L’impermeabilità di Teresa Rampazzi all’aspetto ideologico dell’arte contrassegnò la sua attività anche negli anni successivi

Un curriculum del 1987 di Teresa Rampazzi, stampato nella brochure di una conferenza-concerto che la compositrice tenne a Siracusa, inizia come segue: “Ha dedicato alla musica contemporanea gran parte della sua lunga attività musicale e concertistica, approfondendo i suoi studi in Germania, a Darmstadt, sotto la guida dei più autorevoli maestri di scuola schönbergiana”. Il breve testo prosegue con le esperienze e i risultati in campo elettronico <5. Teresa Rampazzi sembra voler sorvolare sulla sua attività di esecutrice ponendo come punto di partenza alla carriera la partecipazione ai Ferienkurse di Darmstadt <6. Ma, al contrario, le esperienze che precedono l’epoca in cui si dedicò alla musica elettronica risultano utili per comprendere le successive scelte musicali ed estetiche e per collocarla nell’atmosfera culturale e musicale dell’Italia del dopoguerra <7.
Teresa Rampazzi era nata a Vicenza nel 1914 e aveva ricevuto una formazione musicale tradizionale. Iniziato lo studio del pianoforte con un maestro locale, si trasferì successivamente al Conservatorio ‘G. Verdi’ di Milano dove, oltre agli studi di strumento, compì quelli in composizione. Nello stesso periodo Arrigo Pedrollo, uno dei suoi insegnanti, contava tra i suoi allievi un giovane Bruno Maderna. Fin dal periodo milanese e successivamente, quando si sposò <8 e si trasferì a Verona, amò circondarsi da una cerchia di persone che col tempo diventarono famose nella storia della musica. Il salotto di casa sua era frequentato da Franco Donatoni, René Leibowitz, Severino Gazzelloni e dallo stesso Bruno Maderna, che portava i racconti delle prime esperienze darmstadtiane <9.
Gli anni Cinquanta furono gli anni del risveglio dopo l’incubo della guerra e dopo vent’anni di regime culturalmente conservatore. In questo clima nacque la coraggiosa parabola della scuola di Darmstadt sorta emblematicamente in una cittadina che era stata rasa al suolo dai bombardamenti. Nelle prime edizioni degli Internationale Ferienkurse für Neue Musik (la fondazione risale al 1946) la musica che si ascoltava e di cui si discuteva nelle conferenze era quella dodecafonica, ancora considerata come musica nuova. Nel 1950 Th.W. Adorno, rientrato dall’esilio americano, aveva partecipato ai Ferienkurse e in una sua Lektion, contrapponendo Schönberg a Stravinskij, aveva preso le parti di quella ‘rivoluzione copernicana’ che aveva portato all’affrancamento della musica dal ‘vincolo naturale della tonalità’ <10. In questo stesso anno nella cittadina tedesca si tenne il ‘primo concerto della Nuova Generazione’ e i compositori più apprezzati dalla critica furono gli italiani Bruno Maderna e Luigi Nono <11.
Il 1952 fu una data fondamentale per Darmstadt e per Teresa Rampazzi: fu l’anno di “Schönberg is dead” pubblicato su ‘The Score’, l’anno del rinnovamento del corpo docente (Severino Gazzelloni iniziò ad insegnare); fu l’anno del Wunderkonzert con brani in prima esecuzione assoluta. Proprio alla realizzazione di “España en el corazón” di Luigi Nono contribuì Teresa Rampazzi, che in quell’occasione fece parte del coro <12.
“Così saltammo il fosso” racconta Severino Gazzelloni, “niente più Stravinskij, niente più Hindemith, niente più niente di nessuno che non fosse uno dei giovanissimi della squadra di Darmstadt lanciata alla conquista delle nuove frontiere della musica”. C’era solo desiderio di innovation and unlikeness, novità e diversità <13.
Ma l’Italia recepiva queste novità con prudenza e circospezione. Non c’erano occasioni per ascoltare la musica di Darmstadt all’infuori di Milano o in qualche raro concerto in altre parti della penisola. Del resto i compositori italiani che facevano parte della ‘vecchia’ generazione sopraffatta dal boicottaggio del fascismo, e che forse aspettavano la fine della guerra per poter dare nuovo impulso alla loro opera, si erano ritrovati irrimediabilmente scavalcati dalla Neue Musik <14.
