Siviero offriva una ricostruzione estremamente dettagliata degli eventi

Un discorso a parte merita un altro tipo di testi sul patrimonio artistico e il conflitto, pubblicati in alcuni casi nell’immediato dopoguerra ma più spesso diversi anni dopo gli eventi.
Si tratta dei resoconti delle vicende belliche redatti dai funzionari coinvolti negli sforzi di protezione del patrimonio artistico italiano.
Queste pubblicazioni furono incoraggiate anche dall’attenzione rivolta dalla stampa alla questione durante il conflitto. La risonanza mediatica delle vicende aveva probabilmente spinto quanti vi furono convolti a raccontare la propria esperienza, consapevoli della solennità e importanza del compito svolto. Una parte di questi testi includeva anche estratti da documenti di carattere ufficiale, tipicamente rapporti sull’opera svolta dall’Amministrazione durante il conflitto. Nella maggioranza dei casi erano però concepiti per la divulgazione, e contenevano resoconti delle azioni compiute per la protezione o il restauro delle opere d’arte.
Naturalmente gran parte di queste pubblicazioni avevano un carattere in qualche modo apologetico e, soprattutto nel caso di quelle edite a ridosso degli eventi bellici, avevano per scopo principale la celebrazione dell’operato dei funzionari stessi e dagli alleati durante il conflitto, e del ruolo fondamentale da essi svolto per la protezione ed il recupero dei monumenti italiani.
Si trattava quindi generalmente di testi dedicati a esperienze piuttosto limitate, spesso a una Soprintendenza oppure addirittura a singoli episodi.
Appartenevano a questa categoria i già citati scritti di Fasola, che rappresentavano una delle pubblicazioni più “politiche”, il resoconto redatto da Rotondi sui depositi di Sassocorvaro, e i volumi di Ceschi e Molajoli citati sopra <732.
A differenza degli altri scritti considerati in questo capitolo, non si trattava necessariamente di pubblicazioni direttamente promosse dalle istituzioni competenti, ma piuttosto del risultato dell’iniziativa personale dei redattori. Trattandosi però di funzionari dell’Amministrazione, i contenuti degli scritti in questione erano comunque noti al Ministero, e in alcuni casi anche parzialmente concordati con esso. Per quanto non sia possibile considerarle testimonianze ufficiali, bisogna quindi includere almeno i testi pubblicati a ridosso del conflitto nel quadro della campagna di informazione promossa e incoraggiata dalla Direzione Generale per sostenere l’opera di ricostruzione.
Questa caratteristica naturalmente si affievoliva nelle pubblicazioni successive, dove prevaleva invece il carattere di testimonianza degli eventi e del ruolo svolto dai singoli individui. Queste erano quindi concepite più come contributi alla ricostruzione di vicende belliche ormai trascorse che come spiegazioni al pubblico dello stato del patrimonio artistico e della condotta di quanti erano incaricati di proteggerlo nel periodo immediatamente precedente.
A questo secondo gruppo appartengono anche i diari di alcuni dei protagonisti di quelle vicende, in alcuni casi pubblicati addirittura dopo la loro morte, come nel caso della cronaca dei trasporti preparata da Emilio Lavagnino tra 1943 e 1944 e pubblicata nel 1974 a cura di Bruno Molajoli <733.
Lo stesso gruppo includeva anche L’arte e il nazismo, il già più volte citato libro di Rodolfo Siviero pubblicato postumo nel 1983, che rappresentava però un volume decisamente più ambizioso sia in termini di documentazione che dal punto di vista interpretativo. Esso conteneva infatti diverse citazioni da documenti ufficiali della RSI e del Comando tedesco, che l’autore sosteneva di aver raccolto o copiato durante la guerra. Per via di queste citazioni, e del ruolo svolto da Siviero nel recupero delle opere d’arte, questo libro ebbe un’influenza significativa sulla prima storiografia in materia, soprattutto per quanto riguardava il ruolo svolto dal Kunstschutz.
