S’era dunque in presenza di un’espansione del sistema industriale a prato

Che il vento fosse cambiato fu chiaro dalle elezioni politiche anticipate del 3-4 giugno 1979, quando il PCI di Enrico Berlinguer, provato da 3 anni di solidarietà nazionale e dalla contestazione a sinistra, perse un milione e mezzo di voti, la metà di quelli della grande avanzata del 1976.
Teatro del nuovo duro scontro tra lavoro e capitale, che si concluse a favore di quest’ultimo e sancì definitivamente un cambio d’epoca, fu proprio la Fiat: il 31 luglio 1980 Umberto Agnelli lasciò al solo Cesare Romiti la carica di amministratore delegato, capofila in azienda della linea antisindacale, il quale, dopo aver preannunciato la cassa integrazione per 24mila dipendenti, l’11 settembre 1980 annunciò quasi 15mila licenziamenti.
La protesta, che vide il 26 settembre anche davanti ai cancelli della fiat il segretario del PCI, si concluse con la sconfitta del fronte sindacale con la simbolica marcia dei 40mila per le vie di Torino il 14 ottobre 1980, con impiegati e quadri che reclamavano il rientro in fabbrica dopo 35 giorni di picchetti. Questo evento fortemente simbolico sul piano politico si accompagnò a livello internazionale alla vittoria di Ronald Reagan negli USA e di Margaret Thatcher nel Regno Unito, contribuendo a sdoganare in tutto l’Occidente la nuova ventata liberista alla base della transizione dal modello industriale fordista a quello cosiddetto post-fordista.
A livello locale, Assolombarda iniziò a legarsi politicamente al PSI di Bettino Craxi, che aveva intuito il nuovo corso a livello internazionale e declinato la nuova modernità mutando pelle al più antico partito italiano. Già con la presidenza del marchigiano e presidente della Indesit Vittorio Merloni, ma ancora di più con quella del bresciano Luigi Lucchini, Confindustria nel suo complesso accolse le tesi neoliberiste portate avanti da Reagan e dalla Thatcher e puntò allo scontro frontale con le classi subalterne, in particolare sull’abolizione di due punti della scala mobile previsti dal decreto legge di San Valentino varato dal Governo Craxi e che portò a uno scontro durissimo tra PCI e PSI, culminato con i fischi a Enrico Berlinguer al congresso socialista di Verona nel 1984. Se lo scenario macro-economico italiano non sembrava sostanzialmente mutato in quei primi anni ‘80, erano percepibili tuttavia alcuni sintomi del cambiamento in atto sia nella cultura sociale che nel sistema produttivo e nell’organizzazione del lavoro.
La fine di un’era: la scomparsa della grande impresa
Accanto alle grandi famiglie dell’industria e della finanza era venuta crescendo sempre più una costellazione di piccole e piccolissime imprese, alcune delle quali si erano rafforzate e avevano acquistato un peso maggiore proprio in forza della propria piccola dimensione e flessibilità.
Nel 1980, mentre i dipendenti dei maggiori complessi industriali erano diminuiti da un milione e mezzo a 1.266.000, quelli delle imprese erano aumentati da poco più di 2 milioni a oltre 3 milioni, fino a coprire il 60% dell’intera occupazione nell’industria manifatturiera. Le aziende con massimo 10 addetti davano da lavorare a più del doppio delle grandi industrie <542. Emergevano in questa nuova costellazione di imprese due anime: quella delle imprese che integravano le attività dei grandi gruppi e quella delle imprese indipendenti, attive soprattutto nei settori tradizionali. Nel complesso, facevano capo alle piccole imprese oltre il 25% della produzione nazionale, un quinto degli investimenti complessivi, da un quarto a un terzo delle esportazioni e metà degli occupati <543.