Cap. 1.1.1 Il Trio Bartók
In questo contesto si inserì la scelta di Teresa Rampazzi di diventare esecutrice, assieme a pochi altri in Italia, di musica d’avanguardia. Ma poiché in Veneto l’ambiente culturale non era ancora maturo per recepire la nuova musica, quando nel 1956 si trasferì col marito a Padova ella decise di entrare nell’organico del Trio Bartòk (fondato dal clarinettista Elio Peruzzi) all’epoca uno dei rari ensemble strumentali italiani che eseguiva Webern e Berg. La stessa Rampazzi racconta: “L’Italia non era ancora uscita da una situazione provinciale e arretrata, dopo l’esplosione del melodramma ottocentesco. Il nome di Mahler, per esempio, era totalmente sconosciuto” <15.
Con il Trio Bartók, del quale faceva parte anche la violinista Edda Pitton, si trattava di “preparare il campo alla musica di Darmstadt”, sensibilizzando il pubblico alle nuove ‘dissonanze’ <16. Il loro impegno era spesso arduo, come ama ricordare lo stesso Peruzzi, dovendo contrastare le reticenze del pubblico e di una città situata in una regione culturalmente isolata, in cui dominavano il clero e la forza della maggioranza democristiana. Essere esecutori di musica contemporanea significava andare contro la cultura dominante, essere criticati o seguiti da un esiguo numero di persone <17.
Cap. 1.1.2 Il Circolo Pozzetto <18
In questi stessi anni Teresa Rampazzi fece parte di uno spazio interdisciplinare nato nel 1956, fondato e animato da Ettore Luccini, e affossato nel 1960. Il gruppo, che visse una breve stagione sviluppatasi tra molte difficoltà, fu percorso da “un travaglio di idee, di giudizi e di posizioni – in alcuni perfino di rigetto – che furono anche il segno di una intima contraddizione politica e culturale” <19. Il Pozzetto era animato da una forte spinta ideologica, consapevole di operare in una città che, ospitando una struttura universitaria, avrebbe potuto essere più facilmente aperta alle proposte delle nuove generazioni <20. Ma la risposta degli spettatori e la parabola del gruppo, lunga solo quattro anni dimostrarono con grande amarezza dei protagonisti, che l’atmosfera culturale di Padova era molto lontana dal recepire novità e diversità <21.
Il Circolo offriva “spazi imprevedibili e straordinari” alla cultura organizzando mostre, conferenze e concerti a cui partecipavano nomi più o meno affermati, padovani e non, nell’ottica di rompere “con ogni forma di provincialismo culturale” informando e proponendo la cultura nascente. “E ciò nel momento in cui un’università divenuta un olimpo accademico staccato dai processi reali e le pubbliche istituzioni prive di una qualsiasi linea di politica culturale [erano] incapaci di accogliere la nuova domanda di esperienze, di iniziative culturali provenienti soprattutto dalle nuove generazioni” <22. Il Pozzetto costituiva uno straordinario punto d’incontro di intellettuali, professionisti, artisti, musicisti e insegnanti. Numerose furono le esperienze pedagogiche stimolate da corsi di formazione per docenti promossi a Padova dallo stesso Luccini, il quale era fermamente convinto che “lo sviluppo del costume democratico dovesse cominciare dal basso” <23, cioè dalla scuola elementare. Nel 1960 il Circolo venne chiuso forzatamente a causa dell’ottusità dei burocrati dogmatici che pure avevano in un primo tempo favorito l’istituzione del gruppo <24. Ancora nel 1979, anno della mostra organizzata per ricordare la realtà del circolo a vent’anni dalla sua chiusura, rimaneva sospeso l’interrogativo sulla fine imposta a un’attività che appariva, dai documenti, molteplice, originale e, pur nell’ineguale qualità delle sue manifestazioni, in sintonia con autentiche esigenze di aggiornamento e di rinnovamento nelle scienze, nelle arti, nella musica, nel rapporto tra cultura e politica, tra comunisti e cultura <25.
