Ma la normativa comunitaria tutela il diritto di sciopero?

I fatti del caso Laval sono ormai forse troppo noti per poter essere riproposti tout court, ma vi sono taluni elementi della ricostruzione fattuale che permettono di smascherare perplessità giuridiche sottese ai fatti e che meritano dunque la nostra analisi.
Si premettono comunque poche sintetiche frasi per inquadrare i fatti.
La Laval è una società operante in Lettonia tramite una propria stabilita svedese, la Baltic, presta servizi in Svezia, e, nello specifico, la Baltic si è aggiudicata un appalto pubblico per la ristrutturazione di una scuola a Vaxholm, una piccola cittadina nell’arcipelago di Stoccolma. La Laval è riuscita a presentare un’offerta molto competitiva perché ha pianificato di distaccare i lavoratori lettoni in Svezia e di retribuirli e garantirgli condizioni lavorative che avrebbe assicurato in un cantiere lettone, magari promettendo anche qualche ulteriore vantaggio per invogliare i lavoratori a questa prestazione lavorativa transfrontaliera.
La Laval all’inizio dei lavori non era legata da alcun contratto collettivo né nel paese d’origine né in Svezia. Ai sindacati svedesi spetta, tra gli altri, il compito di verificare l’applicazione locale del contratto collettivo e, dunque, si recano negli stabilimenti per accertarsene. Non appena i sindacati hanno avuto consapevolezza del fatto che la Laval non applicava alcun contratto collettivo ai propri lavoratori hanno provato ad aprire le trattative ai fini della conclusione di un contratto collettivo aziendale.
La Laval d’un canto non ha manifestato una netta chiusura ma, alla fine, si è sottratta alla firma del contratto con il sindacato svedese, il quale ha cominciato ad intraprendere azioni collettive al fine di indurre la Laval a sottoscrivere il contratto collettivo, tra di esse interruzioni dell’attività del cantiere attraverso azioni secondarie di solidarietà.
In questa fase la Laval ha invece siglato un contratto collettivo con un sindacato lettone per porsi al sicuro da ulteriori richieste da parte del sindacato svedese.
Il sindacato svedese non poteva accettare che nel medesimo territorio vigessero contratti collettivi di nazioni diverse ove le condizioni lavorative da questi previste erano molto diverse, così ha continuato la sua protesta attraverso azioni di boicottaggio e scioperi di solidarietà posti in essere da parte del sindacato degli elettricisti. Questi scioperi hanno condotto al fallimento della Baltic e alla cessazione dell’attività in Vaxholm ma la Laval ha deciso di procedere in giudizio al fine di far dichiarare la violazione del suo diritto alla libera circolazione. La Corte ha dunque sottoposto delle questioni pregiudiziali alla Corte di Giustizia, sulle quali si tornerà a breve.
Su alcuni assunti che sono stati posti alla base della decisione occorre adesso soffermarsi
a) La Laval è una società stabilita in Lettonia.
Tale prima affermazione appartiene all’Avvocato Generale al punto 36 ed è successivamente avallata dal giudice comunitario e merita qualche parola in più. Che cosa si intende per stabilimento? Ecco il primo arnese di cui ci si è dotati nell’elaborato si rivela utile a meglio comprendere la reale vicenda che si cela dietro il neutro racconto dei fatti. La Laval non svolge alcuna attività in Lettonia suo paese di stabilimento e, come già sottolineato, ha scelto la Lettonia come suo luogo di stabilimento meramente giuridico: tale comportamento potrebbe configurare un utilizzo abusivo delle libertà di circolazione.
b) La Laval fornisce lavoratori distaccati alla Baltic, società costituita secondo il diritto svedese.
Questa affermazione nasconde la problematica giuridica che discende dalla mancata definizione del rapporto tra Laval e Baltic e, segnatamente, se esso possa essere ricostruito come rapporto di società madre e società figlia, nel qual caso la Baltic godrebbe di autonoma personalità giuridica e quindi dovrebbe essere la Baltic ad agire in giudizio o sia una mera succursale della Laval nel qual caso occorrerebbe verificare se Laval effettivamente svolga una qualche attività nel paese d’origine. Il punto non è approfondito né nelle Conclusioni né nella sentenza mentre avrebbe meritato maggiore attenzione perché suscettibile di chiarire meglio la realtà fattuale che nasconde il caso. Se fosse la Baltic l’impresa rilevante, in quanto stabilita, dovrebbe osservare la normativa svedese quanto a sua natura societaria e i lavoratori lettoni che sono utilizzati dalla Baltic dovrebbero, secondo le norme della Convenzione, vedersi
applicate le norme del luogo in cui prevalentemente svolgono attività lavorativa, dunque le norme svedesi. Non ci sarebbe alcun elemento di internazionalità a caratterizzare la fattispecie. Inoltre, per questo e per il motivo che segue non è nemmeno detto che ci si trovi in un’ipotesi di applicazione della direttiva o quantomeno questo andrebbe adeguatamente dimostrato. Su questo punto l’Avvocato Generale obietta al punto 107 delle sue Conclusioni che, in ogni caso, anche se l’attività della Laval fosse soltanto quella di somministrare lavoratori nell’ambito di un gruppo ciò sarebbe legittimo ai sensi della direttiva ed in particolare dell’articolo 1 n. e lett b), ma il distaccare lavoratori nell’ambito del gruppo, come già rilevato in sede di commento alla direttiva, viene interpretato solitamente pretendendo che la società che distacca i lavoratori sia una società che eserciti un’attività economica diversa dalla mera fornitura di manodopera, o almeno avrebbe potuto leggersi in tal senso dal momento che la stessa Corte ha riconosciuto nella sua sentenza “Arblade” che gli Stati hanno diritto ad evitare che alcune imprese utilizzino la libera
circolazione per indirizzare interamente o principalmente la propria attività verso il loro territorio per eludere le norme che sarebbero loro applicabili qualora avessero sede in Svezia <660, scartato dall’Avv. Gen. soltanto perché ritenuto non provato.
