Parte di questa generazione sopperì alla lacuna degli atenei italiani in materia di sociologia frequentando facoltà affini come giurisprudenza, lettere o psicologia

Il sindacato ebbe una posizione intermedia nella rinascita della sociologia del lavoro in Italia. Pur implicato direttamente nelle vicende inerenti lo sviluppo industriale, la tendenza a diffidare delle nuove tecniche organizzative lo portò in più casi alla negazione pregiudiziale della sociologia e dei suoi studi.
Alcune figure maggiormente aperte e determinate ad assumere le contraddizioni che si accompagnavano agli sviluppi della nuova scienza sociale, apportarono al discorso sindacale un contributo fondamentale. Permisero inoltre di uscire da una situazione, determinatasi alla metà degli anni Cinquanta sia per il sindacato cattolico che per quello comunista, per cui la rinnovata dinamica dello sviluppo capitalistico imponeva un confronto concreto con le problematiche quali l’automazione, l’OSL e la dequalificazione professionale, che solo uno studio scientifico poteva cogliere nel suo complesso.
Alla CISL come alla CGIL non fu impresa semplice fare accettare le nuove idee e ben presto le concezioni più conservatrici ripresero il sopravvento. Attorno al sindacato, tuttavia, si erano formati gruppi di studiosi e ricercatori sociali che resero definitivamente superate resistenze e diffidenze. I nuovi ricercatori sociali, che incontreremo nel capitolo seguente, intrattennero con il sindacato un rapporto di confronto e di scambio, determinando quella sinergia che avrebbe portato negli anni Sessanta un numero crescente di sociologi a collaborare con il movimento sindacale.
[…] La sociologia era percepita dal mondo accademico come un corpo esterno e il mondo politico, soprattutto a sinistra, la vedeva come un’eresia, un’“americanata” <2 per imbonire e integrare i lavoratori. Una delle tante possibili definizioni della condizione di chi abbracciò gli studi sociologici in questione può essere quella data da Luciano Visentini, docente di sociologia del lavoro all’Università di Bari e storico della disciplina: «per molto tempo, nell’Italia del dopoguerra, la sociologia è stata una vocazione. Una disciplina a cui si rivolgevano studiosi che non trovavano nella divisione accademica ed intellettuale del lavoro una collocazione adeguata al loro modo di affrontare i problemi sociali e politici» <3.
Se all’inizio degli anni Cinquanta fu la grande fabbrica e il mondo ad essa correlato ad attrarre gli interessi dei neofiti, si può vedere nella genesi della disciplina un’altra influenza che prendeva le mosse essenzialmente dagli studi sulle aree caratterizzate dal sottosviluppo portati avanti nel Mezzogiorno fin dal dopoguerra.
Se per questi giovani la scelta della sociologia proveniva dalla delusione nei confronti di un’esperienza politica in Italia, ad accomunare le loro esperienze fu un viaggio di studio in Europa o negli USA, fondamentale per comprendere le potenzialità delle pratiche di inchiesta.
Il legame tra Europa e Stati Uniti dunque è essenziale per comprendere la vicenda di tutti i sociologi che operarono per primi sui temi del lavoro e non solo negli anni in cui la disciplina non era ancora istituzionalizzata nelle università e si veniva formando attraverso un processo che interessava soggetti diversi, intersecando discorsi, interessi e fini spesso in contrasto tra loro.
Michele La Rosa ha individuato la rinascita della sociologia del lavoro in due fasi di transfer dall’estero che si riflettevano come in uno specchio sulla realtà italiana: «furono due i filoni di analisi all’interno dei quali ricomprendere la disciplina socio-lavorista: la sociologia industriale (industrial sociology) statunitense, ed anglosassone più in generale, e la “sociologia del lavoro” europea (sociologie du travail francese in primis). La differenziazione appare netta; non solo per le tematiche affrontate, ma proprio per gli approcci differenti che rispondevano a “due culture” assai diverse anche in termini generali» <4. Questa doppia influenza, riscontrabile, come abbiamo visto, anche nel caso italiano, si andava a sommare alla presenza di due culture, quella cattolica e quella marxista, che seppero cogliere le suggestioni proposte dalle nuove scienze sociali. Questo dimostra come le tematiche sociologiche che provenivano dall’esterno non trovarono in Italia una tabula rasa, bensì un terreno aperto nei loro confronti, deciso tuttavia a rielaborarle e reinterpretarle con gli strumenti della cultura italiana.