Nel libro, egli presentava la propria ricostruzione della condotta delle autorità tedesche nei confronti del patrimonio artistico italiano, da lui già usata anche per motivare le richieste di restituzione.
Siviero partiva dalla campagna di acquisti condotta da Filippo d’Assia e dalle numerose esportazioni illegali dei beni vincolati condotte a beneficio dei gerarchi nazisti e con la complicità dei vertici del regime, a cui si erano opposti spesso invano gli sforzi dei Soprintendenti e della Direzione. Queste esportazioni erano cominciate ben prima del conflitto, ma proseguirono almeno fino al 1943, e di conseguenza egli le considerava un’anticipazione delle vicende belliche.
Nonostante si trattasse di beni vincolati, la vendita delle opere e il loro trasferimento all’estero furono favoriti in ogni modo dai vertici del governo e dell’amministrazione italiani. Si trattò quindi di una violazione della normativa apertamente incoraggiata dal regime fascista. Questo atteggiamento rifletteva il completo disinteresse di quest’ultimo per il patrimonio artistico nazionale, oltre ovviamente alla sua sudditanza politica e diplomatica nei confronti del nazismo.
Il punto centrale del volume era però l’opinione di Siviero sul Kunstschutz, che egli presentava come un mezzo adottato dal Reich per proseguire la campagna acquisti degli anni precedenti sotto una nuova forma. Egli sosteneva infatti che l’ufficio (nella sua relazione guidato sin dall’inizio da Langsdorff) fosse stato creato al solo scopo di preparare la “rapina organizzata dei reparti armati” <734, con la scusa della protezione del patrimonio artistico.
In particolare, egli attribuiva al Kunstschutz la responsabilità di aver coperto se non diretto furti del patrimonio come quello della divisione Goering, omesso dal rapporto di Von Tieschowitz sulle opere provenienti da Montecassino, e di avere orchestrato distruzioni quali l’incendio dell’archivio di Napoli.
A suo giudizio, la principale dimostrazione della malafede degli ufficiali erano proprio le omissioni presenti nei rapporti del Kunstschutz, anche se Siviero le attribuiva all’intenzione del Comando di pubblicare i principali atti della Sezione nel dopoguerra per illustrarne l’operato, cosa che sarebbe stata impossibile se avessero contenuto aperte critiche alla condotta dell’esercito tedesco.
Secondo questa interpretazione, le vicende delle opere toscane, a cui Siviero dedicava la maggior parte della sua ricostruzione delle vicende belliche, erano semplicemente il frutto di un netto miglioramento nell’organizzazione di questa sistematica spoliazione, possibile proprio grazie al lavoro di raccolta di informazioni in merito alle opere d’arte ed alla loro ubicazione compiuto dal Kunstschutz.
Siviero ricostruiva passo per passo, mediante documenti prodotti dalla RSI e dal Kunstschutz stesso, le trattative tra il Ministero dell’Educazione Nazionale e le autorità tedesche riguardo alle opere spostate nei depositi altoatesini, e le continue richieste di restituzione delle stesse da parte della RSI.
La maggior parte del testo era però dedicata all’esperienza di Siviero all’Ufficio Recupero, e in particolare alle complicate trattative per la restituzione delle opere d’arte esportate illegalmente, prima dello scoppio del conflitto e durante lo stesso. Siviero riferiva delle difficoltà incontrate nel far valere le rivendicazioni italiane con gli alleati e con i rappresentanti tedeschi, e dei problemi nei rapporti con una parte dell’amministrazione italiana, a cui egli attribuiva la decisione di chiudere l’ufficio e il mancato completamento della missione.
Quest’ultima parte e la polemica con quanti si erano opposti al suo ruolo erano probabilmente il motivo principale per cui Siviero aveva scritto il libro, per difendere e rivendicare il proprio ruolo nel conflitto e soprattutto nelle restituzioni.
