Più tardi Mosca avrebbe comunicato che tra il 1945 e il 1946 dalla Russia erano stati rimpatriati ben 145.000 italiani fra militari e civili

[…] Per molti IMI le cose sarebbero cambiate con la liberazione di vaste zone dell’Europa orientale da parte dell’Armata Rossa che, dall’inizio del 1944, avanzando verso occidente si imbatté nei numerosi Lager tedeschi dislocati in Serbia, Bielorussia e Polonia. Pur non avendo combattuto contro l’Unione Sovietica perché non erano inquadrati né nel Csir né nell’ARMIR, e pur essendo ormai l’Italia un paese cobelligerante, gli IMI furono trattati come prigionieri di guerra, mentre la stampa sovietica dichiarava solennemente che l’Armata Rossa li aveva «liberati» dall’oppressione tedesca. In realtà per una parte di essi la liberazione fu soltanto un miraggio: molti di loro furono trasferiti arbitrariamente nei Lager sovietici – alcuni anche in Asia centrale – dove condivisero la tragica sorte dei prigionieri dell’ARMIR. L’atteggiamento delle autorità sovietiche nei loro confronti apparve subito punitivo: si doveva far pagare comunque all’Italia la colpa di aver attaccato l’Unione Sovietica. Inoltre gli internati, aggiunti ai militari dell’ARMIR già reclusi nei Lager, avrebbero contribuito ad aumentare il numero dei prigionieri da barattare nelle imminenti trattative per la pace.
Come risulta dalla documentazione russa, l’Armata Rossa deportò nell’Urss solo una parte degli internati, quelli «liberati» nei primi mesi del 1944 dai Lager tedeschi più vicini al confine sovietico; la massa degli IMI fu invece liberata successivamente, nel 1945, e nelle zone occidentali d’Europa occupate dalla Germania.
Anche molti civili, internati dai tedeschi e utilizzati come mano d’opera, finirono in mano ai sovietici.
Informazioni falsamente rassicuranti
In un telegramma del 30 luglio 1944 indirizzato a Pietro Quaroni, Giovanni Visconti Venosta, il sottosegretario agli Esteri, chiese informazioni sul comunicato stampa diramato da Mosca, che riguardava la liberazione di 4.000 soldati italiani internati nei Lager tedeschi in Lituania. Se la notizia fosse stata esatta, gli consigliava di sollecitare le autorità sovietiche affinché con l’estensione dell’occupazione da parte dell’Armata Rossa dei territori occupati del Reich, fossero liberati anche altri soldati italiani prigionieri dei tedeschi. Inoltre il sottosegretario chiese a Quaroni di estendere la proposta relativa alla creazione di battaglioni combattenti anche agli ex internati italiani.
Il 27 luglio 1945 l’ambasciatore Quaroni comunicò al ministero degli Esteri che gli italiani liberati dall’Armata Rossa nei territori dell’Unione Sovietica, in Polonia, Germania e Austria, erano circa 100.000, secondo le informazioni dell’incaricato alle operazioni di rimpatrio presso il Consiglio dei ministri dell’Urss, generale Fëdor I. Golikov e del suo vice, Dimitrij Golubev. Di questi la maggior parte erano per il momento raccolti in campi di concentramento situati in Polonia e Germania; una piccola parte in Ucraina. Golikov aveva assicurato a Quaroni che questi campi avevano «un regime del tutto differente dai campi dei prigionieri» e che «i liberati italiani» ricevevano «esattamente la stessa razione e lo stesso trattamento economico dei loro parigrado nell’esercito sovietico», pertanto né soldati né ufficiali erano adibiti ai lavori, ricevevano assistenza medica e vestiario. Golubev non aveva escluso che ci potessero essere ancora italiani in giro per la Russia, ma aveva anche assicurato che le autorità sovietiche li stavano rastrellando, considerate anche le difficili condizioni oggettive. La notizia più importante che ricevette il nostro ambasciatore fu quella della liberazione dal campo di Schocken dei generali italiani prigionieri dei tedeschi, insieme all’assicurazione di far arrivare loro le lettere da parte dei familiari. Per i generali in realtà non si trattò di una vera e propria liberazione: infatti quelli liberati dai Lager di Schocken e di Thorn, invece di essere subito rimpatriati, furono trasferiti in Ucraina, nel campo di Ljubotin, quasi tutti alla fine di aprile del ’45. Tra questi c’erano Carlo Geloso, Sebastiano Visconti Prasca, Alberto Briganti, Cesare Gandini e Carlo Unia che furono rilasciati soltanto a settembre per tornare in Italia un mese dopo. Ne è conferma il fatto che, facendo seguito alla richiesta dei familiari, nell’agosto 1945 la Segreteria di Stato vaticana comunicava che il generale Visconti Prasca, ex prigioniero in Germania, si trovava ora nell’Unione Sovietica e stava bene.
