Lo stesso Natta trascurò quanto stava accadendo nei paesi dell’Europa dell’Est

Dopo la morte di Berlinguer, il Partito comunista alle elezioni europee del 1984 ottenne un grande successo, totalizzando una percentuale uguale a quella del 1976: il 33,4%, che lo fece diventare primo partito d’Italia, assicurandogli anche il sorpasso, sebbene di poco, sulla Democrazia cristiana. All’indomani delle elezioni era necessario nominare un nuovo segretario. Il 26 giugno del 1984 la scelta ricadde su Alessandro Natta che venne eletto con 227 voti favorevoli e 11 astenuti. L’eredità lasciata da Berlinguer si rivelò molto difficile da gestire, soprattutto perché il Pci si ritrovava essenzialmente senza alleati e senza una reale strategia. Il neosegretario Natta apparve fin da subito una figura di transizione <128: ciò risultò chiaro già dal discorso pronunciato dopo la sua nomina; la sua dirigenza si sarebbe posta essenzialmente in continuità con quella di Berlinguer.
Le capacità di Natta vennero subito messe alla prova all’inizio di ottobre del 1984, quando si presentò l’opportunità di mettere in crisi il governo Craxi, dopo la mozione presentata dal radicale Massimo Teodori in cui chiese espressamente le dimissioni di Andreotti, che al tempo era capo della Farnesina, per un’inchiesta riguardante una serie di scandali petroliferi <129. Nel momento in cui si trovò davanti alla possibilità di onorare le scelte del vecchio segretario Berlinguer, che aveva fondato tutta la sua strategia politica sulla “questione morale”, il Pci decise di tirarsi indietro: la mozione proposta da Teodori venne rinviata, soprattutto a causa delle astensioni dei comunisti <130. Questa scelta politica del Partito comunista fu il risultato di una perdita, all’interno del partito, di una figura autorevole quale era stata quella di Berlinguer, che condusse ad un senso di smarrimento; ma anche di un radicarsi della pratica del consociativismo, a cui anche il Partito comunista aveva preso parte <131.
Il 1985 apparve come un anno particolarmente difficile dal punto di vista elettorale per il Partito comunista: nelle elezioni amministrative crollò al di sotto del 30%, ricevette un amaro insuccesso nel referendum sulla scala mobile, e anche nelle elezioni regionali subì un calo rispetto al 1980 <132. Questa serie di sconfitte, insieme anche all’ascesa di Gorbaciov alla guida dell’Unione Sovietica, resero indispensabile aprire un confronto all’interno del partito per capire soprattutto in che direzioni andare in vista dell’incombente XVII Congresso previsto per l’aprile del 1986.
Quello che emerse all’interno del Partito comunista, nel dibattito che precedette il XVII Congresso, fu un forte stato di malessere e un senso di inadeguatezza nei confronti della società <133, a cui i comunisti non riuscivano a far fronte. In molti sentivano la necessità di operare un cambiamento che dovesse investire non solo la strategia politica, che per il momento sembrava priva di una direzione precisa, ma anche la cultura politica, cercando di apportare evoluzioni anche da un punto di vista strutturale, in modo da riavvicinarsi alla società. Nel XVII Congresso si concretizzarono come primi obiettivi l’avvento di alcuni elementi di novità, funzionali a sfuggire all’isolamento del partito, ma si trattò sempre di rinnovamenti avviati all’interno di un processo di continuità che rientrarono nella tradizione comunista, e che non erano sufficienti a dare avvio ad una fase di trasformazione radicale <134. Più nello specifico, a partire dal Congresso si cercò di attuare un distacco dalle scelte comuniste a partire da Gramsci in poi, in favore di una rivalutazione del valore dell’autocritica <135. Ciò si tradusse nel rifiuto dell’“ideologismo dogmatico”, che portava con sé un’idea dinamica di identità fondata sul presupposto che essa dovesse essere costruita nel cambiamento, nella ridiscussione continua di sé stessi, della propria politica e delle proprie ragioni <136. Questa serie di modifiche, tuttavia, non costituirono elementi sufficienti per avviare un processo di sostituzione dei fini: essi erano, infatti, promossi da una segreteria Natta che cercò sempre di porsi il più possibile lungo un solco di stabilità rispetto al passato <137. La definizione di una nuova identità per il Pci venne nuovamente rimandata anche a causa delle speranze che arrivarono con l’ascesa al potere di Gorbaciov, che