c) La Laval è una impresa prestatrice di servizi.
Anche questa è un’affermazione opinabile, come rilevano le stesse parti in causa <661 e come si è correttamente rilevato in dottrina, non si comprende bene quale sarebbe il servizio che la Laval fornisce visto che la sua attività coincide con quella di fornire la manodopera utile alla Baltic per poter adempiere alle proprie obbligazioni di ristrutturazione della scuola di Vaxholm, assunte con il comune in sede di aggiudicazione della gara d’appalto. Le parti in causa avevano dunque sostenuto che un’indagine in fatto avrebbe dimostrato che “la fornitura di forza lavoro da parte della Laval avevo lo scopo di far accedere i lavoratori lettoni al mercato del lavoro svedese” <662. L’Avvocato Generale sembra voler eludere la domanda e dapprima si riferisce al fatto che la Svezia non si è avvalsa delle possibilità di deroghe concesse dai trattati di adesione delle repubbliche baltiche e poi al fatto che comunque ciò non sarebbe stato adeguatamente provato. Già sviscerando queste problematiche si dimostra come la ricostruzione fattuale del caso Laval sia stata in parte influenzata dalla volontà di incanalare il discorso in un certo sentiero, quello di una implicita critica alle modalità con cui la Svezia ha dato attuazione alla direttiva.
Per quanto attiene al profilo della necessità di riportare nell’alveo dell’articolo 39 TCE le prestazioni lavorative svolte nell’ambito della prestazione di servizi, negata dall’Avvocato Generale al punto 109 e ss., si rinvia, invece, a quanto diffusamente riferito al paragrafo 1.4.
Ma vi è di più. Nella seconda fase, quella di abbandono delle trattative che pure Laval era stata disposta ad accettare nelle conclusioni si rileva che, prima di intraprendere l’azione collettiva, il sindacato si presta ad un accordo al ribasso rispetto a quello che aveva in origine proposto ed è, invece, la Laval che abbandona il tavolo delle trattative ed affrettarsi a concludere un contratto collettivo con gli operai lettoni <663: è importante rilevarlo perché dimostra che la scelta in ordine alla conclusione del contratto collettivo è assolutamente libera e non può ritenersi vi sia alcuna coercizione morale nella possibilità riservata ai sindacati di ricorrere all’azione collettiva. L’operazione, inoltre, è più intellegibile se si considera per quello che realmente è il sistema di negoziazione collettiva svedese, in cui lo sciopero è veramente eccezionale mentre il perno del sistema contrattuale è il contratto con l’obbligazione di pace sociale che scatta alla conclusione di un contratto collettivo, obbligazione che, però, mercé il disposto della “Lex Britannia” non era destinata ad operare ove il contratto collettivo sia concluso con sindacati esteri, ma alla ricostruzione del sistema svedese è opportuno dedicare un autonomo paragrafo.
Un rapido cenno meritano anche le due questioni pregiudiziali sottoposte: a) è compatibile con il trattato e con la direttiva un’azione collettiva per indurre un imprenditore straniero a siglare un contratto collettivo? b) è discriminatoria la appena citata “Lex Britannia”?
