Quel libro vietato sui crimini italiani di guerra

Rispunta sul web una copia del libro dello storico Michael Palumbo che la Rizzoli decise di non fare mai uscire nonostante le 8000 copie già stampate che finirono regolarmente al macero.

Riproponiamo l’articolo che scrisse Simonetta Fiori su Repubblica nell’aprile del 1992 e che ben spiega tutta la storia del “libro vietato”…

“Quel lunedì mattina, in casa editrice tirava una brutta aria. Il libro di Michael Palumbo sui crimini dei soldati italiani continuava a produrre grane. L’ ultima – di quel lunedì – era l’ intervista a Panorama di uno dei personaggi incriminati. Ottantatré anni e un’ invidiabile lucidità, il prefetto Giovanni Ravalli respingeva, carte alla mano, le accuse di stupro, sevizie, massacri. E minacciava querela. Chi ce lo ha fatto fare?, devono aver pensato alla Rizzoli. D’ altra parte, che la materia fosse incandescente non era notizia di quel lunedì. Già tre anni prima, un programma sullo stesso argomento curato da Palumbo per la Bbc – Fascist Legacy, coautore Ken Kirby – aveva scatenato a Londra un pandemonio. Con la protesta risentita dell’ ambasciatore italiano Boris Biancheri. Il documentario denunciava per la prima volta, senza reticenze, le atrocità commesse dai soldati italiani in Grecia, Jugoslavia e nelle colonie d’ Africa. E la copertura che nel dopoguerra il potere democristiano avrebbe garantito ai criminali di guerra. Tanto per non sbagliare, la rete Uno della Rai, che s’ era assicurata i diritti, si guardò bene dal mandarlo in onda. Il documentario di Palumbo, giovane ricercatore di Brooklyn, incuriosì l’ allora direttore editoriale della Rizzoli, Gian Andrea Piccioli, che sottoscrisse con lui un contratto. Dopo un anno il libro, ricco di rivelazioni sulle malversazioni degli italiani nel campo di Arbe, in Etiopia, in Cirenaica e in Grecia, era già pronto. Palumbo aveva attinto per la gran parte agli elenchi dei criminali italiani, raccolti negli archivi elettronici delle Nazioni Unite e da lui già pubblicati negli Usa. Da allora, dalla consegna del dattiloscritto in redazione, alla Rizzoli sono cominciate le tribolazioni. “Una lunga gestazione”, la definisce diplomaticamente il nuovo direttore editoriale, Rosaria Carpinelli. “Un’ elaborazione che ha richiesto verifiche continue, accertamenti, note, un’ accurata ricerca bibliografica. Più d’ una volta abbiamo chiesto a Palumbo di argomentare meglio la sua denuncia. Insomma, è un lavoro che ci ha impegnati in una sorveglianza continua”. Una vigilanza a cui però sfugge il capitolo sul tenente di complemento Giovanni Ravalli, in Grecia nel 1941, divisione Pinerolo. Il quale viene accusato da Palumbo d’ una serie di nefandezze. Aver seviziato a morte un poliziotto greco di nome Isaac Sinagoglou. Essere solito stuprare le donne delle quali aveva fatto imprigionare i fratelli, i mariti o i padri. Aver autorizzato la tortura di settanta prigionieri greci (asportate porzioni di carne e versati olio bollente e sale nelle ferite). Insomma, addebiti da far sobbalzare il più sonnacchioso dei redattori editoriali. Ma del libro con il capitolo su Ravalli vengono diffuse le prime bozze. A marzo un quotidiano nazionale ne anticipa l’ imminente uscita: “Un libro che si preannuncia come una vera e propria bomba editoriale”, scrive profetico James Waltson sotto il titolo “Italiani bonaccioni? No, assassini”. Intanto le bozze sono finite su una scrivania di Panorama. Rapida consultazione telefonica e il giornalista Giorgio Fabre riesce ad acchiappare l’ ex