Filippo Barbano conferma la stretta interdipendenza tra le tematiche più tecnocratiche proprie della sociologia industriale nata negli USA e la critica a questa da parte di soggetti più interessati a cogliere i limiti e le implicazioni dello sviluppo: «La disputa circa il preteso “americanismo” di certi interessi sociologici degli anni cinquanta può riguardare solo la “dipendenza”, oppure […] una “interdipendenza” incombente per i disegni di industrializzazione e per la realtà stessa di un paese come il nostro, ancora semirurale e in certe aree arretrato, ma che stava per entrare, in qualche modo piuttosto squilibrato e senza mai una decente politica industriale, nella sua vera e propria prima rivoluzione industriale» <5.
Barbano inoltre aggiunge che per quanto riguarda le influenze della cultura sociologica italiana, delle esperienze marginali come quelle compiute dai preti operai che operavano nelle periferie delle città industriali della Francia, contaminarono fin dai primi anni Cinquanta il pensiero dei primi sociologi operanti al Nord: «nella stessa circostanza degli studi e delle ricerche per il Piano regolatore di Ivrea, si svolse uno studio di comunità sulla Serra di Ivrea ed in particolare in un paese, Magnano, che si protrasse per alcuni mesi nel 1951-1952. Lo condusse un sociologo statunitense contattato dallo stesso Adriano Olivetti con un gruppo di collaboratori: G. Belone, M. Talamo, L. Berti fulltime. La ricerca era diretta da Paul Campisi, e chi scrive ebbe l’occasione di parteciparvi part time per tutto il suo corso. Una esperienza davvero insolita e rara per quei tempi, della quale rammarico solo due cose, che il Campisi non abbia reso mai un rigo del copioso materiale raccolto; e che se ne sia involato senza restituirmi tre preziosi volumi del Manuale dell’inchiesta sociale del Padre Lebret» <6.
Rinascita “meridionale” e “settentrionale”, se così possiamo definirle, furono complementari nello sviluppo della disciplina e fu la loro commistione a determinarne gli attributi: «Il progetto riformista della sociologia italiana si sviluppava attraverso una ricerca a forte rilevanza operativa tesa nel Nord ad umanizzare il lavoro operaio, a promuovere un’organizzazione scientifica del lavoro, a modernizzare la società; nel Sud al superamento dell’arretratezza e della miseria contadina. La sociologia doveva fornire il suo contributo alle politiche delle riforme, doveva cooperare alla razionalizzazione della società, concorrere alla sua generale evoluzione» <7. Prima di giungere a ciò, si dovette sviluppare un dibattito che dalla metà del decennio analizzò e mise in discussione le pratiche sociologiche impiegate nell’industria e che coincise con la formazione di una nuova generazione di sociologi.
Parte di questa generazione sopperì alla lacuna degli atenei italiani in materia di sociologia frequentando facoltà affini come giurisprudenza, lettere o psicologia. I giovani che manifestarono la volontà di intraprendere l’esperienza della sociologia, attratti dalla curiosità per la società e il mondo del lavoro e per la prospettiva di un intervento concreto alla radice dei problemi, costituirono le basi su cui l’istituzionalizzazione della disciplina negli atenei fondò la propria autorità dall’inizio degli anni Sessanta. La formazione avvenne dunque in un contesto di eterogeneità e di policentrismo: «la prima fase dell’istituzionalizzazione della disciplina è segnata da un progressivo ingresso dei sociologi nella grande impresa, negli enti locali, chiamati per definire politiche del personale, organizzazione del lavoro, interventi urbanistici consapevoli dei fattori umani, per promuovere una modernizzazione della vita sociale» <8.
