Le Langhe non hanno conosciuto gli stravolgimenti del periodo post-unitario

I caratteri peculiari di questa società [langarola] nei primi decenni del Novecento non sono mai stati oggetto di uno studio scientifico. Questo in parte perché l’area di nostro interesse non si è mai particolarmente distinta per le lotte sociali di inizio secolo, né nel biennio rosso e né tanto meno nel ventennio fascista. Alcuni studi sulla Resistenza, sul movimento contadino e sull’economia e la società delle Langhe offrono spunti su cui basare le nostre riflessioni e grazie ai quali delineare un quadro, non completo ma significativo, della società langarola. <56
La prima considerazione che bisogna fare è relativa alla collocazione geografica delle Langhe. Esse si trovano in un territorio che all’ascesa al potere del fascismo è da secoli sotto il controllo della monarchia sabauda, con la quale la popolazione langarola ha sempre intrattenuto un rapporto di lealtà e subordinazione. <57 Anche per questo, le Langhe non hanno conosciuto gli stravolgimenti del periodo post-unitario, che invece hanno caratterizzato altre zone rurali italiane. Fino alla fine del XIX secolo, i contadini langaroli hanno mantenuto un atteggiamento di rispetto nei confronti dell’autorità statale, e sono rimasti poco sensibili ai movimenti di rivendicazione e di agitazione, come spiega anche Nuto Revelli: “Negli anni a cavallo del 1900 il contadino che possedeva un fazzoletto di prato o di sterpaglie si considerava già «padrone», e lottava per aggiungere altra terra alla terra, sopportando le fatiche e le privazioni più tremende. Si spiega così la «tranquillità sociale» di allora, la mancanza di sussulti, spinte dal basso, ribellioni. Il piccolo proprietario […] smaltiva la rabbia non ragionandoci sopra, […] ma lavorando come una bestia”. <58
Un contesto pacifico, tendente alla moderazione e alla rassegnazione più che alla lotta politica, in cui un ruolo importante riveste il clero. Lo storico piemontese Mario Giovana non dimenticava di sottolineare, nel suo studio sulla Resistenza langarola, come il clero svolgesse all’interno del «mondo contadino», almeno fino agli anni quaranta, un «ruolo identitario» e unificante; considerazione che ci restituisce l’immagine di una società compatta e fortemente influenzata dalla politica clericale. <59 Il clero sembra aver svolto due funzioni principali nella definizione dei caratteri della popolazione delle Langhe. Da una parte ha prodotto un clima di convivenza pacifica tra le varie classi sociali, appianando contrasti e facendosi mediatore tra le diverse istanze; dall’altra, ha contribuito a mantenere forte il senso di fedeltà alla monarchia. <60 L’influenza del clero è così capillare che, secondo Giovana, «accompagna la storia del popolo delle Langhe» tanto da «travalica[re] mutamenti politici e istituzionali». <61
Tratto comune ad altre società agricole, le Langhe si caratterizzano anche per la «scarsa adesione ai miti bellici e nazionali». Questo aspetto emergerà con maggiore concretezza con l’avvento al potere del fascismo e in occasione delle guerre degli anni Trenta, non ultima quella mondiale, in cui si manifesteranno i sentimenti di antipatia nei confronti dei tedeschi, ma ancor prima l’incomprensione «delle cause che avevano portato il Paese in guerra, particolarmente contro la Francia», con cui le popolazioni alpine del cuneese da tempo erano in contatto per ragioni commerciali e personali. <62
Il territorio delle Langhe fa parte di un’area del Piemonte meridionale a economia prevalentemente agricola. Le coltivazioni più diffuse sono sempre state, almeno a partire dalla metà dell’Ottocento, frumento e cereali, in misura minore ortaggi, frutta e legname. A queste si affiancava anche l’allevavano dei bachi da seta, in dialetto i bigat. Ma il tratto distintivo di quest’area e del Monferrato sono le colture viticole, che iniziano a caratterizzare le colline langarole a partire dall’Ottocento, dando una spinta all’economia della regione. <63
Un secondo tratto distintivo delle Langhe è la presenza della piccola proprietà contadina. Questo tipo di struttura fondiaria è il risultato di un processo decennale, che dalla metà del XIX secolo coinvolge quest’area del Piemonte meridionale. Una serie di fattori contribuiscono a dare alle Langhe e al Monferrato quel tipo di struttura che si conserva ancora oggi.
