Nell’autunno del 1938 il Tevere ha segnalato i collaboratori della Cometa come servi di ideologie e di losche congiure

Fig. 23 – Corrado Cagli, Fiori, 1937 – Olio su tavola, cm 43×34 – Firmato in basso a sinistra: “Cagli” – Collezione privata – Fonte: Chiara Costa, Op. cit. infra

Alla Galleria La Cometa di Roma, essenziale per la sua azione promotrice in un momento storico così complesso, Cagli inaugura, il 15 aprile 1935, la mostra – presentata da Massimo Bontempelli <278, suo zio – Corrado Cagli 50 disegni, attaccata congiuntamente dal “Tevere” <279 e dal “Quadrivio”. Proprio Cagli, che nel 1937 esegue Fiori (fig. 23) e Natura morta (tav. 16), opera in cui spicca una candela presente, poi, anche nel dipinto Il cranio e la candela del 1940 (tav. 17), è costretto ad abbandonare l’Italia l’anno successivo, in quanto ebreo.
A sua volta Libero De Libero, nell’autunno del 1938, si vede costretto a chiudere «dinanzi agli insulti, alle vendette, alle accuse del “Tevere”, che ha segnalato i collaboratori della Cometa come servi di ideologie e di losche congiure» <280. Infatti tutti gli artisti che vi espongono vengono attaccati come fautori di un’arte degenerata e decadente, in quanto internazionalista: da Manzù – amico di Tomea con il quale esiste un documentato rapporto epistolare <281 – a Tosi, che pure si concentra, nelle sue nature morte, sul problema espressivo e non sul messaggio politico-sociale.
Carlo Levi, che espone alla Galleria di Roma, viene arrestato due volte per attività sovversive e condannato al confino nel 1935: graziato, espatrierà in Francia, da cui ritornerà solo nel 1943.
Autore di una Natura morta con teschio nel 1924 <282 e di una Natura morta con melograni nel 1930, Levi appartiene al Gruppo dei Sei di Torino, promosso da Edoardo Persico <283, che nella mostra del 1932 presso la Galleria del Milione, di cui ha assunto la direzione due anni prima, propone, tra gli altri, Renato Birolli, Giacomo Manzù, Fiorenzo Tomea e Aligi Sassu: quest’ultimo sconterà un anno e mezzo di carcere per attività antifascista e diffusione di stampa clandestina. Alcuni artisti, infatti, affiancano al pennello <284 anche la penna per lanciare i loro strali avvelenati. E così Mino Maccari, che fa di Ugo Ojetti un bersaglio per i propri versi <285, dipinge nel 1929 Spagna (fig. 63), in cui le personificazioni della nazione spagnola e della morte si stringono in una travolgente danza macabra <286.

Fig. 63 – Mino Maccari, Spagna, 1929 – Acquarello su carta, cm 44×32 – Firmato in basso a destra: “Maccari”; datato e intitolato in basso a sinistra: “Spagna 1929” – Roma, collezione privata – Fonte: Chiara Costa, Op. cit. infra

Il motivo dello scheletro danzante è affrontato, inoltre, da Carlo Carrà, che nel 1944 realizza dodici litografie su zinco per il volume Versi e prose di Arthur Rimbaud, edito dalla Conchiglia nel 1945 <287. Tra le illustrazioni, infatti, si trovano Gli scheletri e «uno Scheletro danzante che si incurva nel balletto e flette le ossa in modo innaturale, con movenze talmente eleganti e aggraziate da sembrare femminee. La figura ossuta regge la scena da sola, pare addirittura divertirsi, sorridendo e salutando con la mano» <288: «un bello scatto visionario e una perfetta fusione tra testo e immagine (le poesie di riferimento sono I corvi e Il ballo degli impiccati) consentono di “sentire” – con le grafiche in bianco e nero […] – le profonde lacerazioni di un’anima sconquassata» <289.