La mancanza di un’istituzione o una scuola che raccogliesse le differenti esperienze rende difficile trovare punti di contatto tra le biografie dei primi sociologi del lavoro. Possiamo tuttavia riscontrare alcuni tratti che costituiscono una costante piuttosto regolare: i primi sociologi del lavoro, troppo giovani nel 1943-45 per partecipare alla Resistenza, si ispiravano agli ideali di questa, più che per le pratiche, per il senso di rottura e di progresso sociale che tale momento costituì. In secondo luogo un elemento che accomuna queste storie fu un’esperienza di militanza politica delusa, il più delle volte compiuta nel Partito Socialista. Infine, il tratto che senza dubbio accomunò i primi sociologi e che si lega in maniera abbastanza diretta al secondo, fu il rifiuto per letture cristallizzate e dogmatiche della realtà socio-economica e la volontà di ricerca, priva di pregiudizi, di strumenti nuovi per capire l’Italia in via di modernizzazione e le sue contraddizioni. Per trovare questi strumenti compirono viaggi di studio e missioni all’estero, all’interno di quella che era la nuova cornice di riferimento per la cultura italiana, Europa e Nord America, in paesi in cui la tradizione sociologica era più matura. Questo fa della sociologia del lavoro una disciplina che caratterizzò il momento storico della ricostruzione e dello sviluppo economico europeo non solo in Italia: i contributi al suo sviluppo nacquero da un dibattito culturale, in certi casi strumentale, in altri genuino, che superava i confini dei singoli paesi.
[NOTE]
2 Cfr. L. Balbo, G. Chiaretti, G. Massironi, L’inferma scienza: tre saggi sulla istituzionalizzazione della sociologia in Italia, Bologna, Il Mulino, 1975.
3 L. Visentini, La nascita della sociologia del lavoro in Italia: Antonio Carbonaro e le potenzialità dell’uomo in G. Ceccatelli Guerrieri (a cura di), Le ragioni della sociologia. Il percorso culturale e civile di Antonio Carbonaro, Milano, Franco Angeli, 2003, p. 47.
4 M. La Rosa, La sociologia del lavoro: un “percorso” di analisi rivissuto e costruito durante gli incontri “amicali” con Antonio Carbonaro in G. Ceccatelli Guerrieri (a cura di), Le ragioni, cit. p. 110.
5 F. Barbano, Introduzione a G. Costantini (a cura di), Per una storia della sociologia in Italia: gli anni ‘50 e il Mezzogiorno, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1993, pp. 14-15. Barbano ricorda come gli studi meridonalistici fossero assolutamente influenzati da padre Lebret e il suo periodico “Economie et humanisme”.
6 Ivi, p. 18.
7 R. Siza, Le applicazioni della sociologia: gli anni dello sviluppo e della crisi in G. Costantini (a cura di), Per una storia, cit., p. 203. P. Capuzzo a questo proposito aggiunge: «definitiva separazione dall’esperienza storica del socialismo reale e dal suo apporto dottrinario, in uno spazio intellettuale irriducibile alla “soluzione” della crisi rappresentata dalle scienze sociali funzionaliste che stavano diventando egemoni nei ricostruiti dipartimenti di scienze sociali di mezza Europa; e che si candidavano a dare un sostegno scientifico a un progetto di amministrazione della società basato sulla negoziazione dei conflitti nel quadro del pluralismo politico compatibile con l’accettazione dell’economia capitalistica e delle sue norme sociali e culturali» in C. Bertolotti, P. Capuzzo, Danilo Montaldi (1929-1975) in “Studi culturali”, n. 3 2007, p. 429.
8 R. Siza, Le applicazioni della sociologia: gli anni dello sviluppo e della crisi in G. Costantini (a cura di), Per una storia, cit., p. 204.
Daniele Franco, Dalla Francia all’Italia: impegno politico, inchiesta e transfers culturali alle origini della sociologia del lavoro in Italia, Tesi di dottorato, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, 2009

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