ufficiale Ravalli, oggi prefetto in pensione dopo una rapida carriera nell’ amministrazione pubblica all’ ombra di Scelba e De Gasperi. “Fantasie”, liquida stizzito Ravalli minacciando querela. In casa editrice è il panico. Che fare del libro tanto atteso, che in un primo tempo doveva chiamarsi L’ Olocausto mancato, poi più morbidamente Italiani, brava gente? e infine – titolo definitivo – L’ Olocausto rimosso? Secondo una prima notizia, la Rizzoli avrebbe deciso di mandare al macero le ottomila copie già stampate, una tiratura giustificata dalle attese. Con voce cortesemente ferma, la direttrice Carpinelli smentisce: “Il libro era già arrivato a uno stadio di produzione avanzato, ma non ne era stata stampata neppure una copia”. E allora che succede? Uscirà com’ era stato annunziato, a dispetto del prefetto Ravalli? “Beh, no”, risponde Carpinelli. “Ora abbiamo chiesto a Palumbo di approfondire il capitolo sulla Grecia. Lui ci sta lavorando sopra. D’ altra parte, questo è un lavoro aperto, suscettibile di continue modifiche. Non capisco la ragione di tanta curiosità”. Ma non è singolare che d’ un volume così delicato vengano messe in circolazione le bozze prima che siano state fatte tutte le verifiche? “Il libro di Palumbo è un caso, e come tale va trattato. Non sarebbe onesto farne paradigma del modo di lavorare in casa editrice. Ripeto: il libro è in gestazione, vediamo un po’ come va a finire. E’ possibile che si vada avanti all’ infinito, senza approdare a una conclusione. Insomma, un libro senza fine”. Normale, no? SIMONETTA FIORI per Repubblica 17 aprile 1992 @SimonettaFiori

Padri e Madri della Libertà

Michael Palumbo

Ne scrisse Simonetta Fiori su Repubblica (17 aprile 1992), che raccontò le vicissitudini politiche ed editoriali che portarono alla decisione della casa editrice Rizzoli di non pubblicare il libro di Michael Palumbo dal titolo iniziale di L’olocausto mancato, poi “ammorbidito” in Italiani, brava gente? e alla fine nel conclusivo L’olocausto rimosso. Il personaggio-chiave del libro era l’ex prefetto di Palermo Giovanni Ravalli (1910 – 1998). Ravalli fu un ufficiale italiano imprigionato per crimini di guerra commessi durante l’occupazione dell’Asse della Grecia durante la seconda guerra mondiale. Dopo essere stato processato e condannato al carcere a vita, nel 1959 fu graziato dal Governo Greco. In seguito, riabilitato, ha prestato servizio come prefetto di Palermo, indagando – tra le altre cose – il furto della Natività con i Santi Lorenzo e Francesco d’Assisi di Caravaggio.
L’olocausto rimosso è un atto d’accusa contro le milizie italiane, che mette in luce le atrocità commesse dai soldati italiani in Grecia, Jugoslavia e nelle colonie d’ Africa. Simonetta Fiori fa capire molto bene che a un certo punto Ravalli minacciò di querelare autore e casa editrice, se il libro fosse uscito (gli venivano addossate molte responsabilità). Forse mancando delle prove, in quanto il libro si basava molto su dichiarazioni rilasciate da testimoni del tempo, per la maggior parte non più in vita, si decise che “il gioco non valeva la candela” e le 8.000 copie già stampate furono mandate al macero. C’è anche chi dice però che il libro, alla decisione della Rizzoli di non farne più niente, era in uno stato avanzato ma non ancora stampato. Un po’ un piccolo mistero, insomma. Fatto sta che il codice ISBN, come si evince dalle foto della galleria fotografica, era stato regolarmente assegnato. Del libro però non c’è traccia nel sistema OPAC SBN delle biblioteche italiane.