La causa della chiusura è da ricercare nel filo che legava le attività del Circolo all’inquieta personalità di Ettore Luccini <26. Egli a pochi mesi dall’apertura del Pozzetto era pienamente inserito negli organismi dirigenti della Federazione Comunista di Padova, forte di una grande intesa con il segretario del partito, Franco Busetto. Faceva parte del Comitato Federale e del Comitato Direttivo ed era responsabile della Commissione Culturale. Apparentemente era ‘in una botte di ferro’. Il circolo avrebbe dovuto essere la prima risposta positiva alla condizione di isolamento di tanti intellettuali comunisti e democratici, e al doppio isolamento, questo rispetto al Partito, degli intellettuali comunisti: un luogo d’incontro, di scambi, ove diminuire e superare chiusure e passività, settarismi <27. Alla base della forte spinta ideologica stava la volontà di “conoscersi e riconoscersi in una sinistra non intimorita dall’apparente inamovibilità di uno schiacciante potere democristiano e di sovrastanti gerarchie ecclesiastiche” <28. Ma dopo neppure un anno di attività, alla fine del 1956, il gruppo iniziò a subire critiche, diffidenze e sospetti da parte dello stesso Partito Comunista, fino a sfociare in un pieno disaccordo di questo con le idee che avevano animato le prime attività. Le ambizioni di Ettore di avere udienza in città e di incoraggiare i comunisti a muoversi più
agilmente nel mondo della sinistra intellettuale, a prepararsi ad uscire dalle proprie barriere, a superare il settarismo, quella particolare forma di sordità che induce ad ascoltare soprattutto se stessi, si scontrò presto con la maggioranza della commissione culturale e successivamente con gli organismi dirigenti della Federazione. L’intelligenza, la cultura, l’energia, la distinzione di modi, la sperimentata attitudine organizzativa in campo culturale esercitata con umanità, senza un’ombra di quello strumentalismo meccanico, considerato dagli apparati l’apice dell’efficienza organizzativa, mentre attiravano verso il Presidente e il Circolo gruppi di studenti, professionisti, docenti universitari, artisti, suscitavano diffidenza, imbarazzo, ostilità e qualche sentimento di invidia tra compagni dirigenti e quadri di base <29. I rapporti con il partito si incrinarono al punto che Luccini fu costretto ad abbandonare la direzione della Commissione Culturale e fu estromesso dal Direttivo provinciale. L’accusa mossagli, più o meno velata, era quella di fare diffusione di cultura anziché azione culturale politicamente allineata, e si temeva che trasformasse il Circolo in una sede di rilanci revisionistici <30. In breve, egli doveva permettere al partito di seguirlo, e allora ‘seguire’ era sinonimo di vigilare, dirigere, controllare. Al contrario Luccini tentava di rimanere fermo nel suo orientamento democratico, aperto alla relazione con la città di Padova e con il pubblico. Ma con il tempo la situazione divenne insostenibile per le continue pressioni a difendere la purezza ideologica e a mantenere una posizione di sottomissione alle direttive politiche. In un’intervista spiegò la sua ubbidienza alla decisione di porre fine alla realtà del Circolo con la sua impossibilità di sopportare la prova più dolorosa: uscire dal Partito <31. La parabola del Pozzetto si chiuse con l’epilogo delle dimissioni imposte ed accettate.
Sullo sfondo del contesto politico in cui si collocò il Circolo, la partecipazione di Teresa Rampazzi si stagliava in modo anomalo. La sua attività non fu dettata, nell’interpretazione di Ugo Duse, dall’impegno politico e culturale; nasceva, al contrario, dalla semplice coincidenza di essere presentata a Sylvano Bussotti che già faceva parte del gruppo, e non da un’operazione culturale dell’ “adesso rompiamo con le vecchie regole del realismo socialista della musica fatta per le masse” <32.
L’impermeabilità all’aspetto ideologico dell’arte contrassegnò la sua attività anche negli anni successivi. Nella musica non erano le dottrine a guidarla <33, piuttosto se ne appropriava nel momento in cui la interessavano, pronta a rigettarle quando le riteneva superate. Ciò che stupisce della sua attività, anche negli anni successivi, sono la sua grande adattabilità alle nuove situazioni e la versatilità nell’abbracciare nuovi paradigmi <34. A dimostrazione del suo distacco dalle prese di posizioni assolute e durature, si situa la conferenza che tenne nel 1979 nell’ambito della mostra in memoria dell’attività del Circolo. Nel corso della serata propose un’audizione di stralci di opere di Shönberg, Berg, Webern e di Stockhausen, Maderna e Nono, tracciando una storia della musica della prima metà del secolo, senza mai accennare a convinzioni estetiche personali <35.
Durante i quattro anni di vita del Pozzetto Teresa Rampazzi si propose anche in veste di esecutrice.
