Nelle sezioni del Pci Procacci scopre quindi una nuova idea di movimento operaio

Prima di entrare nel merito del tema di questa riflessione, vorrei spiegare il perché di questa scelta, che ha un’origine in qualche modo autobiografica. Io non sono stato allievo di Procacci, sono stato però suo amico e destinatario di un’affettuosa e generosa amicizia, che risaliva alla fine del 1967. Giuliano aveva appena pubblicato il suo libro più famoso, la “Storia degli italiani”, uno studio unico, perché andava dall’anno 1000 al 1964. Una storia generale, diciamo così, del farsi Nazione e poi del farsi Stato dell’Italia lungo molti secoli, che gli era stata commissionata dall’editore Fayard, su proposta di due grandi storici della rivoluzione francese suoi amici: Richet e Furet. Io ero in partenza per l’Inghilterra, dove avevo guadagnato una borsa di studio alla London School of Economics e mi trasferivo lì per un anno con la mia famiglia. Giuliano aveva concluso un ciclo di ricerche molto denso e impegnativo, di cui l’altro grande libro era stato la “Fortuna di Machiavelli”, pubblicato nel 1965. Aveva colto quindi l’occasione di un invito di Stuart Woolf a tenere dei seminari machiavelliani all’Università di Reading anche per riposare due mesi, che
trascorse in parte frequentando un suo grande amico, lo scrittore Luigi Meneghello, che insegnava italiano a Reading da molti anni. Non so perché, sebbene ci fossimo conosciuti da poco, Giuliano sentì calore nel nostro rapporto e mi chiese di ospitarlo durante il suo soggiorno a Londra, nel febbraio-marzo del 1968. Così nacque tra noi una vera amicizia, che poi è durata fino alla disgraziata occasione della sua improvvisa scomparsa l’anno scorso.
Cosa c’era all’origine della mia predilezione per Procacci? Forse, riflettendoci col senno di poi, il fatto che sia lui che io siamo nati come storici delle idee: la storia delle dottrine politiche. Ma c’era anche un altro elemento biografico comune: io avevo un amico fraterno, Franco De Felice, purtroppo morto 10 anni prima di Giuliano, e nel piccolo gruppo di intellettuali baresi che negli anni ‘60 ruotavano intorno alla casa editrice Laterza e poi, negli anni ‘70, alla De Donato, De Felice era sicuramente il più avanti nella vocazione di intellettuale e di storico. Con lui condividevo il giudizio che Giuliano Procacci fosse il più grande storico italiano della sua generazione. Franco De Felice era stato redattore della casa editrice Laterza subito dopo di me, e nei primi anni ‘60 ebbe un ruolo importante, insieme a Donato Barbone e Mario Santostasi, nell’aprire le edizioni Laterza alla cultura marxista. La prima operazione in cui riuscirono fu quella di far pubblicare “Il Sud nella storia d’Italia”, l’antologia sulla questione meridionale di Rosario Villari; poi venne “Il socialismo nella storia d’Italia” di Gastone Manacorda, la “Storia degli italiani” di Procacci, fino alla “Storia del paesaggio agrario” di Emilio Sereni.
Anche attraverso quelle esperienze si era stabilita in noi una chiara predilezione per Procacci e forse lui la colse innanzitutto nel rapporto con De Felice, un rapporto di stima e di solidarietà che giunse fino al ruolo che Giuliano ebbe nella chiamata di Franco all’università la Sapienza di Roma, subito dopo la morte immatura di Paolo Spriano nel 1988, per ricoprire la cattedra di Storia contemporanea: un sodalizio intenso di due intellettuali di diversa generazione, ma dello stesso «mestiere»; il mio «mestiere», invece, è molto più indeterminato.
Ricordo tutto questo perché, nei mesi della permanenza di Giuliano a Londra, io cercavo di approfittare del fatto che l’avevo in casa per imparare da lui; però, essendo anche un giovane con poca storia alle spalle e molta irruenza, lo assillavo con la richiesta di conoscere quale fosse la sua teoria della storia e della storiografia. Giuliano invece era molto restio ad esplicitare i presupposti concettuali e metodologici delle sue ricerche: in realtà non l’ha mai fatto in uno studio a sé, se non inizialmente, tra il 1951 e il 1952, quando, attendendo alla sua prima grande opera di modernista, “Classi sociali e monarchia assoluta nella Francia della prima metà del secolo XVI”, pubblicata nel 1956 da Einaudi, frutto di quasi 10 anni di lavoro, scrisse due saggi per «Società», diretta allora da Gastone Manacorda. Al rientro dalla Francia, Gastone lo aveva accolto subito fra i suoi amici ed ebbe un ruolo importante nell’introdurlo nell’ambiente degli storici comunisti italiani. Solo in quei due saggi, che avevano a che fare con il tema della sua prima opera, Giuliano sentì la necessità di esplicitarne i fondamenti metodologici. Tuttavia io avvertivo che Procacci non era uno «storico dei fatti»: non perché fosse prevalentemente storico delle idee, ma perché c’era in lui una forte tensione alla concettualizzazione della ricerca storica.