si fondavano sulla possibilità che il socialismo sovietico potesse essere effettivamente riformato e, in un certo senso, democratizzato, attraverso la costruzione di un modello che potesse essere diverso dal capitalismo e dalle socialdemocrazie. I dirigenti del Partito comunista si illusero di trovare in Gorvaciov un leader così come lo era stato Berlinguer, sperarono così di poter rilanciare le loro fortune in Italia <138. Lo stesso Natta trascurò quanto stava accadendo nei paesi dell’Europa dell’Est, credendo che questi eventi fossero solo forme di disapprovazione nei confronti di governi repressivi e non, invece, un evidente segnale della crisi del nucleo ideologico del comunismo <139. Alla sconfitta dell’85 seguì alle politiche del 1987 una grave perdita elettorale: il Pci crollò al 26,6%, per la prima volta, dopo tanto tempo, questo risultato colpì soprattutto il cosiddetto “zoccolo duro” <140, le roccaforti del partito. L’effetto di queste politiche rappresentò un’altra conferma della crisi e del trend negativo che il partito stava vivendo da un decennio a questa parte, al quale il Partito comunista rispose semplicemente con un ricambio parziale dei suoi rappresentanti: la nomina alla vicesegreteria di Achille Occhetto. Nel giugno del 1988, a causa di una grave malattia di Natta, subentrò nella carica di segretario politico, Occhetto, che non preannunciò un cambiamento. Rispetto a Natta, egli era molto più giovane e lo erano anche i suoi collaboratori; aveva abbastanza esperienza perché si era dedicato alla politica già a partire dagli anni Sessanta. La presidenza di Occhetto è stata più volte sminuita nell’analisi storica, poiché soprattutto all’inizio, sembrò inadeguato nel costruire una linea politica ben definita. Natta aveva la responsabilità di un partito che stava vivendo un forte declino elettorale, politico e organizzativo. Aveva deciso di abbandonare la via del rinnovamento partitico e di gettare le basi per una rifondazione del partito <141, per il debutto di un nuovo corso. Il progetto di Occhetto si pose come obiettivo quello di iniziare ad assecondare, quanto più possibile, le tendenze interne al partito, aprendosi quindi anche alla possibilità di un’alleanza con il Partito socialista, cosa molto apprezzata dalla corrente di destra; dimostrare anche più considerazione nei confronti dei nuovi movimenti sociali, soprattutto quelli ecologisti e femministi; infine, promuovere forme di decentralizzazione all’interno dell’organizzazione, andando incontro alle richieste dell’ala sinistra del partito <142. Il XVIII Congresso, che si riunì a Roma nel 1989, introdusse una serie di novità che portarono molti a parlare della nascita di un partito postcomunista <143. Si perse, infatti, il riferimento ai padri fondatori <144 del socialismo e si assistette ad un vero e proprio ribaltamento della tradizione marxista-leninista: venne accettata l’idea secondo cui il socialismo potesse essere costruito soltanto attraverso l’adesione alle regole della democrazia, e la non violenza venne assunta come principio ispiratore dell’azione del Pci <145. Emerse anche il concetto di cittadinanza che sostituì definitivamente quello di classe. Le trasformazioni più importanti, però, vennero attuate dal punto di vista dell’assetto organizzativo. Il crollo elettorale che si registrò nel 1987 aprì, per l’appunto, un dibattito sulla questione della struttura organizzativa che venne in un certo senso definita “superata”: non coincideva più con le nuove esigenze dei cittadini, era necessaria una revisione organizzativa da attuarsi attraverso l’abbandono del modello leninista del centralismo democratico; anche se non era ancora chiaro come sarebbe stato possibile “democratizzare” il partito comunista <146. Craxi sulle colonne de “L’Avanti”, nel febbraio del 1989, disse che in realtà il rinnovamento apportato da Occhetto era solamente “un’operazione di facciata <147”. Questa “innovazione”, non apparve molto credibile, soprattutto agli occhi del leader socialista, che credette che solo attraverso una modifica al nome (con la rinuncia all’aggettivo “comunista”), e un allontanamento dalla tradizione, si potesse avverare un vero rinnovamento per il Pci. Occhetto confermò, però, che il suo partito avrebbe potuto valutare un cambio del nome, solo alla luce di un evento che lo avesse realmente richiesto <148. Evento che si verificò proprio nel 1989.