Più tardi Mosca avrebbe comunicato che tra il 1945 e il 1946 dalla Russia erano stati rimpatriati ben 145.000 italiani fra militari e civili; nel 1947 i rimpatri erano stati 12.000 mentre alcuni prigionieri italiani erano trattenuti perché considerati criminali di guerra.
Queste cifre contribuivano a confondere sia la classe politica sia l’opinione pubblica sul numero dei prigionieri effettivamente catturati dall’Armata Rossa: viste le gravi perdite riportate dall’ARMIR si poteva anche credere che tutti quei rimpatriati fossero stati catturati dai russi. In realtà gli oltre 100.000 erano per la maggior parte ex internati dei tedeschi. Il rimpatrio dei prigionieri dell’ARMIR iniziò proprio nel 1945, a settembre, e si dimostrò tutt’altro che soddisfacente in merito alle cifre.
Mistero sul numero effettivo degli internati
Vi fu anche un numero imprecisato di ex IMI che furono arruolati nell’Armata Rossa come ausiliari e combattenti, generalmente al comando di un ufficiale italiano. Il compito di queste unità era quello di appoggio alle formazioni russe in lavori di scavo di trincee e di trasporto del materiale. Da più fonti sappiamo della costituzione, nel gennaio 1945 a Czestokowa, della 2^ compagnia del 65° battaglione Genio militare «Volontari italiani», a seguito della liberazione di IMI da un Lager nazista della Slesia. La compagnia, al comando di un sottotenente italiano, era inizialmente costituita da 1.200 italiani e contava, oltre agli ex IMI, anche civili che lavoravano in Germania. La compagnia prese parte alle operazioni sul fronte centrale in Ucraina, partecipò all’occupazione di alcune piccole città e di Dresda, e fu smobilitata il 27 giugno 1945 per ordine del Comando russo. Tremila ex IMI costituirono il «2° reggimento Italiani, comando russo 172», una unità comandata da un tenente italiano. Il reggimento nel 1945 era in pessime condizioni per mancanza di vitto, avendo «prestato la propria opera per circa 3 mesi in lavori di scavo e di fortificazione, sotto la direzione del Genio russo, lavoro protrattosi per 12-14 ore giornaliere e non retribuito in nessun modo». Inoltre, almeno trenta ex IMI, liberati dai russi o che erano riusciti a fuggire dai Lager tedeschi in Bielorussia, si unirono alle formazioni partigiane locali.
Dopo lunghe marce e trasferimenti in treni merci, gli ex IMI giunsero nei campi di internamento, generalmente gli stessi in cui erano reclusi i prigionieri dell’ARMIR e subirono lo stesso trattamento; altre volte in Lager destinati esclusivamente a loro. Gli internati che provenivano dal campo nazista di Bor furono costretti a percorrere a piedi un tragitto di 50 chilometri, sotto una pioggia torrenziale. Durante la marcia molti caddero sfiniti; i sopravvissuti, in traghetto sul Danubio, arrivarono a Calfat, in Romania, dove lavorarono al porto per quaranta giorni. Di qui a scaglioni furono imbarcati su barconi che risalivano il Danubio, pigiati in 400 in stive che ne avrebbero contenuti a stento un centinaio. Infine arrivarono a Reni, una città sull’esatto confine tra Romania e Ucraina, pochi chilometri a nord-ovest del Mar Nero, dove era dislocato il campo di prigionia n. 38, riservato sostanzialmente agli ex IMI. In questo Lager morirono di stenti 397 soldati italiani.