Ad ogni modo, fisicamente il libro esiste! Qualche copia negli anni è stata avvistata. […]
Un libro che Rizzoli decise di non far nascere!, Cacciatore di Libri, 24 maggio 2019

Montenegro: un soldato italiano malmena un prigioniero che sta per essere fucilato
Fonte: AFV cit. infra

[…]
L’OLOCAUSTO RIMOSSO.
Ultimamente il sito Diecifebbraio.info ha informato sul libro L’Olocausto Rimosso di Michael Palumbo
Il link è il seguente:
http://www.diecifebbraio.info/2020/02/da-fascist-legacy-a-lolocausto-rimosso-il-libro-ritrovato-di-michael-palumbo/
Michael Palumbo è uno storico italo americano che ha avuto accesso a dossier dell’Onu sui crimini italiani in Etiopia, in Cirenaica, in Grecia e in Jugoslavia e indagò quindi sulle responsabilità dei fascisti. Per alcune ragioni fu boicottato, ignorato negli Stati Uniti ed espulso dalla City University di New York, trovò più attenzione in Inghilterra,
La documentazione che trovò è alla base del suo libro L’Olocausto Rimosso, un atto d’accusa contro le milizie italiane, che mette in luce le atrocità commesse dai soldati italiani in Grecia, nelle colonie d’Africa e in Jugoslavia.
Innumerevoli ed efferati furono i massacri ferocemente perpetrati tra il 1941 e il 1943 dai militari italiani nei confronti della popolazione jugoslava. Gli Italiani dal 1941 al 1943 in Jugoslavia applicarono come i nazisti la regola della rappresaglia contro le popolazioni civili, macchiandosi di gravissimi crimini.
Un articolo del 17 aprile 1992 di Simonetta Fiori dal titolo significativo Quel libro non si stampi, pubblicato su Repubblica racconta la vicenda editoriale del libro di Michael Palumbo.
Il link all’articolo è il seguente:
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/04/17/quel-libro-non-si-stampi.html
Polemiche e minacce di querela di personaggi come Giovanni Ravalli convinsero l’editore Rizzoli, dopo averlo pubblicato a non distribuirlo.
Giovanni Ravalli, in Grecia nel 1941, divisione Pinerolo, venne accusato da Michael Palumbo di una serie di nefandezze. Aver seviziato a morte un poliziotto greco di nome Isaac Sinagoglou. Essere solito stuprare le donne delle quali aveva fatto imprigionare i fratelli, i mariti o i padri. Aver autorizzato la tortura di settanta prigionieri greci ,asportate porzioni di carne e versati olio bollente e sale nelle ferite. Il giornalista Giorgio Fabre intervistò l’ ex ufficiale Ravalli, allora prefetto in pensione dopo una rapida carriera nell’ amministrazione pubblica all’ ombra di Scelba e De Gasperi, che liquidò il racconto come “Fantasie”, e minacciò una querela, che impaurì l’editore Rizzoli.
Rimangono in giro poche copie, e comunque un’ eventuale ripubblicazione contribuirebbe a rompere il sostanziale silenzio sui crimini di guerra italiani nella seconda guerra mondiale, innanzitutto in Jugoslavia occasione del 10 febbraio, giorno del ricordo.
L’EREDITA’ DEL FASCISMO.
Fascist Legacy (“L’eredità del fascismo”) è un documentario in due parti sui crimini di guerra commessi dagli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale.
La prima parte tratta dei crimini di guerra commessi durante l’invasione italiana dell’Etiopia e nel Regno di Jugoslavia. Enfasi vi viene posta sull’impiego dell’iprite, o gas mostarda, da parte del Generale Pietro Badoglio, sui bombardamenti di ospedali della Croce Rossa e sulle rappresaglie dopo un attentato contro l’allora Governatore italiano dell’Etiopia. La sezione che esamina l’occupazione della Jugoslavia cita gli oltre 200 campi di prigionia italiani sparsi nei Balcani, in cui morirono 250.000 internati, 600.000 secondo il governo jugoslavo, e si sofferma sulle testimonianze relative al campo di concentramento di Arbe e sulle atrocità commesse nel villaggio croato di Podhum, presso Fiume.