[NOTE]
128 P. Turi, Per una biografia politica di Alessandro Natta, in Leadership e democrazia, Cedam, Padova, 1987, pag. 267.
129 G. Galli, Storia del Pci. Il partito comunista italiano: Livorno 1921, Rimini 1991, Kaos Edizioni, Milano, 1993, pag. 297.
130 Ivi, p. 298.
131 Ibidem.
132 Ivi, p. 299.
133 P. Ignazi, Dal Pci al Pds, Il Mulino, Bologna, 1992, pag. 55.
134 Ivi, p. 58.
135 Ivi, p. 56.
136 A. Natta, Relazione, in XVII Congresso del Partito comunista italiano. Atti, risoluzioni, documenti, Editori Riuniti, Roma 1987, pp. 21-60, p. 26, in P. Ignazi, op. cit., p. 56.
137 Ivi, p. 58.
138 S. Colarizi, Storia politica della Repubblica 1943-2006, Editori Laterza, Roma-Bari 2011, pag. 160.
139 Ivi, p. 175.
140 G. Galli, Storia del Pci. Il partito comunista italiano: Livorno 1921, Rimini 1991, Kaos Edizioni, Milano, 1993, pag. 304.
141 M. J. Bull, La svolta di Occhetto e la crisi del Pci, in R. Catanzaro, F. Sabetti (a cura di), Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni, Il Mulino, Bologna, 1990, pag. 124.
142 G. Grant Amyot, La via italiana al riformismo. Il Pci e il nuovo corso di Occhetto, in R. Catanzaro, R. Y. Nanetti (a cura di), Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni, Il Mulino, Bologna, 1989, p. 137.
143 P. Ignazi, Dal Pci al Pds, Il Mulino, Bologna, 1992, pag. 66.
144 Ibidem.
145 Ivi, p. 67.
146 Ivi, p. 73.
147 M. J. Bull, La svolta di Occhetto e la crisi del Pci, in R. Catanzaro, F. Sabetti (a cura di), Politica in Italia. I fatti dell’anno e le interpretazioni, in, Il Mulino, Bologna, 1990, pag. 131.
148 Ivi, p. 133.
Carolina Polzella, Dc, Pci e Psi: la crisi delle grandi famiglie politiche nella “prima repubblica”, Tesi di Laurea, Università LUISS, Anno accademico 2018/2019

Nel 1984 l’improvvisa scomparsa di Berlinguer trascina il PCI, sull’onda della commozione, a un tardivo e irripetibile primato alle elezioni europee (33,3%, +0,3% rispetto alla DC). Isolato politicamente dall’accordo governativo DC-PSI, in calo di iscritti e di voti, con una crisi finanziaria di cui si iniziano a intuire le proporzioni, il PCI perde anche l’ultimo leader carismatico della sua storia.
Consapevole della crisi, il nuovo Segretario, Alessandro Natta, promuove un avvicinamento alla socialdemocrazia europea nel corso del XVII Congresso (1986) (Ignazi 1992: 60).