3.2 Il diritto fondamentale di intraprendere un’azione collettiva rientra nell’ambito di applicazione del Trattato?
Il primo argomento avanzato dal governo svedese e danese è quello che mira a sottrarre dall’ambito di applicazione del trattato le disposizioni nazionali a tutela dello sciopero e viene argomentato in due modi, in riferimento all’articolo 137 c. 5 e valorizzando la natura di diritto fondamentale riconosciuta al diritto di sciopero. Tralasciando la prima che sarà esaminata in sede di discussione in merito all’analisi del trattamento cui si riserva allo sciopero, qualche veloce osservazione in questa sede merita la prima. L’articolo 137 c. 5 del Trattato esclude ogni competenza comunitaria in materie di centrale rilevanza per il diritto del lavoro affermando che “Le disposizioni del presente articolo non si applicano alle retribuzioni, al diritto di associazione, al diritto di sciopero né al diritto di serrata”. Detto articolo è stato uno degli argomenti iniziali avanzato sia nel caso Laval che nel caso Viking che i sindacati hanno sostenuto al fine di garantire una esenzione della sottoposizione di queste materie all’applicazione del diritto comunitario. In effetti, però, già nelle conclusioni l’Avvocato Generale Mengozzi ha risposto seccamente alle argomentazioni del governo danese che voleva una intera esclusione del settore sociale dall’ambito applicativo definendola “palesemente indifendibile ed anacronistica” (punto 50), meno severa la risposta quanto all’esclusione che deriverebbe dal 137 c. 5 ma altrettanto netta perché “la competenza che gli Stati membri conservano in tale settore deve essere esercitata nel rispetto del diritto comunitario”. In verità l’argomento sollevato dalle parti in causa era piuttosto serio ed atteneva all’impatto drammatico che può avere la sottoposizione ad una mera attività di integrazione negativa alla quale non può corrispondere alcuna integrazione positiva. Ne risulta proprio per questi diritti ai quali i padri fondatori avevano riservato un trattamento speciale, la cui ragione fondamentale era che si riteneva importante che la regolazione di questi ultimi fosse di competenza nazionale, che essi si trovano paradossalmente nella situazione peggiore, quella di essere presi in considerazione soltanto come ostacoli alle libertà fondamentali. Ne è derivata una reazione fortemente polemica con la posizione assunta dall’Avvocato e poi avvallata dalla Corte che mi sembra possa comprendersi meglio rileggendo le parole della Ballestrero <664: “la Cgce non può fare rientrare dalla finestra delle libertà economiche garantite dal Trattato una competenza a decidere sulla legittimità dello sciopero, che è uscita dalla porta della riserva di competenza degli Stati”. In senso conforme si sono espressi molti altri autori <665, eppure, alcune voci si sono levate in favore della posizione espressa dall’Avvocato Generale: Orlandini ha infatti manifestatoperplessità in ordine alla possibilità di concedere una “immunità assoluta” al diritto di sciopero <666 e altri autori hanno invece rilevato l’opportunità di questa riflessione in vista di una reale presa di coscienza del fenomeno comunitario <667. Vi è poi chi ha correttamente segnalato una sorta di inevitabilità della decisione della Corte di Giustizia nonostante le apparenti esclusioni dal momento che non sarebbe nella tradizione della Corte “abdicare alla propria funzione giurisprudenziale” <668.
[NOTE]
660 Il punto viene citato anche dall’Avvocato Generale Mengozzi, Conclusioni presentate il 23 maggio 2005 causa C-431/05, p. 115
661 Lo ricorda l’Avvocato Generale Mengozzi, Conclusioni presentate il 23 maggio 2005 causa C-431/05 al punto 93 delle sue conclusioni
662 Contenuto sempre nelle Conclusioni presentate il 23 maggio 2005 causa C-431/05 al punto 100
663 Lo riferisce l’Avvocato Generale Mengozzi, Conclusioni presentate il 23 maggio 2005 causa C-431/05, al punto 38 delle sue conclusioni
664 BALLESTRERO M.V., Le sentenze Viking e Laval: la Corte di giustizia “bilancia” il diritto di sciopero, op. cit., p. 379
665 Ritiene irragionevole sul punto la decisione della Corte, CARABELLI U., Note critiche a margine delle sentenze della Corte di Giustizia nei casi Laval e Viking, op. cit., mentre VENEZIANI B., La Corte di Giustizia e il trauma del cavallo di Troia, op. cit., p. 310 dice che la Corte ha nei fatti dettato delle regole per l’esercizio del diritto di sciopero in ambito comunitario così “surrettiziamente aggirando il divieto che la Comunità si è imposta di regolazione della materia”.
666 ORLANDINI G., Diritto di sciopero, azioni collettive transnazionali e mercato interno dei servizi: nuovi dilemmi e nuovi scenari per il diritto sociale europeo, op. cit.
667 CARUSO B., I diritti sociali nello spazio sociale sovranazionale e nazionale: indifferenza, conflitto o integrazione? (prime riflessioni a ridosso dei casi Laval e Viking, op. cit., p. 19 e SCIARRA S., Viking e Laval: diritti collettivi e mercato nel recente dibattito europeo, op. cit., p. 263
668 BAVARO V., Tre questioni su quattro sentenze della Corte di Giustizia: a proposito di geo-diritto del lavoro, meta-diritto all’impresa e all’autonomia collettiva, in Il conflitto sbilanciato. Libertà economiche e autonomia collettiva tra ordinamento comunitario e ordinamenti nazionali, VIMERCATI A., (a cura di), Cacucci, 2009, p. 178
Elisa Saccà, La circolazione delle imprese nell’UE. Mobilità del lavoro e diritti collettivi, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Catania, 2010