Nella generale opera di ammodernamento dello Stato che stava vivendo il Piemonte al tempo del governo D’Azeglio, a incassare gli effetti positivi fu sicuramente il territorio langarolo. Con l’eliminazione dei privilegi ecclesiastici, le leggi Siccardi del 1850 spinsero le diocesi piemontesi a disfarsi di molte delle proprietà fondiarie in loro possesso, in primo luogo perché divenute un peso dal punto di vista economico, e in più perché lo stesso testo di legge prevedeva la facoltà da parte dello Stato di acquisire quei beni. La vendita delle grosse proprietà fondiarie porta a un generale e improvviso aumento del numero di terre disponibili in tutto il territorio del regno. In particolare nelle Langhe, gli effetti delle leggi Siccardi consentirono a molti contadini di acquistare piccoli appezzamenti di terra e di estendere così la piccola proprietà fondiaria. Questo fenomeno porta con sé altre conseguenze sul piano dell’economia agricola. I piccoli proprietari infatti, potendo disporre di diversi ettari di terreno, decidono di concentrare la produzione agricola in quei settori che risultano essere più redditizi. Tra questi vi è quello del vino.
Complice la svolta liberoscambista del ministro dell’Agricoltura, Cavour, che a partire dal 1851 aveva permesso la stipula di trattati commerciali con diversi paesi europei, i contadini langaroli vedono nella produzione vinicola un ottimo settore in cui poter guadagnare molto e velocemente. Nell’ultimo ventennio dell’Ottocento, la superficie dei vigneti viene ampliata in tutta l’area, arrivando a coprire, in provincia di Alessandria, più di metà della superficie coltivata a cereali. Agli inizi del Novecento, la coltivazione viticola diventa il settore più importante dell’economia dell’area tra Langhe, Monferrato e Alessandrino. Qui, i piccoli proprietari iniziano a unirsi in cooperative e, contemporaneamente, vengono fondate anche casse agricole.
In quest’area, popolata di piccoli e medi contadini e pochi braccianti, si concentrano, a partire dalla fine dell’Ottocento le attenzioni dei socialisti e, in seguito, del partito cattolico. Quest’ultimo, grazie alla rete di parrocchie e di associazioni, aveva da tempo stabilito una forte presenza nell’area. Con la distensione dei rapporti tra Stato e Chiesa, il movimento cattolico in Langa, come nel resto del Piemonte, riuscì a consolidare la propria posizione all’interno della società e del mondo del lavoro. Diverse leghe bianche, cui aderiscono i lavoratori della terra, entrano in concorrenza con quelle socialiste.
La particolarità del movimento cattolico piemontese, rispetto a quello delle altre regioni italiane, è il legame di fedeltà che i suoi aderenti, in primo luogo il clero, hanno stabilito con la monarchia sabauda. Questo elemento fa sì che nell’area piemontese non si assiste a una netta divisione tra il futuro partito popolare e la classe dirigente liberale. Con le elezioni del 1913, precedute dal noto patto Gentiloni, la provincia di Cuneo dimostrò di rientrare nelle linee guida di quell’accordo informale secondo cui deputati liberali potevano essere eletti con il voto cattolico. Come scrive Castronovo, «tra le “marche” cattoliche piemontesi, quella di Cuneo sembrava più delle altre orientata verso un inserimento nella vita politica lungo i sentieri tracciati dal patto Gentiloni». <64
Nelle diocesi agricole, tipiche della piccola proprietà contadina, il radicamento cattolico nella società era molto forte ma, pur possedendo i numeri per determinare la politica nei territori a prevalenza agricola, non era in grado affermarsi come unico rappresentante del cattolicesimo regionale. Questo perché in Piemonte, dove l’opposizione cattolica allo Stato unitario era stata meno vigorosa che altrove, esisteva, da parte del clero, una tradizionale fedeltà alla monarchia sabauda, e in secondo luogo perché il processo di unificazione non aveva provocato sconvolgimenti. Non si era quindi creata una frattura tra borghesia cattolica e classe dirigente liberale, che permettesse una diversificazione politica tra i due movimenti.