Tuttavia, le successive politiche del 1987 mostrano difficoltà maggiori del previsto (-3%), riportando il partito ai livelli elettorali del 1968, e convince la leadership a dare un segnale immediato di discontinuità con la nomina di Achille Occhetto alla Vicesegreteria. L’anno successivo un infarto di Natta è colto come occasione per l’avvicendamento tra i due: Natta è spinto alle dimissioni e il 21 giugno 1988 il Comitato centrale elegge Occhetto Segretario. Il nuovo leader lancia il progetto di un nuovo PCI che trova nel XVIII Congresso (1989) una prima importante tappa. Tuttavia, solo in seguito al crollo del Muro di Berlino, il 12 novembre 1989, da una Sezione bolognese, Occhetto annuncia la Svolta di fronte ai partigiani della Bolognina, citando Gorbačëv. La proposta di realizzare una nuova formazione politica con un nuovo nome viene formalizzata nei giorni successivi, prima in Segreteria, quindi in Direzione e al Comitato centrale: è l’avvio del processo di trasformazione che porterà in quindici mesi allo scioglimento del PCI e alla nascita del Partito Democratico della Sinistra […] Panebianco descrive il mutamento organizzativo di un partito come articolato in tre fasi: una prima aperta da una forte pressione ambientale, per esempio in seguito ad una sconfitta elettorale, che provoca una crisi organizzativa; nella seconda fase avviene un ricambio del gruppo dirigente, dunque della composizione della coalizione dominante; infine, si verifica la ristrutturazione organizzativa vera e propria, attraverso cambiamenti nelle “regole del gioco”
(revisioni statutarie, ristrutturazione dell’organigramma) e una ridefinizione degli “scopi ufficiali” dell’organizzazione al fine di legittimare il nuovo vertice (1982: 446-447). Trattando la specificità dei partiti comunisti, Bosco sottolinea inoltre il rapporto fra la percezione della sfida esterna e le strategie per una piena legittimazione democratica dell’organizzazione (2000: 272-277). La politologa mette in luce l’importanza della lettura da parte degli attori organizzativi della sconfitta come stimolo al cambiamento: “I partiti avviano un processo di mutamento in risposta a eventi che sono percepiti come «sfide» dagli attori intrapartitici” (Bosco 2000: 39). Il modello di Panebianco può essere facilmente applicato alla trasformazione del PCI di fine anni Ottanta: laddove la prima fase del mutamento si può far iniziare, contrariamente a quanto sarebbe normale aspettarsi da un Partito comunista, non con il crollo del Muro di Berlino nel novembre 1989, bensì con la sconfitta alle politiche del 1987. È infatti necessario considerare la peculiare posizione del PCI, che, specialmente per opera della segreteria berlingueriana, opta per un allontanamento dall’URSS e una progressiva ridefinizione dei contenuti, proseguita da Occhetto e affermata specialmente nel XVIII Congresso (1989); questo precede il crollo del Muro di diversi mesi, contribuendo a conferire a tale avvenimento storico un valore più simbolico che effettivo. Al contrario, le elezioni del 1987 incidono direttamente sulla strategia di legittimazione democratica del partito, sconfessandola, e premiando contestualmente proprio il nuovo PSI spregiudicato e anticomunista (Bosco 2000: 128-129). In questo senso tale sconfitta rappresenta un punto critico maggiore: essa viene infatti percepita come sfida e scatena una crisi interna (prima fase); la coalizione dominante risponde proponendo un parziale ricambio del gruppo dirigente promuovendo progressivamente Occhetto fino alla Segreteria (seconda fase); Occhetto propone cambiamenti delle regole del gioco, ma anche degli scopi ufficiali, attraverso prima una articolazione e quindi, in seguito all’evento-spartiacque del crollo del Muro di Berlino, una sostituzione dei fini ultimi del partito (terza fase) (Ignazi 1992; Bosco 2000).
[…] Tutta la storia del Pci è stata segnata dalla preponderanza della «questione dell’organizzazione». La bussola che ha orientato il gruppo dirigente nel ridefinire e mettere a punto le elaborazioni strategiche è sempre stata puntata, in primo luogo, su un obiettivo interno: il rafforzamento della natura intrinsecamente autoreferenziale del partito (Baccetti 1997: 31-32).
La letteratura è concorde nel ritenere centrale l’organizzazione nel PCI e nella costruzione dell’identità comunista, anche nella sua forma difensiva di orgogliosa diversità dagli altri partiti, accentuatasi con la seconda parte della Segreteria di Berlinguer (Ilardi e Accornero 1982: 3-33; Accornero e Mannheimer e Sebastiani 1983: 43 ss.; Flores e Gallerano 1992: 131). Nel partito, il primato dell’organizzazione, quasi un culto, era rafforzato dalla convinzione di aver costruito un modello efficiente ed efficace che aveva permesso ai comunisti di radicarsi nella società, di entrare nelle istituzioni e di preservare l’unità della comunità-partito (Fassino 1990: 37; Foa 1991: 228; Cundari 2003: 253-255) […]  Gli anni Ottanta sono anni “residuali” per il PCI, che fa l’esperienza di un rapporto problematico con l’ambiente (crisi della partecipazione, declino elettorale, grave indebitamento), anche per le sue caratteristiche di struttura orientata alla mobilitazione più che all’adattamento e alla rielaborazione (Flores e Gallerano 1992: 255; Rouvery 1989: 142). Crisi del consenso e crisi dell’organizzazione vanno di pari passo: il mantenimento di un’organizzazione ampia, diversificata -e quindi costosa- come quella del PCI in un periodo di declino elettorale, infatti, acuisce il deficit economico. Il dibattito sulla crisi di identità attraversa il partito nel corso della decade, ma a esso non corrispondono interventi sulla forma organizzativa; anche perché, come rivela uno studio del Cespe, tanto tra i quadri comunisti quanto tra i funzionari permane una fedeltà all’organizzazione superiore alla stessa identificazione ideologica (Accornero, Mannheimer e Sebastiani 1983: 9-17, 36). Intatta rimane dunque la contraddizione tra un’articolazione organizzativa di massa e un processo decisionale per l’elaborazione della strategia ancora legato a meccanismi e concetti del partito di quadri clandestino e rivoluzionario (Baccetti 1997: 143-145).