Nel 2005 l’Istituto Gramsci aveva deciso di preparare un volume di scritti in onore di Giuliano in occasione del suo ottantesimo compleanno ed io sentii l’esigenza di riprendere quella domanda che aveva animato fin dall’inizio il mio rapporto con lui, e alla quale Giuliano si era sempre sottratto per quasi 40 anni. Quindi scelsi di dedicare il mio contributo nel volume collettaneo, promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci a lui dedicato, nel 2006, che non a caso si intitola “La passione della storia”, ai suoi scritti di storia del marxismo. Non c’è alcun saggio, fra quelli che prenderò in esame, che abbia il termine marxismo nel titolo; tuttavia credo di poter dire che, per il modo in cui Giuliano definiva il rapporto tra politica e ricerca, solo risalendo al suo giovanile incontro col marxismo si può ricostruire sia la motivazione etico-civile, sia il percorso delle innovazioni tematiche e metodologiche che hanno caratterizzato il suo ampio programma di ricerca.
É opportuno ricordare che Procacci è stato forse l’ultimo dei grandi storici italiani capaci di spaziare da un tema come le origini del capitalismo in Francia alla storia degli italiani e alla fortuna di Machiavelli, che 30 anni dopo sarebbe diventato un volume ancora più ampio, esteso al ruolo che il pensiero di Machiavelli aveva avuto nello sviluppo della filosofia politica moderna in Europa; per non dire della più fine geografia storica del movimento operaio italiano che sia mai stata scritta, contenuta nel volume pubblicato dagli Editori Riuniti nel 1970, o dei due volumi sulla guerra d’Etiopia, della ricerca sul partito sovietico e sulla politica estera dell’Urss, fino allo studio dei premi Nobel per la pace, ed infine l’unica storia globale del ventesimo secolo di cui disponiamo, uscita nel 2000 da Bruno Mondadori solo perché stupidamente né Laterza, né l’Istituto dell’Enciclopedia italiana, che pure gliela aveva commissionata, vollero pubblicarla.
Questo vi dà l’idea dell’ampiezza di orizzonti di uno storico moderno capace di spaziare su tre secoli di storia italiana, europea e mondiale come non si usa più. Si trattava di rintracciare l’origine d’un programma storiografico così ampio e ripercorrere il filo rosso che lo tiene insieme con grande coerenza metodologica. A me parve di poterlo fare risalendo al rapporto di Giuliano col marxismo, che costituisce senza dubbio un problema fondamentale della sua biografia intellettuale. Ero stato incoraggiato ad affrontare il «maestro» in questa chiave anche da due testimonianze autobiografiche, entrambe del 1991, anno in cui ripubblicò la “Storia degli italiani” aggiungendovi un’ampia postfazione dedicata a puntualizzare i pochi giudizi che riteneva di dover rivedere. La postfazione è rivolta soprattutto a polemizzare con la storiografia contemporaneistica cosiddetta revisionistica: erano gli anni in cui il problema storico della nazione italiana riesplodeva; la lunga agonia della Prima Repubblica era finita con l’implosione del sistema dei partiti e cresceva il fenomeno secessionistico della Lega Nord. Forse anche per questo l’editore Laterza volle fare un’edizione popolare della “Storia degli italiani”; ma fu sicuramente la congiuntura storica in cui il volume veniva ripubblicato a suggerire a Giuliano di scrivere una postfazione introducendovi alcuni elementi di autobiografia intellettuale. Nello stesso anno, in occasione del 75° genetliaco di Gastone Manacorda, che lasciava l’insegnamento universitario, i suoi allievi romani, fra i quali Claudio Natoli, promossero un convegno che poi diede luogo ad un volume interessante, al quale partecipò anche Procacci. Per l’occasione Giuliano scelse di lasciare una testimonianza intitolata “Con Gastone Manacorda” a “Studi Storici”, la rivista di storia generale della Fondazione Istituto Gramsci, fondata nel 1959, alla nascita della quale anche Procacci aveva contribuito.