La seconda parte tratta del periodo successivo alla capitolazione italiana nel 1943 e si rivolge principalmente all’ipocrisia mostrata tanto dagli USA quanto soprattutto dai britannici in questa fase. L’Etiopia, la Jugoslavia e la Grecia richiesero l’estradizione di 1.200 criminali di guerra italiani, i più attivamente ricercati furono Pietro Badoglio, Mario Roatta e Rodolfo Graziani, sugli atti dei quali fu fornita una completa documentazione. Entrambi i governi alleati videro però in Badoglio anche una garanzia per un dopoguerra non comunista in Italia, e fecero del loro meglio per ritardare tali richieste fino al 1947 quando i Trattati di Parigi restituirono la piena sovranità al paese: gli stati sovrani in genere non estradano i propri cittadini. L’unico ufficiale italiano mai perseguito e condannato a morte da un tribunale britannico fu un antifascista, Nicola Bellomo, responsabile [n.d.r.: presunto] della morte di prigionieri di guerra britannici. La voce narrante originale è di Michael Palumbo, storico americano autore del libro “L’olocausto rimosso”, edito [n.d.r.: in effetti, proprio no!] in Italia da Rizzoli. Vengono inoltre intervistati gli storici italiani Angelo Del Boca, Giorgio Rochat, Claudio Pavone e il britannico David Ellwood.
Il link con il documentario è il seguente:
https://www.youtube.com/watch?v=2IlB7IP4hys
[…]
Francesco Cecchini, 10 FEBBRAIO, GIORNO DEL RICORDO. IL LIBRO L’OLOCAUSTO RIMOSSO E IL DOCUMENTARIO EREDITA’ DEL FASCISMO, AFV Libera la tua mente, 10 febbraio 2020

Dal marzo del 1942 la nota Circolare 3C di Roatta predispone una serie di ordini relativi all’internamento dei civili come provvedimento diretto a reprimere la lotta partigiana, colpendo alla bisogna interi gruppi sociali o centri abitati. In caso di rivolta o imminenti operazioni i comandi potevano integrare le ordinarie limitazioni alla circolazione (lasciapassare, coprifuoco, ecc.) sino ad abolire completamente il movimento dei civili, provvedere a trattenere ostaggi tra la popolazione chiamata a rispondere di eventuali aggressioni a militari e funzionari italiani, considerare corresponsabili dei sabotaggi gli abitanti delle abitazioni prossime al luogo dell’avvenimento. Gli individui trovati nelle zone di combattimento sarebbero stati arrestati, stesso trattamento verso i sospettati di favoreggiamento dei partigiani. Nel corso delle operazioni sarebbero stati distrutti gli edifici dai quali partivano le offensive
alle truppe italiane e quelli in cui fossero stati rinvenuti depositi di armi, munizioni o esplosivi. Nel caso l’intera popolazione di un villaggio o la massima parte di essa avesse combattuto contro le truppe italiane, si sarebbe provveduto alla distruzione dell’intero abitato. Era permessa la confisca, per disposizione dei comandi responsabili, di viveri, foraggi e bestiame trovati negli edifici e villaggi distrutti o abbandonati. (154)
Le divisioni italiane batteranno il territorio occupato con grandi operazioni di rastrellamento, non risparmiando la popolazione accusata di sostenere i partigiani. Nel Governatorato della Dalmazia, secondo ordinanza di Bastianini, coloro che avessero abbandonato il comune di residenza per unirsi ai ribelli, qualora catturati, sarebbero stati passati per le armi. Le loro famiglie sarebbero state considerate ostaggi e per nessuna ragione avrebbero potuto allontanarsi dalla frazione di residenza. I loro beni sarebbero stati confiscati su ordine del prefetto. La somministrazione di viveri sarebbe stata immediatamente sospesa agli abitanti delle zone in cui si fossero verificati atti di sabotaggio a telefoni e telegrafi, lancio di esplosivi e aggressioni a mano armata. Qualora atti del genere fossero stati conseguenza di colpevole negligenza da parte dei capi villa e degli abitanti che avevano assunto impegno di collaborare per la tutela dell’ordine pubblico, i responsabili sarebbero stati passati per le armi, così come quelli che avessero prestato assistenza, aiuto o in qualunque modo avessero favorito l’azione dei ribelli. Coloro che fossero rientrati alle proprie case presentandosi alle forze di polizia locali sarebbero stati, salvo non dovessero rispondere direttamente di altri reati, esenti da pena per la partecipazione e l’organizzazione di bande armate. (155)