Assunto il ruolo di Vicesegretario nel giugno 1987, Occhetto affronta per la prima volta la questione organizzativa nel PCI nella sua relazione al Comitato centrale del 26-28 novembre. In questo documento sono presenti alcuni degli elementi che caratterizzeranno la narrazione occhettiana durante la Svolta: la discontinuità come valore, la centralità strategica delle riforme istituzionali, l’interdipendenza a livello internazionale. I punti che ci interessano maggiormente sono però due: la riforma del partito e la democrazia interna. Occhetto inserisce implicitamente la prima all’interno di un’analisi sulla fine del regime consociativo italiano, descrivendo il passaggio come necessario allo sblocco del sistema politico e alla costruzione di un’alternativa alla centralità democristiana fondata su un programma chiaro e condiviso (PCI 1987). Un forte accento sul programma, e quindi sul tema delle alleanze costruite attorno ai contenuti, era già presente nel XVII Congresso (1986) che istituì un organismo apposito, l’Ufficio di programma (diretto da Luciano Lama, con il Segretario Natta come presidente), pur di breve durata (De Angelis 2002: 325; Di Giacomo 2004: 10-11).
Dopo gli accenni contraddittori del Congresso del 1986, Occhetto tocca inoltre il tema della democrazia interna; tuttavia i tempi non sono ancora maturi per prese di posizioni nette e per dare sostanza e continuità normativa al dibattito in corso. Da una parte si evidenzia la necessità di garantire il diritto al dissenso e di rendere il PCI il partito delle componenti e non della maggioranza, dall’altra si difendono i meccanismi decisionali e gli strumenti esistenti di democrazia interna, attaccando i singoli che non se ne sono avvalsi e la loro pretestuosa richiesta di una formalizzazione delle correnti (PCI 1987: 37-39).
Con il XVIII Congresso (1989) la discontinuità si fa più marcata e la riforma del partito diventa un punto ineludibile del nuovo corso lanciato dal neosegretario. Il primo documento organico sul tema, La riforma del partito per un nuovo corso del Pci, viene sottoposto dal centro alle articolazioni inferiori prima dell’appuntamento congressuale del marzo 1989. In esso è presente la volontà di mantenere il carattere di massa del PCI, superando però il gap comunicativo che restituisce del partito un’immagine vecchia e statica: “è un problema di tecniche di comunicazione; ed è un problema di risorse e di uomini da investire in via prioritaria in questo settore” (PCI 1989a: 576). Una serie di proposte sono finalizzate a favorire la partecipazione: degli iscritti in primo luogo, attraverso un riequilibrio dei rapporti di forza interna a loro vantaggio (sia nelle procedure decisionali sia nella selezione dei dirigenti), ma anche degli elettori o dei simpatizzanti, ipotizzando nuove forme organizzative (anche al livello delle istanze di base, riformando le funzioni delle Sezioni e articolando le strutture in: orizzontali, verticali e tematiche) che ne incentivino il coinvolgimento, quali la possibilità di selezionare i candidati a cariche elettive tramite consultazioni primarie (PCI 1989a: 577-578). Si tratta di una linea che sarà mantenuta e ampliata durante gli anni a venire, trovando espressione anche negli eredi del PCI e in particolare nel PD. Qui il principio della democrazia interna si sviluppa in un sistema di scelta della leadership del partito che coinvolge direttamente gli elettori: le primarie, ovvero, nella loro prima apparizione del 2007, “il «big bang» democratico” (Veltroni 2007: 28; Edwards 2009: 217-218).