Questi pochi riferimenti autobiografici sono di estremo interesse e sono un punto di partenza obbligato per affrontare il tema che mi sono proposto. Procacci fu partigiano di Giustizia e Libertà, si laureò con Carlo Morandi, storico delle idee a Firenze, e probabilmente nel 1946 poté seguire il corso di storia del marxismo tenuto da Delio Cantimori, il primo che si tenne nelle università italiane subito dopo la liberazione. Quindi frequentò per un anno l’istituto Croce appena costituito: un altro passaggio importante perché lì, tra i suoi maestri, ci fu Chabod, oltre che lo stesso Croce. Poi andò in Francia per più di due anni, con una borsa di studio: qui il suo ricordo si fa molto preciso e comprende la sua militanza politica. Al Partito comunista italiano (Pci) Procacci si iscrisse nel 1948, dopo il 18 aprile. Non fu un caso isolato: di fronte alla sconfitta, alcune avanguardie intellettuali e operaie più avvertite sentirono la necessità di soccorrere le sinistre, che fino al 1956 resteranno unite, anche con l’iscrizione e la militanza nelle file del Psi o del Pci. Procacci spiega perché scelse il Pci: aveva vissuto l’esperienza della seconda guerra mondiale, nella quale il carico principale della vittoria contro il nazi-fascismo era stato sulle spalle dell’Unione Sovietica e il grande regista della vittoria era stato Stalin. Inoltre pensava che l’iscrizione al Pci costituisse l’unica forma di militanza antifascista conseguente per combattere la dittatura borghese, di cui il fascismo era stato un’espressione. Naturalmente, quando, più di quarant’anni dopo, racconta queste cose Giuliano è molto ironico e autocritico su quelle valutazioni e sul periodo di impegno nel Partito comunista francese (Pcf). Il Pcf era organizzato in maniera molto diversa dal Partito comunista italiano; era organizzato per cellule professionali e non per un mix di cellule professionali e organizzazioni territoriali, come il Pci. In Francia Procacci aveva fatto parte della cellula degli storici, fra i quali c’erano Chesnaux, Richet, Furet, Vilar, Leroy Ladurie. Il loro principale obiettivo era combattere aspramente la scuola delle «Annales», considerata economicista e anticomunista. Quindi ricorda con rincrescimento il fatto di aver teorizzato in quegli anni che l’unica forma di storiografia scientifica fosse il marxismo-leninismo, in quanto interpretazione della storia come storia delle lotte di classe in un senso deterministico e ristretto. Ma se andiamo a vedere come manovrava questo concetto nelle sue prime ricerche, siamo ben oltre ogni forma di schematismo. La spiegazione ch’egli ne dà è innanzitutto che era passato per Croce. E val la pena di ricordare che la filosofia di Croce aveva rappresentato una rinascita dell’idealismo dopo Marx, passando attraverso Labriola. Ma soprattutto aveva già scoperto Antonio Gramsci, di cui tra il 1948 e il 1951 furono pubblicati i sei volumi dell’edizione tematica dei “Quaderni del carcere”. Di questa tempestiva presenza di Gramsci nella sua formazione, c’è testimonianza anche nei suoi primi scritti, perché accanto ai due saggi di metodologia storiografica che ho già ricordato, Procacci pubblicò su «Belfagor» uno splendido profilo di Marc Bloch, che distingueva dal resto dei colleghi delle «Annales», ma sopratutto pubblicò un piccolo saggio sul problema del cosmopolitismo degli intellettuali italiani del Rinascimento, ispirato alla lettura dei “Quaderni del carcere”, nel quale vi è il primo seme di quelli che saranno i suoi studi successivi su Machiavelli. Dunque la prima fase della formazione di Procacci tra impegno etico-civile, iscrizione al Partito comunista dopo il 18 aprile e lo schematismo del marxismo francese appare piuttosto contraddittoria. Ad ogni modo, finito il triennio francese, nel ‘52 Procacci viene introdotto nel circuito degli storici comunisti e di sinistra italiani, ruotanti intorno alle numerose iniziative del PCI, e, come lui ricorda nella testimonianza su