Un altro campo riservato solo agli ex IMI era quello di Taganrog, n. 251, nella regione di Rostov, alla foce del Don sul mare di Azov, dove morirono 89 ex internati dei tedeschi. Gli ex IMI più sfortunati finirono invece nel terribile campo n. 188 di Tambov dove la mortalità tra i prigionieri dell’ARMIR era stata altissima.
Al contrario di quanto affermato da Golikov, a partire dal momento della loro «liberazione» anche gli ex IMI deportati nell’Urss furono sottoposti a un duro regime di lavoro, perché ritenuti colpevoli della guerra di aggressione all’Unione Sovietica. Molti di loro finirono nel Lager n. 99 di Karaganda, nel Kazachstan, a scavare carbone nelle miniere o a raccogliere il cotone in Asia centrale. Il trattamento fu lo stesso usato verso i prigionieri dell’ARMIR: norme di lavoro e categorie definite in base allo stato di salute. Allo stesso modo, come i prigionieri dell’ARMIR, gli ex IMI furono sottoposti all’intensa attività di propaganda politica antifascista. Si verificò per loro un vero e proprio paradosso: come prigionieri di Hitler, avevano subito le pressioni per aderire alla Repubblica di Salò; passati nelle mani dei sovietici, furono sottoposti a pressioni opposte, tese a trasformarli in sinceri comunisti.
Il governo italiano era a conoscenza della situazione e della presenza di ex internati dei tedeschi in Unione Sovietica, ma non ne conosceva le cifre. In una nota del 28 giugno 1945 inviata alle ambasciate di Londra, Washington e Mosca e all’Alto Commissariato per i prigionieri di guerra, l’allora ministro degli Esteri De Gasperi esprimeva la viva preoccupazione del governo italiano sulla situazione e la sorte degli italiani, «sia di quelli fatti prigionieri in Russia, sia di quelli liberati dai sovietici in Germania e attualmente in loro mano». De Gasperi lamentava che sino a quel momento Mosca non aveva inviato «né elenchi nominativi dei nostri prigionieri né alcuna precisa informazione sull’ubicazione e la situazione dei campi». Si dava quindi incarico agli ambasciatori di chiedere ai governi alleati «che la questione dei [prigionieri italiani] in mano alle nazioni alleate formi oggetto di esame nella prossima conferenza dei Tre Grandi». Il governo italiano avrebbe apprezzato che si fosse discussa la possibilità di rimpatriare tutti i prigionieri italiani in mano agli Alleati. Secondo le autorità italiane non avrebbero dovuto esserci difficoltà, dal momento che gli angloamericani «avevano già fatto conoscere in via confidenziale […] la decisione di rimpatriare i militari italiani». La dichiarazione congiunta degli Alleati avrebbe avuto «il grande vantaggio di vincolare la Russia a seguirne l’esempio» e avrebbe così «sollevato il governo e il popolo italiano da una grave preoccupazione».
Gli IMI equiparati ai prigionieri dell’ARMIR
Tuttavia ancora alla fine di luglio da una lettera dell’ambasciatore Quaroni al ministero degli Esteri si evince che le informazioni sugli ex internati dei tedeschi finiti nell’Urss erano vaghe e frammentarie. Quaroni precisava che se il rimpatrio dei civili e dei militari sovietici dall’Italia faceva parte «dell’accordo generale intervenuto tra autorità sovietiche e angloamericane» (accordi di Jalta), tale accordo «purtroppo non riguarda la posizione degli italiani liberati dall’Esercito rosso», cioè degli IMI. L’evidente carenza di notizie nonché la difficile posizione dell’Italia, un paese vinto, che non aveva alcuna possibilità di negoziare con l’Urss, rendevano la questione degli IMI trattenuti dai sovietici difficilmente gestibile da parte delle autorità italiane e al contempo un tema di forte impatto sull’opinione pubblica.
La mancanza di dati sul numero dei prigionieri italiani e degli ex internati dei tedeschi detenuti nell’Urss è dipesa soprattutto dal fatto che dall’epoca del conflitto fino agli anni Novanta, l’Urss si è sempre rifiutata di inviare informazioni ed elenchi dei prigionieri di guerra. Così il mistero che avvolgeva i militari dell’ARMIR spariti in Russia era lo stesso mistero che riguardava gli ex IMI liberati dall’esercito sovietico.