A colorare lo scenario della provincia di Cuneo, a partire dagli stessi anni, è il partito socialista, che avvia nelle campagne cuneesi una politica agraria fortemente riformista, linea che sembra orientare per certi versi anche l’esecutivo di Giolitti. Ma il partito socialista, per quanto avesse creato una rete di circoli e leghe, concorrente a quella cattolica, estendendosi «dal 1902 anche nel contado sino a lambire alcuni “feudi” giolittiani, […] rimaneva barricato nei principali centri urbani e in qualche roccaforte industriale come Savigliano e Mondovì dove esso poteva far assegnamento su una certa base di massa operaia, e sull’apporto di instancabili organizzatori, di ferrovieri e di artigiani». <65 Il partito socialista sembrava infatti raccogliere maggiore consenso «tra filandieri, pellettieri e muratori che avevano lavorato all’estero», mentre non era riuscito a stabilire un solido collegamento con i contadini e i piccoli proprietari. Secondo però alcuni dati riportati da Aldo Agosti nella sua opera sul movimento operaio e socialista in Piemonte, nelle campagne piemontesi, almeno fino al 1912, la percentuale dei piccoli agricoltori organizzati dai cattolici era di molto inferiore rispetto a quella dei lavoratori della terra inquadrata nelle leghe dei socialisti. Anche tra i braccianti e i piccoli fittavoli, i cattolici riscuotevano scarso successo, in quanto solo il 5% di loro rientrava in un’organizzazione cattolica. Secondo Agosti, la forte presenza socialista, confermata da questi dati, si fondava in primo luogo «sul rapporto dei suoi uomini con le esigenze della società civile», <66 in cui un ruolo importante rivestivano le associazioni sindacali, le cooperative, gli organi di difesa e di raccolta dei lavoratori. La politica riformista del partito socialista avrebbe segnato quindi, almeno fino alla viglia del primo conflitto mondiale, «significativi successi». <67 Nella provincia di Cuneo, i socialisti potevano contare su un prestigioso gruppo dirigente, che nell’Albese era rappresentato dall’avvocato Riccardo Roberto. Intorno alla sua figura si crea un nucleo connotato da una certa attenzione per i problemi della campagna e della classe contadina. Una volta eletto deputato socialista ad Alba, Roberto porta avanti infatti una politica agraria fortemente riformista, volta alla distribuzione della terra ai contadini. <68
Lo slancio riformista del governo dura però molto poco. Alla vigilia del conflitto mondiale la situazione muta radicalmente. Il cambiamento della politica interna ed estera giolittiana, inaugurata dalla guerra di Libia, segna l’inizio della crisi del riformismo. Nelle campagne, la politica dei socialisti prima e dei comunisti poi raccoglie scarsi successi già a partire dallo scoppio del conflitto. La guerra fa cadere quella rete di legami tra partito e società, che aveva consentito una rapida diffusione delle idee socialiste nel territorio. Inoltre, con le elezioni del 1913, segnate dal patto Gentiloni, «i connubi clerico-moderati e l’avvicinamento dei cattolici ai liberali, col tacito consenso delle gerarchie ecclesiastiche» isolano ulteriormente i socialisti, che poco alla volta perdono i loro consensi. <69
[NOTE]