Manacorda, questo gli cambiò il modo di pensare il rapporto tra impegno politico e ricerca storica. L’esperienza che cominciò al rientro dalla Francia gli offrì una straordinaria lezione di realismo e di concretezza, perché nel modo in cui era concepito il Pci, il grande intellettuale viveva gomito a gomito con l’artigiano, il bracciante, il mezzadro e l’operaio, tenuti insieme da un programma politico e da un dibattito costantemente proiettati a fare i conti con i problemi elementari della vita sociale. Nelle sezioni del Pci Procacci scopre quindi una nuova idea di movimento operaio, non organizzazione corporativa, ma comunità di cittadini che, attraverso l’esperienza politica acquistano coscienza di essere parte del soggetto storico della modernità per eccellenza. In quegli anni Procacci entra in collegamento con la Biblioteca Feltrinelli, fondata nel 1954, comincia dal ‘55 a lavorarci e tra il 1956 e il 1962 concepisce i suoi scritti principali sulla storia del marxismo della Seconda Internazionale, pubblicati negli “Annali” dell’Istituto Feltrinelli. Ma soprattutto scopre Palmiro Togliatti. E la mia impressione è che la sua biografia intellettuale divenga l’esempio forse più riuscito del modo in cui Togliatti concepiva la direzione politica degli intellettuali. Provo a spiegarmi con qualche esempio, tratto dalle sue testimonianze. Nel 1954 si era svolto all’Istituto Gramsci un importante seminario di storici marxisti, convocati dall’allora direttore Ambrogio Donini, allievo di Ernesto Bonaiuti, importante storico delle religioni, comunista stalinista. Per fare il punto sugli orientamenti della storiografia marxista in Italia era stato chiamato a tenere la relazione introduttiva un membro della segreteria del Partito, Arturo Colombi. Egli svolse una relazione particolarmente rozza e schematica, scegliendo come bersaglio Gastone Manacorda, perché aveva scritto una storia del movimento operaio italiano basata sui suoi congressi, in cui, tra l’altro, aveva valorizzato il contributo di Filippo Turati alla nascita, nel 1892 a Genova, del Partito dei lavoratori italiani; ma, cosa ancora più grave, Colombi pensava di imporre agli storici convenuti all’Istituto Gramsci, che erano una tribù ampia e variegata, la tesi che da un punto di vista marxista la storia è storia del movimento operaio. Naturalmente ci fu una ribellione e Procacci ricorderà con rammarico di aver taciuto; ma, cosa più importante, Togliatti fu informato della riunione e scrisse una lettera a Donini in cui spiegava che la storiografia marxista è quella che ha un suo punto di vista sulla storia generale, al cui centro assume la nascita e lo sviluppo del movimento operaio come soggetto moderno capace di spingere la modernità fino ai suoi esiti, che ovviamente nella visione di Togliatti sono il socialismo e il comunismo. Inoltre precisava che non è compito del Partito dire agli storici come devono fare la storia, e rimproverava Donini anche per aver esposto troppo imprudentemente un membro della segreteria del Partito al dileggio degli storici di professione. Quella riunione, afferma Procacci, fu decisiva perché diede il via ad una revisione della politica culturale del Pci in campo storiografico, che ebbe come epicentro la Biblioteca Feltrinelli. E qui Giuliano inserisce di nuovo nei suoi ricordi un paragone fra la situazione italiana e la situazione francese. Il XX congresso del Pcus diede la stura alla crisi del movimento comunista e creò una frattura soprattutto nel rapporto tra i partiti comunisti e gli intellettuali. Procacci ritiene che gli storici comunisti francesi, che pochi anni prima erano stati suoi sodali, diventarono quasi tutti anti-comunisti anche per il modo corporativo e proclive al settarismo in cui erano organizzati. Diverso fu il caso degli storici comunisti italiani, proprio perché il Pci non era organizzato in maniera corporativa e il rapporto tra politica e ricerca era impostato in termini dialettici, aperti e liberali.