All’immagine tradizionale delle due Italie nel Nord e del Sud si era sostituita una configurazione più articolata, non più imperniata sulle principali aree urbane, che evidenziava una Terza Italia, per utilizzare la terminologia di Bagnasco <544, che era popolata da schiere di imprenditori e operai specializzati e produceva saperi pratici e forme originali di professionalità e organizzazione aziendale, che interessava le regioni del Triveneto (Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli Venezia Giulia), le tradizionali regioni “rosse” (Emilia-Romagna, Toscana e Umbria) e le Marche. La via italiana alla flessibilità, per usare le parole di Castells, stava prendendo forma attorno ai distretti industriali, analizzati per la prima volta da Becattini <545 che, proseguendo l’analisi di Bagnasco, li definiva come sistemi territoriali di piccole e medie imprese, fortemente specializzate e orientate all’esportazione, le quali, per ridurre i costi di transazione facevano affidamento sull’ampia disponibilità di beni collettivi presenti nel territorio di riferimento, anziché inglobando i fattori di incertezza come era solita fare la grande impresa.
Secondo De Rita <546, intervistato nel 1980 dalla Gazzetta della piccola industria, era avvenuto non solo un mutamento dello scenario geo-economico ma anche una metamorfosi del nostro capitalismo industriale, con i distretti industriali che si dimostravano decisamente meglio attrezzati per vivere nel nuovo mondo post-fordista rispetto alle grandi imprese, che ora facevano affidamento all’esternalizzazione di parte delle produzioni per svincolarsi dalle continue rivendicazioni sindacali e da un eccesso di costi di gestione.
Se infatti in Italia nel 1981 le aziende con meno di 100 addetti annoveravano quasi il 60% delle maestranze dell’industria manifatturiera (rispetto al 30% della Germania, al 29 della Francia e al 25 del Regno Unito), da allora continuarono a comprenderne sempre di più, tanto che verso la fine degli anni ’80 assorbivano quasi due terzi della manodopera totale <547.
In coincidenza con l’espansione di questa miriade di minuscole unità produttive si era ampliata anche l’area dell’industria manifatturiera, estesa non più soltanto intorno alle principali città ma sempre più a raggiera in diverse località di provincia, dai centri urbani minori ai loro dintorni, finanche ai piccoli borghi. Non solo: accanto alla nascita e la diffusione di nuove piccole imprese, cominciava a farsi strada una nuova tipologia di lavoratore che non aveva nulla a che fare con la figura dell’operaio massa dei grandi stabilimenti, protagonista dell’autunno caldo prima e fulcro dei consigli di fabbrica poi. Questo nuovo operaio diffuso, come venne definito, era caratterizzato anzitutto dal fatto che non era più concentrato nelle aree metropolitane e nell’ambito di grandi complessi industriali, ma era diffuso appunto lungo ampie aree territoriali e occupato, a piccoli scaglioni, in una vasta trafila di piccole aziende a conduzione familiare <548.
S’era dunque in presenza di un’espansione del sistema industriale a prato <549, per dirla con le parole dell’epoca, o a rete, per dirla alla Castells <550, mentre alla sommità, nell’ambito dei grandi complessi, la produzione a catena di matrice fordista stava lasciando il posto a un’organizzazione più snella, orizzontale, strutturata per linee di prodotto, che faceva uso di nuovi sistemi automatizzati.
Ovviamente, questa scomposizione della grande industria a favore di una produzione più flessibile e decentrata era visibile anche in Lombardia: non solo cresceva il numero delle aziende e si riduceva la loro dimensione media, ma venivano diversificati i tipi di organizzazione produttiva, che venivano adattati alle specificità del territorio, contribuendo così ad accentuare le differenze tra le diverse zone della regione, in particolare tra Milano e le altre aree industriali <551.
La crescita economica in queste altre aree, in particolare nella fascia pedemontana (Varese, Como, Lecco, Bergamo, Brescia) e nelle città medie della Brianza che cercavano di affrancarsi dall’egemonia economica di Milano (Monza, Cantù, Desio, Seregno), si fondava sul dinamismo della piccola e media impresa, dato che il radicamento nella società locale e forme organizzative maggiormente elastiche avevano consentito a questi sistemi di imprese di affrontare efficacemente l’apertura internazionale dei mercati e una domanda frammentata e instabile. Non solo: queste piccole imprese si erano quasi tutte emancipate dall’antico rapporto di dipendenza con la grande industria e avevano sviluppato una serie di reti produttive che avrebbero assunto nel tempo le fattezze di veri e propri distretti industriali, specializzate in una o più produzioni. La principale conseguenza a livello sociale di questa trasformazione economica fu che le comunità che ospitavano questi sistemi di imprese erano caratterizzate da un’elevata mobilità sociale e da una fitta rete di relazioni personali che indebolivano la forza del conflitto di classe <552.