Mino Maccari non si limita, tuttavia, a qualche freddura diretta a critici e giornalisti affermati. L’autore della serie Dux del 1943 <290 scrive su “Critica fascista”, rivista del Ministro dell’Educazione Nazionale, per rispondere al dibattito sul tema dell’arte fascista <291. Interviene, inoltre, sulle pagine di “Primato”, diretta ancora una volta da Bottai – oltre che da Vecchietti -, in cui pubblica alcuni disegni, acquerelli, illustrazioni ed esprime le proprie scomode opinioni: «Se fossimo amici delle lapidi, proporremmo che ne venisse collocata una nella Galleria di Roma, a ricordo della mostra tenuta dai pittori Guttuso, Guzzi, Montanarini, Tamburi e Ziveri in compagnia dello scultore Fazzini; i quali tutti, giovani al di sotto o vicini ai trent’anni, hanno saputo opporre, sul terreno concreto dei fatti, una indubbiamente seria e nobile smentita al recente fastidiosissimo vaniloquio sulle presunte colpe e degenerazioni della nostra produzione artistica contemporanea» <292.
Non si risparmia neppure Fausto Pirandello, che nei suoi scritti sferza Ojetti più volte, persino dalle pagine di “Quadrivio” <293, diretto da Telesio Interlandi, suo collezionista, ma anche fondatore della rivista “Difesa della Razza”. Le ragioni di tale atteggiamento si possono intuire dall’autopresentazione che Pirandello pubblica nel catalogo della II Quadriennale di Roma nel 1935: «Il momento artistico attuale ha una storia così complessa che sarebbe assai saggio partito non arrischiarsi a parlarne. […] Pare sia colpa di un’eccessiva critica: e forse non dipende che dalla personalità degli artisti: ma è anche più vero che non siano che pure e semplici ragioni politiche ad aver influito così stranamente a sovvertire le naturali funzioni dell’arte» <294. Secondo Fausto Pirandello, l’arte deve sfuggire a ogni forma di revival: «Ho pensato agli antichi: essi sempre hanno riprodotto la vita attuale e la favola eterna. Mettere questa favola eterna sotto le vesti moderne, nella vita moderna. Così può nascere il quadro» <295; una posizione che senz’altro dimostra di saper rispettare in quell’originale interpretazione del repertorio tradizionale della vanitas che è Metafisica di un santo del 1934 (fig. 87). In essa raccoglie ed esibisce gli oggetti “sacerdotali” che accompagnavano la vita di un “santo” che ormai non c’è più: un rosario, un paio di scarponcini consunti, una rosa rinsecchita, una pisside, due candele usate e alcuni santini. Il titolo potrebbe giocare sulla polivalenza della parola “metafisica”, con la verve che lo contraddistingue: ora alludendo alla pratica di creare accostamenti inusuali e stranianti propri dell’arte metafisica, senza tuttavia condividerne lo spirito melanconico; ora recuperando il significato originario della parola greca, lasciando intendere che proprio l’assenza del protagonista di questo improvvisato altare è l’elemento “meta-fisico” dell’opera.

Fig. 87 – Fausto Pirandello, Metafisica di un santo, 1934 circa – Olio su tavola, cm 56,5×50,5 – Firmato in basso a destra: “Pirandello” – Torino, collezione privata – Fonte: Chiara Costa, Op. cit. infra

Legami trasversali si ripropongono, ancora, tra artisti di diversa ispirazione, se si considera come nell’ambito di “Corrente” «trovano spazio sia la versione di impegno sociale di un clima antinovecentista (Guttuso, Manzù, Birolli, etc), sia la versione meno esposta politicamente e più orientata verso un ripiegamento sulle proprie origini, più consona al sentire di Tomea» <296. E proprio Guttuso, tra 1940 e 1942, realizza una serie di eloquenti vanitates.