[NOTE]
5 Il titolo della conferenza era: “Momenti significativi della computer-music da Edgar Varèse ai nostri giorni”. Su Teresa Rampazzi è in corso di stampa una voce nella nuova edizione del New Grove Dictionary of Music, a cura di Antonio Trudu.
6 Alla domanda su quale fosse il percorso che l’aveva portata alla computer music, Teresa Rampazzi risponde: “E’ stata una strada molto lunga, iniziata a Darmstadt ascoltando il primo generatore sul quale l’ingegner Eimert faceva degli esperimenti per preparare le persone al passaggio dalla musica dodecafonica, seriale, a una gamma molto più vasta di suoni. Era il generatore a valvole di Helmholtz, emetteva solo dei fischi molto poco attraenti” (da Teresa Rampazzi. Fino all’ultimo suono, un programma in tre puntate di G. Di Capua, Radiotre, 3/10/17 marzo 1993, terza puntata).
7 E’ tipico del suo carattere, rileva Gianni Di Capua, pensare poco o per nulla al passato, guardando con distacco ad ogni esperienza trascorsa quasi fosse irrilevante se confrontata con il presente (Ivi, prima puntata).
8 Teresa Rossi (questo era il cognome da nubile) si sposò nel 1940 con Carlo Rampazzi, dirigente bancario; dal matrimonio nacquero due figli: Leonardo (1941) e Francesca (1945), (comunicazione di Francesca Rampazzi, figlia della compositrice).
9 Di Franco Donatoni Teresa Rampazzi eseguì nel 1956, a Verona, Composizione in 4 movimenti per pianoforte, London, Schott, 1957 [10398], partitura poco conosciuta e conservata (con dedica autografa dell’autore) al conservatorio ‘C.Pollini’ di Padova.
10 A. Arbo, Dialettica della musica. Saggio su Adorno, Milano, Guerini Studio, 1991, pagg. 65-67. E’ interessante notare come le previsioni circa il destino della tonalità in realtà vennero complicate e in parte contraddette dalla storia, che negli anni vide a volte dei ritorni alle posizioni un tempo rigettate.
11 A. Trudu, La “scuola” di Darmstadt. I Ferienkurse dal 1946 a oggi, Milano, Ricordi-Unicopli, 1992, pagg. 55-62.
12 Ivi, pagg. 73-82. Teresa Rampazzi partecipò ai Ferienkurse anche nel 1954.
13 S. Gazzelloni – E. Granzotto, Il flauto d’oro, Torino, RAI, 1984, pag. 86.
14 L’immagine è di Severino Gazzelloni, che colloca in questa generazione della prima avanguardia Malipiero, Petrassi, Dallapiccola, Turchi, Peragalli e Zafred (Ivi, pag. 88).
15 T. Rampazzi, ‘L’attività nel campo musicale’, La stagione del Pozzetto. 1956-1960. Documentazione e dibattiti da un avvenimento culturale in Padova, 1979, numero unico, pag. 7.
16 Secondo Schönberg “le espressioni ‘consonanza’ e ‘dissonanza’, che indicano un’antitesi, sono errate: dipende solo dalla crescente capacità dell’orecchio di familiarizzarsi anche con armonici più lontani, allargando in tal modo il concetto di ‘suono atto a produrre un effetto d’arte’ in modo che vi trovi posto tutto il fenomeno naturale nel suo complesso. Quello che oggi è lontano, domani può essere vicino”. A.Schönberg, Harmonielehre, Wien, 1922, in A. Arbo, Dialettica della musica. Saggio su Adorno, cit., pag. 67.
17 comunicazione personale.
18 Il nome Pozzetto derivava dal toponimo di Via Nazario Sauro a Padova (laterale di Piazza dei Signori), in passato Via del Pozzetto. Questa fu la prima sede del Circolo; successivamente venne trasferito in via Emanuele Filiberto.
19 La stagione del Pozzetto. 1956-1960, cit., editoriale pag. 1. Non è stato possibile identificare l’autore dell’editoriale, che comunque era ‘a cura dell’esecutivo’ del Circolo. Il numero unico fu stampato in occasione della Mostra (10
novembre-1 dicembre) del 1979 organizzata per ricordare, a distanza di vent’anni dalla chiusura, la realtà del Pozzetto (nel giornale comparivano scritti di Francesco Brugnaro, Assessore ai beni culturali del Comune di Padova, e di Sylvano Bussotti, Carlo Ceolin, Domenico Cerroni Cadoresi, Piero Gaffuri, Teresa Rampazzi, Mario Rigoni Stern, Giorgio Segato, Franca Tessari, Tono Zancanaro, Andrea Zanzotto). Franca Tessari, ispiratrice e segretaria della mostra, fu l’autrice della difficile raccolta di testimonianze e documenti.
