Milano, «città da bere»

Milano viveva intanto una profonda trasformazione sotto il profilo sociale, culturale, politico ed economico. Durante gli anni ’80 le attività industriali abbandonarono progressivamente la città, ricollocandosi in aree periferiche o nel suo hinterland. Come ha scritto Giorgio Bigatti <557, non si era di fronte a un semplice declino dell’industria ma alla sua scomparsa dal tessuto cittadino e a stupire non furono soltanto le dimensioni, ma anche la rapidità con cui ciò avvenne: in appena un decennio venne cancellato più di un secolo di storia industriale milanese. Uno spaesamento messo nero su bianco nel 1993 da Corrado Stajano, che scrisse: «se ci si aggira a caso nelle strade e negli spazi della periferia nord di Milano che dal viale Fulvio Testi arriva a Sesto San Giovanni si capisce davvero che è caduto un mondo» <558.
L’effetto di questa delocalizzazione fu un accelerato processo di terziarizzazione, con una crescita delle attività dei servizi alle imprese e alle persone, con nuove professioni nel terziario avanzato e una rapida modernizzazione di quelle tradizionali. Per la prima volta iniziarono così ad assumere maggiore rilevanza sociale ed economica quelle attività legate alla produzione di beni immateriali nei settori non industriali come l’informazione, la comunicazione, la pubblicità, l’informatica, la finanza, lo spettacolo e il tempo libero <559. La città operaia si riempiva di imprenditori e lavoratori autonomi dei nuovi settori trainanti, assumendo sul piano nazionale il nuovo status di capitale della moda, della pubblicità e della televisione commerciale, che ben presto si identificò in quest’ultimo campo con l’imprenditore edile Silvio Berlusconi. Milano, insomma, divenne sempre più città dell’industria dell’informazione.
A livello urbanistico e socio-demografico, non solo diminuiva la popolazione di Milano a favore dei comuni dell’hinterland, trend che continuò per un trentennio, ma la chiusura delle fabbriche aveva restituito alla città milioni di metri quadrati di aree da bonificare e ridestinare <560, con tutte le opportunità di speculazione edilizia che ciò comportava e, purtroppo, avrebbe comportato.
La città tendeva a trasformarsi da luogo residenziale a luogo di consumo, come era già accaduto a molte città americane, in cui venivano offerte attività direzionali e finanziarie, oltreché servizi pubblici e privati. Milano, come ha scritto Martinotti, assumeva sempre più la fisionomia di «metropoli di seconda generazione» <561, dove ai lavoratori e ai residenti si aggiungevano quelli che andavano in città come semplici consumatori di beni e servizi. L’avvento del post-fordismo portò anche a una crisi del welfare e al relativo problema della distribuzione di reddito e della povertà: ai lavoratori altamente qualificati si affiancò la vasta platea dei working poor, i lavoratori scarsamente qualificati precari, con un reddito inferiore al livello di povertà. Se prima, nella Milano fordista, difficilmente un lavoratore era povero, nel nuovo ciclo si poteva (e si può) essere poveri lavorando <562.
Mentre erano in corso queste trasformazioni socio-economiche, mutava anche la cultura dominante, che rifletteva una diversa e nuova gerarchia di valori che veniva riassunta nel celebre slogan simbolo di quegli anni, Milano da bere, tratto dallo spot del 1985 dell’Amaro Ramazzotti.
L’individualismo, il disinteresse per la politica attiva, l’ostentazione del proprio sé, nonché la riduzione della povertà da male sociale a colpa individuale, dove il successo e l’insuccesso dipendevano unicamente dalle capacità del singolo: interprete e cassa di risonanza di questo nuovo milieu culturale fu la televisione commerciale della Fininvest, che trasformò l’immagine di Milano agli occhi di tutta Italia. La nuova Milano ben si sposava con la spregiudicatezza politica della forza politica egemone, il PSI di Bettino Craxi, punto di riferimento di questa nuova cultura fondata sulla valorizzazione dell’individualismo, dell’imprenditorialità, del senso degli affari, del consumismo, che dava voce anche a un atteggiamento di fondo anti-intellettualistico e anti-moralistico divenuto molto popolare fra i nuovi ricchi del capoluogo lombardo <563.
Questa nuova mobilitazione individualistica della società civile non generò, tuttavia, una nuova ondata di impegno e di partecipazione politica <564: i giovani si orientavano sì in nuovi movimenti, come quelli ecologisti e pacifisti, ma in alternativa alla militanza politica classica nei partiti che aveva caratterizzato il decennio precedente. Anche la partecipazione al volontariato socio-assistenziale divenne un’alternativa all’impegno politico delle generazioni precedenti <565.