Il nuovo presidente di Confindustria, Luigi Lucchini, conosceva bene questa nuova faccia della realtà industriale, essendo originario di Brescia: nella provincia lombarda erano sorte infatti, accanto a imprese di vecchia industrializzazione e alcune dinastie industriali di seconda o terza generazione, anche una serie di piccole imprese che per certi aspetti assomigliavano a laboratori artigianali, ma per altri presentavano i connotati di veri e propri stabilimenti industriali con nuovi impianti dall’alto contenuto tecnologico e processi di produzione aggiornati al nuovo paradigma economico <553.
Del resto, le valli bresciane avevano molti tratti in comune, anche sotto il profilo socio-culturale, con quelle fra la pianura e le Prealpi venete, che erano il vivaio e l’epicentro della nuova micro-industria di cui abbiamo parlato e che rafforzò la fisionomia molecolare del capitalismo lombardo. Molti di questi nuovi imprenditori venivano dalle campagne e dai ceti popolari, così come molti dei lavoratori locali avevano un titolo di studio e avevano alle spalle famiglie con un campo oppure qualche attività in proprio, tanto che forte era il consenso elettorale della Democrazia Cristiana <554.
Sul ruolo che ebbero le piccole imprese nell’uscita dalla crisi drammatica degli anni ’70, Guido Carli scrisse nelle sue memorie: «al di fuori della mano pubblica, grazie allo stimolo del Mercato comune, si era venuta a creare una rete di piccoli imprenditori agguerriti, che non soffrivano di alcun complesso di inferiorità verso i loro concorrenti stranieri. Queste piccole e medie imprese si stavano ristrutturando in silenzio proprio allora, negli anni Settanta, un decennio in anticipo rispetto ai grandi gruppi. È a loro che dobbiamo l’uscita dalla crisi» <555. E in effetti fu proprio grazie alla diffusione di queste nuove piccole e medie imprese e alla ripresa della grande industria, liberata dai vincoli degli anni ’70, che si manifestò nel corso del 1986 un balzo in avanti dell’economia italiana: migliorò la situazione della finanza pubblica, diminuì il disavanzo primario e pure il tasso di crescita del debito pubblico, con tanto di sorpasso sul Regno Unito (benché i dati dell’Istat includessero l’economia sommersa). Il 40% del reddito nazionale e il 41% della forza lavoro totale erano assorbiti dall’industria <556.
[Note]
542 Castronovo, L’Italia della Piccola industria, p. 105
543 Ivi, p. 110
544 BAGNASCO, A. (1977). Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, Bologna, il Mulino.
545 BECATTINI, G. (1979). “Dal «settore» industriale al «distretto» industriale. Alcune considerazioni sull’unità di indagine dell’economia industriale”, in Rivista di economia e politica industriale, 1, pp. 7-21
546 Citato in Castronovo, l’Italia della piccola industria, p. 111
547 Castronovo, Cento anni di imprese, p. 583
548 Ivi, p. 584
549 Citato in Castronovo, op.cit., p.585
550 Cfr CASTELLS, M. (2008). La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore.
551 Biorcio, R., “La società civile e la politica: dagli anni del boom a fine millennio”, pubblicato in BIGAZZI, D., MERIGGI, M. (a cura di) (2001). Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. XVI: La Lombardia, Torino, Einaudi, p. 1045
552 Ibidem
553 Castronovo, op.cit., p. 586
554 Ibidem
555 Citato in Castronovo, L’Italia della piccola industria, p. 99.
556 Ivi, p. 137
Pierpaolo Farina, Le affinità elettive. Il rapporto tra mafia e capitalismo in Lombardia, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Milano, Anno Accademico 2019-2020