154 AUSSME, M-3, b. 71, Stralcio delle comunicazioni verbali fatte dall’eccellenza Roatta nella riunione di Fiume del giorno 23 maggio 1942. Affermazione riportata in diverse pubblicazioni, tra cui D. Rodogno, op. cit., pp. 401-407.
155 AUSSME, M-3, b. 64, fasc. 3, 2 A, 1943, ordine pubblico (Ufficio A.C.), Comando Superiore FF.AA. Slovenia-Dalmazia (2ª Armata), Ufficio Affari Civili, Provvedimenti contro i ribelli e loro familiari, Ordinanza n. 150, Governo della Dalmazia, f.to Giuseppe Bastianini, Zara 7 giugno 1942-XX Alberto Becherelli, Paolo Formiconi, La quinta sponda. Una storia dell’occupazione italiana della Croazia. 1941-1943, Ministero della Difesa, V Reparto – Ufficio Storico, 2015

La tendenza a distinguere il comportamento del soldato in grigioverde da quello del «camerata» germanico e a contrapporre l’uno all’altro emerse soprattutto in relazione all’atteggiamento tenuto da parte italiana nei confronti delle popolazioni dei paesi che Mussolini aveva ordinato di aggredire, nel tentativo di allargare i confini dell’Impero e dare vita a quello che è stato definito «il nuovo ordine mediterraneo» del fascismo. Anche in questo caso la stampa e la pubblicistica italiane preferirono tacere, minimizzare o ridimensionare la complicità avuta dalle truppe italiane in molte brutali azioni di guerra condotte a fianco dei tedeschi e l’uso in proprio, non sporadico, di metodi di oppressione e sfruttamento non dissimili da quelli barbari ed esecrabili addebitati all’«odioso teutone». Soprattutto nell’entroterra balcanico, in Jugoslavia e in Grecia (occupate grazie al decisivo concorso tedesco nell’aprile 1941), forze di polizia e unità militari italiane – sia del regio esercito sia delle camicie nere – si erano rese protagoniste di sanguinose azioni repressive contro i locali movimenti di resistenza paragonabili per tipologia a quelle condotte dalla Germania nazista: ricorso sistematico alla tortura contro gli oppositori, rappresaglie con saccheggi e incendi di villaggi, prelevamento e soppressione di ostaggi, deportazioni in massa di popolazione civile, bombardamenti di centri abitati con l’uccisione anche di donne e bambini. Pur non macchiandosi dei crimini terribili commessi in quei territori dall’alleato germanico contro gli ebrei e i rom, le autorità civili e militari italiane avevano predisposto un sistema di ordini per la lotta contro i partigiani analogo a quello sperimentato dai tedeschi, che equiparava gli insorti a «franchi tiratori» da passare immediatamente per le armi e postulava misure draconiane contro i loro «fiancheggiatori», dando ‘carta bianca’, ovvero assicurazione di impunità, ai comandanti dei reparti impegnati nelle azioni di «controguerriglia». Tali azioni, nel protettorato del Montenegro come nella Slovenia annessa, nelle zone occupate dello Stato indipendente croato come nella Grecia continentale (qui in particolare dall’autunno del 1942 al settembre 1943), si configurarono quali atti di una vera e propria «guerra ai civili» per la ‘bonifica’ del territorio, in cui il confine fra combattenti e non combattenti tendeva a scomparire e le popolazioni venivano investite in pieno dalla violenza repressiva.
