Agency for International Development, AID). All’economista dell’Università di Stanford Eugene Staley arrivò, invece, la richiesta di guidare la missione di sviluppo statunitense in Vietnam. I grandi progetti di politica estera dell’amministrazione Kennedy, dall’Alleanza per il Progresso, alla creazione dei Peace Corps, presero le mosse, del resto, dalla stessa matrice ideologica: alla base c’era, infatti, la convinzione che gli Stati Uniti dovessero farsi carico di svolgere una missione modernizzatrice nei paesi in fase di de-colonizzazione <128.
Sebbene, ovviamente, non tutti i teorici della modernizzazione fossero direttamente coinvolti nel processo di policymaking dell’amministrazione Kennedy, le loro idee non mettevano mai in luce particolari critiche all’operato politico dei governi in carica e, anzi, ne erano molto spesso un’importante fonte di ispirazione <129. Del resto, una delle fucine più significative della “teoria della modernizzazione”, il Center for International Studies del MIT, era nato proprio con l’intento di coadiuvare l’azione governativa. Come sottolinea un report del 1955, infatti: “The Center’s research is planned from the standpoints both of scholarly value and of relevance to public policy. It is intended to contribute both to our understanding of human behavior and to the solution of some of the long-term problems of international policy which confront the decision makers in government and private life” <130.
Il rapporto tra discorso intellettuale e decisione politica fu particolarmente fecondo negli anni Sessanta, durante la fase apicale del cosiddetto liberal consensus in politica estera. Il consenso liberale era un’operazione di convergenza “al centro” da parte delle culture politiche democratica e repubblicana su alcuni grandi temi, tra cui la fede nella difesa e nell’esportazione dei regimi democratici, nella crescita economica e nell’opposizione al comunismo. I più importanti intellettuali liberal, tra cui Arthur Schlesinger jr. e, soprattutto, il teorico del liberalismo statunitense par excellence, Louis Hartz, ebbero una grande influenza sui teorici della modernizzazione: per costoro, lo sviluppo economico e l’esportazione della democrazia modellata sull’esempio degli Stati Uniti formavano un binomio inscindibile e valido universalmente <131. Per quanto il nocciolo di questa impostazione sia rimasto nel discorso pubblico statunitense nel corso del tempo, la teoria della modernizzazione in quanto tale fu oggetto di numerose critiche: molti ritennero, infatti, che fosse il risultato di una lettura imperiale della politica estera statunitense, finalizzata a sfruttare le risorse dei paesi terzi e ad imporre modelli socio-politici ed economici distanti da quelli tradizionali, finendo per aumentare le disuguaglianze interne e tra le nazioni invece di levigarle. A metà anni Sessanta, il CIS fu investito dall’accusa di essere stato l’incubatore della politica statunitense nei confronti del Vietnam e fu bersaglio della protesta studentesca. Mentre bruciavano i locali del centro durante una delle manifestazioni universitarie, la teoria della modernizzazione venne messa in discussione da alcuni intellettuali conservatori e dai suoi stessi esponenti, che tentarono una rivisitazione degli assunti di base. La critica più forte arrivò, però, dagli intellettuali di sinistra: dietro la spinta allo sviluppo proposta dalla teoria della modernizzazione, questi ultimi vedevano un tentativo di sfruttare le risorse del Terzo Mondo da parte degli Stati Uniti al solo fine di migliorare le proprie condizioni materiali e senza tenere in particolare conto né i bisogni né le tradizioni e la cultura dei paesi in via di decolonizzazione <132.

[NOTE]
124 Talcott Parsons, The Structure of Social Action, New York, The Free Press, 1937.
125 Walt Whitman Rostow, The Stages of Economic Growth: A Non-Communist Manifesto, Cambridge, Cambridge University Press, 1960; per un’interpretazione si veda Mark H. Haefele, Walt Rostow’s Stages of Economic Growth: Ideas and Action, in David Engerman, Nils Gilman, Mark H. Haefele, Michael E. Latham (edited by), Staging Growth. Modernization, Development, and the Global Cold War, Amherst and Boston, University of Massachusetts Press, 2003, pp. 81-103.
126 Cfr. David Ekbladh, The Great American Mission. Modernization and the Construction of an American World Order, Princeton, Princeton University Press, 2010, pp. 1-13.
127 Su questo si rimanda ancora a Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra, cit.
128 Michael E. Latham, Modernization as Ideology. American Social Science and “Nation Building” in the Kennedy Era, Chapel Hill and London, The University of North Carolina Press, 2000.
129 Cfr. Dean C. Tipps, Modernization Theory and the Comparative Study of Societies: A Critical Perspective, in “Comparative Studies in Society and History”, Vol. 15, No. 2, March 1973, pp. 199-226.
130 Nils Gilman, Mandarins of the Future, Modernization Theory in Cold War America, Baltimore and London, John Hopkins University Press, 2003, pp. 160-161.
131 Per un’analisi cfr. Gilman, Mandarins of the Future, cit.
132 Ivi, pp. 214-240; tra i maggiori critici della teoria della modernizzazione vi fu Immanuel Wallenstein, africanista di formazione, che di lì a pochi anni avrebbe codificato la sua critica nella teoria del sistemamondo.
Cfr. Immanuel Wallenstein, The Modern World System, voll. 1–2, New York, Academic Press, 1974, 1980.

Alice Ciulla, Gli intellettuali statunitensi e la “questione comunista” in Italia, 1964-1980, Tesi di dottorato, Università degli Studi Roma Tre, 2019