20 “era utile operare in quella città, e cultura se ne poteva fare” (intervista a Ugo Duse, in Teresa Rampazzi. Fino all’ultimo suono, cit., prima puntata).
21 Comunicazione personale di Franca Tessari che all’epoca fu la segretaria informale (“in realtà eravamo tutti volontari”) del Circolo. Attualmente è docente di Psicologia dello Sviluppo alla Facoltà di Scienze della Formazione di Padova.
22 La stagione del Pozzetto. 1956-1960, cit., editoriale. Al Pozzetto si incontravano Tono Zancanaro, Gastone Manacorda, Franco Fortini, Diego Valeri, Italo Calvino, Andrea Zanzotto.
23 F. Tessari, ‘Le esperienze pedagogiche’, La stagione del Pozzetto. 1956-1969, cit., pag. 7.
24 “Purtroppo, è doveroso riconoscerlo, vi fu chi, nella sinistra, in nome di una mistificante predicazione marxista che con Marx nulla aveva a che fare, di fronte al nuovo che il Pozzetto valorizzava nella battaglia delle idee e nelle espressioni artistiche, fu preso dal panico e, nel nuovo, vide ‘il nemico’ di classe” (La stagione del Pozzetto, cit., editoriale).
25 Il Pozzetto. Un orizzonte aperto. Ettore Luccini e la sua lotta contro l’isolamento politico e culturale della sinistra, Padova, 1992, prefazione di F. Loperfido, cit. pag. 11-12.
26 Loperfido (Ivi, pag. 11) ricorda che nel 1984 Pier Vincenzo Mengaldo fu il primo a delineare i perché della liquidazione del Pozzetto. Successivamente Manfredo Massironi spiegò ancora più efficacemente i legami tra la personalità di Luccini e la difficile situazione politica.
27 Ivi, pag. 13.
28 Ivi, pag. 14
29 Ivi, pagg. 14-15.
30 “…il circolo deve interessare il partito, non solo gli intellettuali. Deve essere seguito dalla Commissione culturale e, nell’ordine, dalla cellula universitaria, dal circolo di studenti che dovranno riunirsi appositamente allo scopo di potenziare la presenza comunista nel Circolo e di avere contatti con determinati ambienti” (ivi, pag. 22).
31 Rilasciata sei mesi prima della morte, in Ettore Luccini. Umanità cultura politica, prefazione di F. Loperfido, Vicenza, Neri Pozza, 1984.
32 Teresa Rampazzi. Fino all’ultimo suono, cit. (prima puntata).
33 Al contrario, a livello politico fu militante, soprattutto all’epoca delle contestazioni studentesche e operaie. Tisato racconta che “andava a picchettare a Marghera: lei era all’estrema sinistra di Mao, era più maoista di lui. Andava a distribuire i volantini, andava in giro coi pugni chiusi” (cfr. appendice IV).
34 Il concetto di ‘paradigma’ fu coniato da Thomas S. Kuhn nell’opera del 1969 La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Applicati al mondo della scienza, i paradigmi erano definiti come “conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca” (pag. 10) e le “rivoluzioni scientifiche” costituivano “degli episodi di sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito, completamente o in parte, da uno nuovo incompatibile con quello” (pag. 119). Il concetto di paradigma scientifico fu applicato successivamente alla sfera delle idee, intendendo i sistemi di convinzioni sociali e culturali caratteristici di un determinato periodo storico o di una delimitata classe sociale (cfr. Traian Stoianovich, La scuola storica francese. Il paradigma delle “Annales”, Milano, Isedi, 1978; cfr. Giuliana Gemelli, Fernand Braudel e l’Europa universale, Venezia, Marsilio, 1990).
35 Grazie a Franca Tessari si è risaliti a questa Audizione e alla registrazione della serata.
Laura Zattra, Da Teresa Rampazzi al Centro di Sonologia Computazionale (C.S.C.): la stagione della musica elettronica a Padova, Tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, 2000