Dunque, una politica del terrore pianificata dai comandi la quale, se certo non eguagliò il livello distruttivo raggiunto nei Balcani dalla Wehrmacht, risultò però assimilabile alla lotta senza quartiere contro la Resistenza italiana che avrebbero successivamente condotto gli uomini di Kesselring nell’Italia occupata.
Nonostante, dunque, il coinvolgimento di numerosi reparti militari in una «guerra sporca» macchiata da crimini deplorevoli, della condotta del soldato italiano si tese a tracciare nel discorso pubblico una rappresentazione edulcorata, che poneva in evidenza la grande capacità di solidarietà umana e l’aiuto generoso dimostrati nei confronti dei popoli dei territori conquistati; meriti che vennero costantemente contrapposti al comportamento crudele e predatorio dei reparti germanici. All’immagine del «cattivo tedesco», guerriero fanatico e capace di ogni nefandezza, fu contrapposta quella del cosiddetto «bravo italiano»: malamente equipaggiato, catapultato contro il proprio volere in una guerra sciagurata, il soldato italiano aveva solidarizzato con le popolazioni dei paesi invasi, le aveva aiutate contro la fame e la miseria dividendo quel poco che aveva e, soprattutto, le aveva protette dai soprusi e dalle violenze dei commilitoni germanici salvando così molte vite, come era il caso di migliaia di ebrei strappati dalle grinfie degli sterminatori tedeschi. La raffigurazione del «bravo italiano» poneva in evidenza alcuni aspetti incontestabili e meritori del comportamento tenuto nei territori occupati, primo fra tutti l’aiuto e la protezione prestati in varie occasioni agli ebrei o il salvataggio in Croazia di intere comunità di serbi braccati dagli ustascia di Pavelić assetati di «pulizia etnica». Tale raffigurazione finì tuttavia per oscurare del tutto l’altra faccia della realtà, rilevante e incresciosa, rappresentata dai militari italiani «invasori» e «oppressori», dimostratisi in più occasioni complici ed emuli dei «feroci» alleati tedeschi.
Filippo Focardi, Il cattivo tedesco e il bravo italiano. La rimozione delle colpe della seconda guerra mondiale, Laterza, 2013

Per quanto riguarda l’incendio di villaggi “è da ritenere che quelli che furono effettivamente compiuti, e non certo nel numero citato dalla Relazione jugoslava, lo furono nelle azioni di rastrellamento in base agli ordini di carattere generale impartiti dal Generale Roatta. Non sembra pertanto che di questi incendi possa essere responsabile il Grazioli”.
Di chi è, allora, la responsabilità di quanto è accaduto?
Una risposta viene fornita nelle Note relative all”occupazione italiana in Jugoslavia [settembre 1945]: “Tutti i belligeranti – nessuno escluso – nel corso della guerra si trovarono nella necessità di adottare in determinate circostanze norme di particolare severità per la tutela della incolumità delle proprie truppe. Tutti ebbero Tribunali militari che in note occasioni si trovarono purtroppo nella necessità di pronunciare sentenze di morte contro uomini qualificati
e convinti come spie, sabotatori o franchi tiratori. Tutti si trovarono nella necessità di eseguire bombardamenti aerei (e gli italiani meno di ogni altro) che devastarono intere città. Tutti dovettero internare e anche evacuare persone civili, oltreché militari ritenute sospette o pericolose. Non possono dunque farsi particolari colpe ai soldati italiani per avere adottato provvedimenti in uso riconosciuti presso tutti i belligeranti. Ma l”adozione di tali provvedimenti seguì sempre, da parte italiana in Jugoslavia, le feroci provocazioni del nemico di cui furono la inevitabile conseguenza. Sino a che tali provocazioni non si palesarono l”occupazione italiana nei territori jugoslavi fu estremamente pacifica e tale si sarebbe mantenuta senza la feroce rivolta del 1942-1943”.