Come abbiamo detto, Procacci era arrivato alla Biblioteca Feltrinelli nel ‘55 e ne fu il primo costruttore. La Biblioteca fu indirizzata verso una specializzazione che aveva fra i suoi indirizzi innanzitutto la storia del movimento operaio. I camion di Giangiacomo Feltrinelli giravano tutta l’Italia per rastrellare fondi di opuscoli e letteratura socialista e comunista. Tuttavia, secondo il programma ricerca stabilito d’accordo con Togliatti, il limite cronologico era fissato al 1917, perché fare oggetto di ricerca la storia del comunismo era materia troppo delicata e scottante. Ma, dopo i fatti d’Ungheria e le proteste degli intellettuali raccolti intorno alla Biblioteca, quel limite tematico e cronologico fu fatto saltare dallo stesso Togliatti e nacque il progetto degli “Annali Feltrinelli”. Inoltre, la casa editrice diventò una delle pochissime case editrici che, dopo il ‘56, dettero vita alla pubblicazione di classici del pensiero socialista, senza discrimine fra il socialismo di tradizione riformistica e social-democratica e il socialismo di tradizione comunista. Anche qui, io credo, c’era un’idea togliattiana che fermenterà nel programma di ricerca di Giuliano Procacci. Com’è noto, l’idea che la critica dell’esperimento sovietico potesse riassumersi nella denuncia del «culto della personalità» non piaceva a Togliatti. Egli pensava che per quella via non si arrivasse molto lontano, leggeva il XX congresso del Pcus come documento della crisi del movimento comunista, piuttosto che come avvio della soluzione, e a questo dedicò gli ultimi otto anni della sua riflessione, sempre più angosciata. Per definire lo stalinismo e per rispondere ai problemi che il XX congresso sollevava, Togliatti pensava che si dovesse farne la storia e naturalmente non solo la storia dell’Urss, ma anche quella del socialismo e del comunismo, in cui l’esperimento russo andava inserito. Il terrore, il carattere dispotico dello Stato sovietico, le disfunzioni dell’economia di comando, la liquidazione dei kulaki come classe (oggi diremmo «la guerra contro i contadini»), la liquidazione dell’Internazionale comunista, non si potevano spiegare con il «culto della persona» di Stalin. Ma non si poteva neppure affrontare la storia del comunismo sovietico senza riconsiderare la storia del socialismo nel suo complesso. In questo contesto nasce, tra il ‘58 e il ‘61, la trilogia dei saggi di Procacci sul marxismo della Seconda internazionale. Metodologia storica e cultura politica lo distanziavano, ormai, dall’esperienza francese, ma rimaneva fedele a un canone comune a tutte le correnti storiografiche marxiste: il criterio per cui l’unica maniera per comprendere le dinamiche dello sviluppo capitalistico, e quindi della storia moderna nel suo insieme, fosse quello di porre al centro dell’indagine il movimento operaio come motore principale delle sue dinamiche. Il primo saggio, pubblicato da Giuliano negli “Annali” del ‘58, s’intitola “Studi di storia del socialismo”. É una recensione alla storia del socialismo di Cole, che aveva cominciato a uscire per Laterza, e Procacci la critica per schematismo, per l’incapacità di elaborare una lettura unitaria del socialismo come movimento storico tenendo insieme le sue differenziazioni nazionali. In altre parole, Cole non riusciva a dar contro delle diverse tendenze del movimento socialista europeo: riformisti, massimalisti, socialisti rivoluzionari, anarco-sindacalisti, ecc., perché le affrontava sotto il profilo ideologico anziché inquadrarle nella storia nazionale. Non riuscendo, quindi, a spiegare storicamente perché in un paese fosse prevalsa la corrente riformista e in un’altro l’anarcosindacalismo, Cole riduceva i socialismi nazionali a stereotipi che non ne spiegavano l’evoluzione effettuale o possibile. Ancora più importante è l’introduzione alla “Questione agraria di Kautsky”, pubblicata nel 1959, sia perché è il suo saggio più ampio e approfondito sulla storia della Seconda Internazionale, sia perché l’enfasi sulla questione agraria preannunciava i suoi studi di storia del movimento operaio italiano (il cui punto di arrivo, come abbiamo ricordato, è il volume del 1970), caratterizzati dall’insistenza sul fatto che i veri protagonisti del movimento operaio italiano erano stati i braccianti e i contadini. L’idea non era banale, infatti, da qui in poi e per lungo tempo Procacci indirizzerà la sua ricerca sulle grandi rivoluzioni del XX secolo, sottolineando come fossero tutte rivoluzioni contadine […]
Questo scritto riprende i contenuti di una relazione svolta in un Seminario organizzato nell’ambito del Dipartimento di Studi storici, geografici e artistici e del Dottorato in Storia moderna e contemporanea dell’Università di Cagliari (Cagliari 29 novembre 2009).
Giuseppe Vacca, Giuliano Procacci storico del marxismo, in “Studi e Ricerche. Vol. II”, 2009, Dipartimento di Studi storici, geografici e artistici dell’Università di Cagliari