[NOTE]
278 Bontempelli fa inoltre parte della giuria nella collettiva Dieci pittori (Birolli, Bogliardi, Cagli, Capogrossi, Cavalli, Ghiringhelli, Paladini, Pirandello, Sassu, Soldati) tenutasi nel maggio 1932 alla Galleria Roma e, nel novembre dello stesso anno, presenta la mostra inaugurale della Galleria Sabatello, a cui fa riferimento anche Cagli. Nell’aprile del 1933, l’artista invia al Kunstverein di Vienna il Ritratto di Bontempelli. Nel maggio dello stesso anno Bontempelli ospita il testo Muri ai pittori di Cagli sulla rivista “Quadrante”, di cui è direttore con Bardi.
279 Lo stesso Interlandi sfiderà pubblicamente Bontempelli che lo aveva accusato di antisemitismo, rinfacciandogli: «Non è forse Bontempelli che mi raccomandò per iscritto Cagli, proponendomelo come critico d’arte al “Tevere”? Egli forse mi proponeva un ebreo? No mi proponeva un italiano» (T. INTERLANDI, C’è a Roma un focolaio ebraico?, in “Quadrivio”, n. 18, I marzo 1936, in E. PONTIGGIA (a cura di), Massimo Bontempelli. … cit., p. 155). Contro il razzismo di Telesio Interlandi Mino Maccari scrive alcune rime sarcastiche: «A Telesio Interlandi / or ciascun si raccomandi / presentando, com’è logico, / l’albero genealogico» (M. DE MICHELI, Carte d’artisti. le avanguardie. Lettere, confessioni, interviste, Bruno Mondadori, Milano 1995, p. 176).
280 Lettera del settembre 1938 di Libero De Libero alla contessa Anna Laetitia Pecci-Blunt, proprietaria della galleria La Cometa, che nel 1940 abbandona Roma per New York (in P. VIVARELLI, La politica delle arti figurative … cit., p. 30).
281 In una lettera del 5 aprile 1932, conservata dalla famiglia Tomea, Manzù scrive: «Carissimo Tomea […] In merito ai disegni Ghiringhelli ti ha inviato quelli che lui aveva e ora io penserò a mandarti quelli che hai chiesti a Sassu
essendo lui in campagna con Grosso» (in A. ALBAN, Fiorenzo Tomea, un solitario della pittura … cit., p. 15). Anche con Luigino Grosso sembra esistere un legame di stima se nel periodo in cui Tomea era soldato a Udine, Manzù e Grosso gli scrivono: «Fatti coraggio che passerà anche questa, dopo sarai fra noi che ti vogliamo bene e tu allora farai della pittura come un leone, sai che ho idea che in Italia, gli unici pittori sul serio sarete tu e Sassu, vedrai! […] perché siete gli unici che abbiano da dire la verità» (Ibidem).
282 Natura morta con teschio, 1924, olio su cartone, cm 60×40. 283 Persico, scrivendo a Melotti, elogia un disegno di Tomea: «una cosa bellissima ed assai significativa […] C’è dentro tutto il problema dei giovani e la rivoluzione davvero impressionante di questa ‘forma nuova’ alla quale tanti aspirano» (in A. ALBAN, Fiorenzo Tomea, un solitario della pittura … cit., p. 16).
284 La mostra che nel 1937 Mafai dedica alle Demolizioni operate dall’amministrazione fascista è considerata, a sua volta, una provocazione. Su questo punto anche Ojetti manifestò il proprio dissenso: «un argomento per lui fondamentale e fortemente condiviso con lo stesso D’Annunzio, cioè la battaglia contro sventramenti, demolizioni e deturpazioni a Roma, Lucca, Firenze, Bologna e Perugia»: M. NEZZO (a cura di), Ritratto bibliografico … cit., p. 49.
285 «Quando le belve si fan pigre/ Ugo Ojetti diventa una tigre»: M. MACCARI, in M. DE MICHELI, Carte d’artisti … cit., p. 175.