In questa prospettiva si possono leggere anche il mutamento degli organismi di controllo da organi di disciplina a organi di garanzia democratica, nonché gli interventi sul tema-chiave del centralismo democratico: il diritto al dissenso e il diritto alla proposta da parte di tutti i livelli dell’organizzazione; un ricorso più sistematico al voto segreto; una dialettica interna più libera, pur rigettando il sistema delle correnti organizzate, unica residuale concessione alla tradizionale diversità comunista (PCI 1989a: 579, 583-584). Nella prospettiva di limitare il potere del partito centrale e di rendere più efficiente l’organizzazione, altri punti rilevanti prevedono: una riduzione degli apparati anche mediante la valorizzazione del part-time e del volontariato militante (la “figura del dirigente funzionario” è comunque ritenuta “indispensabile”); un arricchimento di competenze, di conoscenze tecniche e specialistiche (nuovo rapporto con gli intellettuali); e, soprattutto, uno spostamento dei poteri verso il partito periferico, valorizzando la funzione di intermediazione del Comitato regionale, e verso il partito parlamentare, garantendo una maggiore autonomia degli eletti (PCI 1989a: 578-581, 584). Il capitolo sulle risorse non tratta esplicitamente della situazione critica delle finanze del PCI, ma essa emerge sia dallo spauracchio paventato del “meccanismo incontrollato dell’indebitamento”, sia dall’insieme delle vie ipotizzate per reperire fondi.
Francesco Andreani, The dissolution of the Italian Communist Party and the identity of the Left: ideology and party organisation, a thesis submitted to the University of Birmingham, 2013

[…] Che cos’è il PDS, la nuova “cosa” nata dal PCI, il Partito Comunista Italiano, dopo la caduta del Muro di Berlino nel 1989? Si tratta di comunisti rimasti tali, ma costretti a cambiare il nome e il programma per mantenere un consenso eroso dal fallimento del socialismo reale? O è il frutto di un mutamento reale, cioè di un ritorno ai princìpi della Rivoluzione francese, che non si sarebbero inverati in quella d’Ottobre, e quindi della ripresa del tentativo di coniugare libertà e uguaglianza senza sacrificare nessuna delle due? O, ancora – e sempre nell’ipotesi del mutamento reale -, si tratta della conseguenza politica della vittoria culturale del “pensiero debole”, e quindi della nascita del partito relativista, del “partito radicale di massa”, del partito del “pensiero debole” organizzato? Oppure, più semplicemente – come veniva spiegato nei Seminari di Formazione Anti-Comunista promossi da Alleanza Cattolica negli anni Settanta e Ottanta -, poiché il comunismo non esaurisce la Rivoluzione, dopo il fallimento ideologico e pratico del socialcomunismo, il processo di opposizione nella storia al piano di Dio sull’uomo e sulle nazioni, cioé appunto la Rivoluzione, continua attraverso altre tappe?
Per rispondere adeguatamente a queste domande bisogna anzitutto ripercorrere le fasi principali che hanno visto nascere il PDS: allo scopo, mi servo ampiamente uno studio di Piero Ignazi, ricercatore nel Dipartimento di Politica, Istituzioni, Storia dell’Università di Bologna (2).
[…] Secondo Piero Ignazi, il processo di cambiamento del PCI avviene in due fasi:
1. la prima va dalla sconfitta elettorale del 1987 alla caduta del Muro di Berlino nel 1989, ed è caratterizzata dall’“articolazione dei fini”, cioé da un parziale mutamento delle finalità del PCI e da un graduale abbandono della sua “diversità” organizzativa, cioé del “centralismo democratico”;
2. la seconda fase comincia nel 1989 con l’annuncio, da parte dell’on. Achille Occhetto, della radicale trasformazione del PCI e si conclude due anni dopo, nel 1991, con l’avvenuta “sostituzione dei fini”, cioé con la nascita di un soggetto politico che abbandona esplicitamente il progetto di instaurare una società comunista attraverso la lotta di classe e che rinuncia al centralismo democratico, permettendo ufficialmente la nascita di correnti all’interno del partito (3) […]
[NOTE]
(2) Cfr. Piero Ignazi, Dal PCI al PDS, il Mulino, Bologna 1992.
(3) Cfr. ibid., p. 20.
Marco Invernizzi, “Dal PCI al PDS”: le tappe e i contenuti di una metamorfosi rivoluzionaria, Cristianità, n. 225-226 (1994), Alleanza Cattolica