La questione dei crimini di guerra commessi dai militari e dai civili italiani in Jugoslavia ha avuto un esito prevedibile, date le condizioni interne e internazionali, ma non per questo accettabile. E’ significativa, da questo punto di vista, la lettera inviata dal Direttore Generale degli Affari politici del Ministero degli Affari Esteri, conte Vittorio Zoppi, all’Ammiraglio Franco Zannoni, Capo gabinetto del Ministro della Difesa:
Segr. Pol. 875
Roma, 20 agosto 1949
A S.E.
l’Ammiraglio Franco ZANNONI
Capo Gabinetto Ministero Difesa
ROMA
Caro Ammiraglio,
Negli scorsi anni e precisamente in periodo armistiziale quando da ogni parte ci venivano reclamati i presunti «criminali di guerra», quelli sopratutto che dai vari Governi ex nemici erano stati iscritti nelle liste depositate a Londra, il Ministero degli Affari Esteri propose e quello della Guerra accettò, che si cercasse di eludere tale consegna (che per molti italiani, dati i metodi della giustizia ad es. jugoslava, significava morte certa) provvedendo noi stessi ad esaminare i casi in base alle disposizioni del nostro Codice Militare che, più aggiornato di ogni altro, già prevedeva i delitti di quella specie. Fu così costituita presso il Ministero della Guerra una Commissione che ebbe il compito di prendere in esame la condotta dei nostri, sopratutto in Jugoslavia. Della costituzione di tale Commissione venne dal Ministero degli Affari Esteri data allora notizia all’Ammiraglio Stone, Capo della Commissione di Armistizio, il quale era in quel tempo sottoposto a ricorrenti richieste e pressioni del Governo di Belgrado perché procedesse all’arresto ed alla consegna degli italiani da esso incriminati. L’Ammiraglio Stone mostrò molto interesse e apprezzò la nostra iniziativa che, tra l’altro, aveva il vantaggio di offrirgli una scappatoia dilazionatrice di fronte alle richieste jugoslave, e pur non compromettendosi ad approvarla ufficialmente (in quanto si trattava di una nostra decisione unilaterale), chiese di essere tenuto al corrente dei lavori della Commissione. Lo stesso atteggiamento tennero in linea di massima i Governi occidentali ai quali avevamo comunicato la nostra iniziativa perché se ne valessero nel resistere alle richieste jugoslave. Fu così possibile guadagnare del tempo, durante il quale molta acqua è passata sotto i ponti di tutti i Paesi, e fu possibile opporsi alle pretese di consegna sino al momento in cui la questione venne dai vari governi lasciata praticamente cadere. Sicché può dirsi oggi che lo stesso governo jugoslavo, che si era nel passato mostrato il più accanito, ha di fatto, da oltre un anno, rinunciato a reclamare i presunti criminali italiani. La questione può quindi considerarsi superata. Senonché la Commissione d’inchiesta che doveva necessariamente svolgere con diligenza il proprio incarico e, tra l’altro, non dare l’impressione di scagionare ogni persona esaminata (il che sarebbe stato controproducente agli stessi fini che ci eravamo proposti di raggiungere nell’insediarla), selezionò un certo numero di ufficiali che furono rinviati a giudizio. Erano i più presi di mira dalla Jugoslavia e nel rinviarli a giudizio ci mettemmo nella condizione di poter rispondere alle richieste di consegna, che innanzi tutto dovevano essere da noi giudicati. Fu spiccato nei loro confronti mandato di cattura, ma fu dato loro il tempo di mettersi al coperto. Taluni sono partiti per l’estero e tuttora vi si trovano in attesa di poter rimpatriare. Comunque il mandato di cattura rimase, credo, negli atti e non vi si dette mai il minimo principio di esecuzione. Essendo rimasti gli unici a dover vivere … pericolosamente, costoro sentono tuttavia il disagio della loro attuale situazione e mi risulta che di essi taluni, più impazienti, sarebbero anche inclini a rendere responsabile il Ministero Affari Esteri (il quale aveva proposto la procedura su ricordata), del loro attuale disagio, dimentichi che ciò fu fatto nel preciso e unico intento di sottrarli alla consegna, come difatti avvenne.