286 Un’inquietante interpretazione contemporanea del motivo della danza macabra è offerta, inoltre, dai venti disegni con cui Yan-Bernard Dyl illustra La danse macabre, testo di Pierre Mac Orlan pubblicato nel 1927. Infatti, nelle illustrazioni di Yan-Bernard Dyl, caratterizzate da un linearismo graffiante e da una cromia essenziale giocata sui contrasti, la Morte, che assume le fattezze di uno scheletro, segue i protagonisti nelle loro folli corse in automobile, presenzia alle loro sconfitte presso il tavolo da gioco e accompagna le donne in un ballo travolgente, al ritmo di una musica eseguita da lei stessa. Il ghigno malvagio del suo teschio esalta, infine, il significato funesto di un’immagine che già dichiaratamente si ispira all’iconografia tradizionale della danza macabra. Il motivo della donna con lo scheletro conosce grande fortuna anche nel XXI secolo. Marina Abramović, a esempio, autrice della performance Balkan Baroque alla Biennale di Venezia del 1997 e nel 2005 di Balkan Erotik Epic: Banging the Skull (Marina), esegue nel 2008 Carrying the skeleton I. In quest’opera l’artista indossa abiti neri, come l’ambiente in cui si trova, e cammina a testa china e a piedi scalzi portando sulle spalle uno scheletro femminile. L’immagine non tradisce la presenza di alcun elemento contingente o accidentale e il messaggio è trasmesso con un linguaggio emblematico per
essenzialità e pregnanza.
287 Si veda: E. PONTIGGIA (a cura di), Carlo Carrà. I miei ricordi. L’opera grafica 1922-1964, catalogo della mostra (Milano, Fondazione Stelline, 25 marzo – 29 maggio 2004), Medusa, Milano 2004.
288 A. ZANCHETTA, Frenologia della vanitas. Il teschio nelle arti visive, Johan&Levi, Milano 2011, p. 56. Scheletri che possiedono un’analoga naturalezza si incontrano, inoltre, nell’opera di Paul Delvaux Les Squelettes, sempre del 1944. 289 A. GASBARRINI, Rimbaud nelle arti figurative: dall’Impressionismo all’Inismo, in “Bérénice”, a. XIV, nn. 36-37, novembre 2006, p. 69. Tra le illustrazioni che Carrà realizza per il volume Versi e prose di Arthur Rimbaud si trova, inoltre, un Demone ai cui piedi giace un cranio umano. 290 A proposito della rappresentazione affascinata, servile o sarcastica di Mussolini si veda: G. DI GENOVA (a cura di), “L’uomo della Provvidenza” … cit.. In relazione all’iconografia del Duce in Mino Maccari si veda: A. PARRONCHI (prefazione), G. NICOLETTI (presentazione), N. AJELLO e altri (testi), Omaggio a Mino Maccari nel centenario della nascita. Il lungo dialogo di Maccari con il suo tempo. Mostra antologica 1921-1989, catalogo della mostra (Grosseto, Città di Grosseto, s.d.), Pananti, Firenze 1998. 291 Il dibattito muove dal discorso che Mussolini tiene il 5 ottobre 1926 all’Accademia di Belle Arti di Perugia. Sin dall’ottobre dello stesso anno, Bottai trasferisce il confronto sulla propria rivista “Critica fascista”, a cui si rivolgono, tra gli altri, Maccari, Soffici, Malaparte, Cecchi, Bragaglia, Oppo, Pavolini e Massimo Bontempelli che inevitabilmente sostiene il programma di “Novecento” (M. BONTEMPELLI, Arte fascista, in “Critica fascista”, n. 22, 15 novembre 1926).