Milano si trasformò nell’emblema del nuovo potere socialista e tornò ad essere la base privilegiata delle relazioni con il mondo dell’economia e degli affari. In quel contesto iniziò ad affermarsi e a conquistare una certa egemonia culturale un nuovo spirito speculativo dell’habitus milanese, che vedeva personaggi siciliani come il costruttore Salvatore Ligresti, di cui si parlerà diffusamente più avanti, al centro di un reticolo sociale di potere legati a doppio filo con la politica craxiana a Milano e con la politica democristiana a Roma. Eppure già agli albori di quel nuovo sistema di potere si intravedeva il marcio sotto il restyling pubblicitario della città, esattamente come era successo nel 1881 quando si era fondato il mito della capitale morale. Basti pensare allo scandalo generato nel 1983 dall’inchiesta San Valentino, con la scoperta in via Larga 13, a pochi metri dal Duomo e dall’Università Statale, della centrale operativa del riciclaggio di Cosa Nostra e il coinvolgimento della Banca Rasini, di cui si parlerà nel capitolo 7. Questa nuova indifferenza ai principi dell’etica pubblica e privata, con una spregiudicatezza mai vista nell’amministrazione e nella lottizzazione della cosa pubblica, divenne il tratto distintivo di questa nuova classe dirigente politica ed economica milanese imperniata sul partito socialista craxiano. Scrisse Giorgio Bocca, molti anni dopo: «i Borrelli, i Di Pietro dovevano, per così dire, ancora nascere e il partito di Craxi delle tangenti e degli assessori era già in piena metastasi, raccoglieva tutti gli avventuristi e opportunisti dei famosi ceti emergenti, li radunava in congressi hollywoodiani, ma nel contempo svuotava le sezioni di partito: nelle 37 sezioni milanesi gli iscritti se ne andavano, i militanti si trasformavano in esattori di tangenti, il partito scompariva dall´hinterland e lasciava ai parroci il compito di far fronte all´immigrazione e alla delinquenza» <566.
E che l’altra faccia della medaglia della nuova modernità milanese fosse ben conosciuta già a quei tempi fu chiaro il 20 aprile 1984, quando il nuovo Arcivescovo Carlo Maria Martini iscrisse la corruzione nella triade delle pesti che infestavano la città (le altre due erano la solitudine e la violenza), tanto che nel 1985 venne fondato il circolo Società Civile, che poi diede vita anche a un mensile, con lo specifico programma di opporsi al degrado della vita civile ambrosiana.
In una città che veniva sorseggiata e spolpata da corrotti e mafiosi nell’indifferenza generale, oramai la forza dei dirigenti politici diventava sempre più dipendente dal ruolo detenuto nel controllo dei flussi finanziari statali e dei mezzi di comunicazione di massa <567. E mentre il vecchio sistema dei partiti si stava «scavando la fossa da solo», la sfiducia dei cittadini apriva nuovi spazi a scelte politiche di tipo nuovo, che in prima istanza vennero intercettati dal partito radicale e dai Verdi, ma che lentamente avrebbero assunto una nuova dimensione politica, che recuperava un antico cavallo di battaglia della cultura milanese e lombarda pre-unitaria e ottocentesca: la secessione e l’indipendenza dal centro politico.
[NOTE]
557 BIGATTI, G. (2017). “Milano, deindustrializzazione senza declino”, in Storia in Lombardia, XXXVII, 1/2, Milano, Franco Angeli, p. 235
558 Stajano (1993), Disordine, Torino, Einaudi, p. 102, citato da Bigatti, op.cit., p. 234.
559 Biorcio, op.cit., p. 1045-1046
560 Bigatti, op.cit., p. 236
561 MARTINOTTI, G. (1993). Metropoli. La nuova morfologia sociale della città, Bologna, il Mulino, pp.145-152
562 BONOMI, A. (1997). Il capitalismo molecolare, Torino, Einaudi, p. 97.
563 Rositi, Milano, un caso di squilibrio di status, cit. p. 338
564 Biorcio, op.cit., p. 1047
565 Pellizzari, T. (1999). 30 senza lode. Autodifesa di una generazione disprezzata: i giovani degli anni Ottanta e Novanta, Mondadori, Milano, pp. 71-106
566 Giorgio Bocca, Giù le mani da Berlinguer, L’Espresso, 12 settembre 2003
567 Biorcio, op.cit., p. 1049
Pierpaolo Farina, Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020