Ottenuto questo risultato e venuto meno le ragioni di politica estera che avevano a suo tempo consigliato quella procedura, il Ministero degli Affari Esteri, per suo conto, considera la questione non più attuale. La situazione delle persone di cui trattasi può pertanto essere ora considerata dal Ministero della Difesa nella sua competenza particolare e sarei grato se il Ministero della Difesa volesse farci conoscere il suo pensiero in proposito anche per
consentirmi di sottoporre la questione al mio Ministro con ogni elemento di giudizio.
F.to ZOPPI <252
E così, “nel 1949, pur essendo 39 i deferiti alla Procura Militare, i processi non erano ancora stati avviati. Si arrivò, così, al giugno 1950, data in cui gli avvocati difensori degli imputati avanzarono un”eccezione procedurale, chiedendone l’immediato proscioglimento. In base all”articolo 165 del codice penale militare di guerra italiano, che prevedeva la “reciprocità” per i crimini commessi in altri paesi, la procedibilità verso i criminali italiani
poteva essere garantita solo se la Jugoslavia avesse giudicato i responsabili degli eccidi delle foibe. L”eccezione, nonostante non se ne facesse menzione nell’articolo 45 del Trattato di pace, venne accolta, e nel corso del 1951 tutti i procedimenti a carico dei presunti criminali furono archiviati, mettendo la parola fine sull’intera vicenda e, con essa, sull’esistenza stessa della Commissione” <253.
Scrive Giorgio Rochat: “Le occupazioni balcaniche rappresentano la pagina nera della guerra italiana sotto più aspetti, la durezza verso le popolazioni e la brutalità della repressione, la crisi di efficienza di truppe e comandi, infine la rimozione pressoché totale di queste vicende. L’elemento più significativo è la carenza di una memorialistica specifica; conosciamo meno di dieci volumi di diari o ricordi. Che su oltre 600.000 uomini stanziati nelle diverse regioni balcaniche per ventinove mesi praticamente nessuno abbia sentito l’esigenza di raccontare le sue esperienze è la più efficace dimostrazione di come queste occupazioni siano state sentite e vissute da soldati e ufficiali con intimo disagio, scarsa partecipazione, come mortificante routine per molti, come brutale repressione impossibile da rivendicare, meglio da dimenticare per altri” <254.
La rimozione è proseguita fino ad anni più recenti.
Nel 1989, il regista Ken Kirby realizza un film inchiesta in due puntate prodotto dalla BBC. Si intitola Fascist Legacy e riguarda i crimini italiani in Etiopia e in Jugoslavia.
[NOTE]
252 Pubblicata in La questione dei “criminali di guerra” italiani e una Commissione di inchiesta dimenticata, a cura di Filippo Focardi e Lutz Klinkhammer, in “Contemporanea”, a. IV, n.3, luglio 2001, pp. 497-528.
253 Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), a cura di Costantino Di Sante, cit., p.41.
254 Giorgio Rochat, Le guerre italiane 1935-1943. Dall”Impero d”Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2008 [1ª edizione 2005], p.360.
Antonio Gioia, Guerra, Fascismo, Resistenza. Avvenimenti e dibattito storiografico nei manuali di storia, Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Salerno, Anno Accademico 2010-2011