292 M. MACCARI, Sei giovani, in “Primato. Lettere e arti d’Italia”, a. I, n. 1, XVIII, 1 marzo 1940, p. 21.
293«Quale nostro modesto contributo alla fattiva opera del Sindacato B. A. rivolgiamo una prima lista di desiderata della categoria alla benevola attenzione delle preposte Gerarchie: […] Obbligo ai giornalisti, cronisti e critici d’arte perché finalmente si decidano a fare qualche intelligibile distinzione, e il primo passo per un accordo di giudizio, di stampare nei loro scritti, i nomi degli artisti da loro citati, secondo una speciale tabella di differenti caratteri tipografici da stabilirsi. Esempio: Accademici … grassetto/ Consiglieri … neretto/ Primi premi … corpo x/ Invitati … corpo Y/ Articolati da Ojetti … corpo z/ Disarticolati … corpo di bacco e via via fino agli scartati alla Sindacale di Cerignola»: F. PRANDELLO, Quaderno. Desiderata, in “Quadrivio”, Roma, 6 settembre 1942, p. 3. L’artista scrive per il settimanale letterario più di trenta articoli con illustrazioni, nella rubrica Quaderno, tra il 5 aprile 1942 e il 31 gennaio 1943. 294 Seconda Quadriennale d’Arte Nazionale. Catalogo generale, catalogo della mostra (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 5 febbraio – 31 luglio 1935), Tumminelli & C., Roma 1935, p. 45.
295 M.L. AGUIRRE D’AMICO, Fausto Pirandello. Piccole impertinenze. Frammenti di autobiografia e altri scritti, Sellerio, Palermo 1927, n. 24, pp. 37-38.
296 B. SALERNO, Tomea … cit., p. 14.
Chiara Costa, Il genere della vanitas nel periodo del ventennio fascista, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Padova, 2012

Tav. 16
Corrado Cagli, Natura morta, 1937
Olio e tempera su cartone, cm 35×45
Firmato in basso a sinistra: “Cagli”
Roma, collezione privata
Esposizioni: Firenze, 1979; Verona, 1989.
Bibliografia: La Fondazione Cagli per Firenze, 1979, fig. n. 9; Corrado Cagli. Mostra antologica, 1989, p. 67, fig. n. 62, ill. b/n..
La cui fiamma vibrante di una candela accesa muove i profili degli oggetti, illumina la rete sullo sfondo e il pesce ai piedi del candeliere: un’inquietudine silenziosa, una tensione inespressa sembra animare questo dipinto, che Cagli esegue nel 1937, un anno prima di lasciare l’Italia a causa delle leggi razziali.
Chiara Costa, Op. cit.

Tav. 17
Corrado Cagli, Il cranio e la candela, 1940
Tecnica mista su carta intelata, cm 32×23
Firmato e datato in basso a destra: “Cagli 40”
Roma, collezione privata Esposizioni: Roma, 1964; Palermo, 1967; Palermo, 1968; Firenze, 1972; Ancona, 1980; Roma, 1984; Siena, 1985; Taormina, 1986; Verona, 1989.
Bibliografia: Corrado Cagli, 1964, fig. n. 7; Mostra Antologica di Corrado Cagli, 1967, fig. n. 124; Gatto, 1968, ill.; L’Opera di Corrado Cagli, 1972, fig. n. 301; Crispolti, Crescenti, 1980, fig. n. 25; Bignardi, 1984, p. 40; Crispolti, 1985, fig. n. 139; Cagli. Miti a Taormina 1931-1976, 1986, fig. n. 20; Corrado Cagli. Mostra antologica, 1989, p. 72, fig. n. 68, ill. c..
Il motivo tradizionale del giovane melanconico di fronte al teschio ricorre spesso nelle opere XX secolo. Nel dipinto Il cranio e la candela un uomo siede melanconico a un tavolo su cui arde una candela, appoggiando il capo sulla mano destra e tenendo un cranio nella sinistra; non indossa abiti comuni, ma una veste che per i colori e il peculiare copricapo, simile a una corona o a un cappello da giullare, ricorda il costume variopinto del Bagatto. Il suo sguardo tradisce pensieri a cui alludono gli emblemi più evocativi della Vanitas, che l’artista, in fuga dall’Italia per le sue origini ebree, non esita a utilizzare.
Chiara Costa, Op. cit.