56 Sulla società, sull’economia e sulla storia delle Langhe di inizio Novecento, oltre ai testi di Mario Giovana, Guerriglia e mondo contadino e di Diana Masera, Langa partigiana, che offre un breve inquadramento storico dell’area considerata, ci è stato possibile raccogliere pochi altri testi: V. Castronovo, Il Piemonte, in Storia delle regioni d’Italia, Einaudi, Torino, 1977; V. Rapetti, Uomini, collina e vigneto in Piemonte da metà Ottocento agli anni Trenta, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1984; N. Revelli, Il mondo dei vinti. 2. La montagna – Le Langhe, Einaudi, Torino, 1977; A. Agosti, G. M. Bravo (a cura di), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte. Vol. III – Gli anni del fascismo, l’antifascismo e la Resistenza, De Donato, Bari, 1980. Per il periodo dell’avvento al potere del fascismo sono venuti in soccorso i lavori di L. Lorenzini, Fascismo e dissentismo in provincia di Alessandria: 1919-1925, Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1980 e di Aa. Vv., Fascismo di provincia: il caso di Asti. Atti del Convegno storico (Asti 18-19 novembre 1988), Istituto Storico della Resistenza e della società contemporanea della provincia di Asti, Edizioni l’Arciere, Cuneo, 1990, dove sono presenti alcuni raffronti con l’area di nostro interesse. Infine, lavori riguardanti la provincia di Cuneo in periodo fascista sono quelli di M. Calandri, Le origini del fascismo in Cuneo, tesi di laurea, Facoltà di Giurisprudenza, Università degli studi di Torino, rel. G. Quazza, AA 1964-65 e di C. Martorelli, La politica agraria del fascismo in provincia di Cuneo dal 1925 al 1940, tesi di laurea, Facoltà di Magistero, Università degli Studi di Torino, rel. G. Quazza, AA 1974-75, che non ci è stato possibile consultare.
57 Al referendum istituzionale del 1946, la monarchia otterrà nei maggiori centri langaroli il 60% delle preferenze, M. Giovana, Guerriglia, cit., p. 24
58 N. Revelli, Il mondo dei vinti, cit, p. 15
59 M. Giovana, Guerriglia, cit., p. 19
60 Quest’ultima funzione potrebbe sembrare una contraddizione nella politica dei cattolici all’inizio del secolo, ma non in Piemonte. Qui infatti, le gerarchie ecclesiastiche, diversamente che nelle altre regioni, avevano da tempo stabilito rapporti di fiducia con la monarchia sabauda e con la classe dirigente liberale.
61 M. Giovana, Guerriglia, p. 20
62 Un buon numero di bovesani e di valligiani cuneesi è legato alla nazione transalpina da interessi, dall’aver trascorso sul suolo francese diversi anni, dall’aver lasciato laggiù congiunti (le zone di Marsiglia, Tolone, Nizza, sono i centri su cui gravita l’emigrazione cuneese); si veda M. Giovana, “Popolazioni alpine nella guerra partigiana del Cuneese”, cit., p. 79. In generale, la Francia era stata, tra le due guerre, la meta preferenziale degli europei, tra cui moltissimi italiani, che vi avevano lavorato per lungo tempo. Anche la famiglia di Dante Castellucci, “Facio”, futuro comandante partigiano del parmense, vi si trasferirà dalla Calabria fino al 1939, C. S. Capogreco, Il piombo e l’argento: la vera storia del partigiano Facio, Donzelli, Roma, 2007 pp. 11-12
63 V. Rapetti, Uomini, collina e vigneto in Piemonte, cit., pp. 31 e ss.
64 “La scalata dei cattolici nei comuni rurali”, in V. Castronovo, Storia delle Regioni. Il Piemonte, cit., p. 272
65 Ibidem
66 A. Agosti, G. M. Bravo (collana diretta da), Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte, vol. III, cit., p. 74
67 Ivi, p.73
68 Organizzerà inoltre, nel periodo dell’odiata tassa sul vino, la disobbedienza civile nell’Albese negli anni ’19 e ’20. Prendendo le distanze dalla indecisa linea intrapresa dai socialisti in politica agraria, deciderà di uscirne, per entrare nel ’21 nel PCd’I.
69 “La scalata dei cattolici nei comuni rurali”, in V. Castronovo, Il Piemonte, cit., p. 275
Giampaolo De Luca, Partigiani delle Langhe. Culture di banda e rapporti tra formazioni nella VI zona operativa piemontese, Tesi di Laurea, Università degli Studi di Pisa, Anno Accademico 2012-2013