Fino agli inizi degli anni Novanta – epoca dell’apertura degli archivi russi – l’Italia non ha più avuto notizie della sorte dei suoi prigionieri, mentre nell’Urss, come apprendiamo ora dalle fonti emerse dagli archivi di Mosca, i dati erano chiari. Secondo la nota inviata dal ministro degli Interni Lavrentij Berija a Molotov, il 6 giugno 1945, su 2.641.246 prigionieri detenuti in Unione Sovietica (di cui 1.366.298 catturati dopo la capitolazione della Germania), 20.501 erano italiani. Berija parlava di un numero di prigionieri che in realtà comprendeva anche gi ex IMI catturati nei Lager tedeschi. Oltre a questi vi erano i 130.976 italiani liberati dall’esercito sovietico «in seguito a rastrellamenti dispersi», che essendo stati liberati ormai a guerra finita, furono subito rimpatriati. Restava invece incerta la sorte degli ex IMI che erano stati trasferiti nell’Urss nel 1944.
Al termine del conflitto l’Unione Sovietica annunciò il rimpatrio di poco più di 20.000 italiani, senza specificare che tra questi, oltre ai prigionieri appartenuti all’ARMIR, vi erano gli ex IMI. La questione all’epoca divenne un vero e proprio giallo con accuse reciproche dall’una e dall’altra parte, e si trascinò fino al 1947. Una volta che tutti i prigionieri furono rientrati, fu chiaro che su 21.065 uomini 10.032 erano dell’ARMIR; i restanti 11.033 appartenevano al numero imprecisato degli ex IMI trasferiti nei campi sovietici. Tale calcolo è stato possibile grazie agli elenchi dei prigionieri di guerra rimpatriati e deceduti nei Lager che il governo russo ha deciso di inviare ai governi delle nazioni coinvolte nel conflitto dai primi anni Novanta. Questi elenchi hanno permesso di individuare i nomi di quanti non erano appartenuti all’ARMIR, ma alle divisioni di stanza nei Balcani. La selezione è stata possibile perché i sovietici indicavano nelle liste la data, il luogo della cattura del prigioniero e l’unità di appartenenza. È emerso così che buona parte degli italiani inseriti in quelle liste erano stati catturati nel 1944, nei territori balcanici o in quelli occupati dal Reich (come la Polonia, la ex Cecoslovacchia o la Bielorussia) e appartenevano alle divisioni stanziate nei territori balcanici e sulle isole greche, non all’ARMIR. Da questi tabulati abbiamo anche appreso che gli ex IMI deceduti nei Lager sovietici furono almeno 1.278. Con gli 11.033 rimpatriati abbiamo 12.311, che dovrebbe essere la cifra approssimativa, e comunque in difetto, degli ex IMI trasferiti in Unione Sovietica tra il 1944 e il 1945. Nel valutare i dati dobbiamo tener conto che i sovietici avevano ormai organizzato la gestione dei prigionieri di guerra, pertanto le cifre riferite a quel periodo sono abbastanza attendibili. L’eventuale approssimazione dipende invece dal fatto che non tutti gli ex internati furono registrati: come avvenne per i prigionieri dell’ARMIR, gli ex IMI che non sopravvissero ai lunghi trasferimenti a piedi o nei vagoni merci e non riuscirono ad arrivare nei campi, non furono censiti; inoltre, a livello generale, alcuni nomi contenuti negli elenchi russi non sono stati decifrati perché nella trascrizione in cirillico alcune lettere potevano essere fraintese.
Vicenda ignorata dalla storiografia
Grazie all’apertura degli archivi russi e ai documenti inviati al ministero della Difesa italiano, il reduce dell’ARMIR Carlo Vicentini ha potuto stilare degli elenchi che sino ad oggi rappresentano il punto di partenza per studi e ricerche sugli IMI finiti in Unione Sovietica […]
(Estratto dal volume ‘I prigionieri italiani in Russia’, II ed. ampliata, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 495 con ill. per concessione dell’A.)
Maria Teresa Giusti, Gli IMI nei Lager di Stalin: gli internati che conobbero due prigionie, NOI DEI LAGER n. 3-4 Luglio – Dicembre 2015