Come già accennato, però, la porzione del volume di maggiore impatto fu quella riguardante il Kunstschutz e la sua condotta, soprattutto perché Siviero offriva una ricostruzione estremamente dettagliata degli eventi, e citava numerosissimi documenti da lui recuperati durante la sua attività di spionaggio.
Proprio per via del fatto che il libro era basato su una ricostruzione fondata sulle informazioni da lui direttamente raccolte durante il conflitto, e quindi inevitabilmente parziali, essa risultava a tratti inesatta, soprattutto per quanto riguardava i primi mesi di esistenza del Kunstschutz. Inoltre, l’interpretazione di Siviero, che presupponeva una vera e propria campagna di saccheggio da parte tedesca a cui andava ricondotto ogni episodio del conflitto, trascurava le contraddizioni nella condotta dei tedeschi e soprattutto la frequenza con cui le truppe avevano agito senza consultare il Kunstschutz. Proprio a quest’ultimo e a Landgsdorff egli attribuiva invece una responsabilità di direzione di questa campagna.
Nel complesso quindi le prime pubblicazioni dedicate ai danni di guerra subiti dai monumenti italiani furono inizialmente soprattutto prodotte dal governo della RSI, che visti gli effetti devastanti dei bombardamenti alleati sulle città italiane aveva più materiale a propria disposizione. Anche per questo, i volumi prodotti in questa prima fase erano spesso organizzati attorno alle fotografie, ampiamente diffuse anche con altri mezzi come la già citata serie di francobolli. Queste prime pubblicazioni erano quindi caratterizzate da un alto numero di immagini, considerate di maggiore impatto rispetto ai testi, al punto tale che La guerra contro l’arte arrivava ad includerle anche quando mancava documentazione fotografica dei danni alle opere.
Nel caso della RSI quindi l’attenzione era rivolta soprattutto ai danni di guerra ed alla denuncia delle distruzioni alleate, secondo uno schema già noto a partire dalla prima guerra mondiale. I volumi in questione riproponevano anche il linguaggio tipico di questo tipo di testi, a partire dal riferimento alla “barbarie”.
Sul fronte opposto, invece, dato anche il fatto che gran parte dei danni subiti dai monumenti era attribuibile ai bombardamenti alleati, le pubblicazioni promosse ebbero caratteristiche diverse, e prevedevano uno spazio più ampio dedicato agli interventi di recupero <735.
Mentre le pubblicazioni della RSI risalivano a un periodo in cui il conflitto era ancora in corso ed erano chiaramente concepite come parte della guerra di propaganda, quelle pubblicate dagli alleati e dal Ministero dell’Istruzione erano quindi più tarde e intendevano illustrare le condizioni del patrimonio artistico italiano a un pubblico appassionato della materia. Queste ultime erano state prodotte soprattutto allo scopo di incoraggiare le donazioni per l’opera di ricostruzione, pur mantenendo le posizioni della propaganda ufficiale, soprattutto nell’enfasi posta sui danni compiuti dai tedeschi.
I volumi prodotti da alleati e Ministero dell’Istruzione erano organizzati in modo diverso dai precedenti, e tendevano a descrivere con precisione gli interventi già condotti e a delineare le possibilità di recupero delle opere, invece di dedicare tutti i testi al compianto delle perdite, comunque esplicitamente riconosciute.
Essi quindi si inserivano nell’ambito delle iniziative di propaganda per la raccolta fondi più che in quella strettamente bellica, anche se presentavano comunque un’interpretazione dei fatti che tendeva a stigmatizzare in modo particolare i danni compiuti dai tedeschi e a non approfondire le responsabilità alleate.
Una pesante influenza della propaganda era presente anche nelle pubblicazioni dei protagonisti degli eventi bellici. Queste ultime riflettevano ovviamente il punto di vista personale degli autori che erano stati protagonisti delle vicende narrate, ma tendevano spesso ad esagerare le responsabilità degli occupanti tedeschi e dei funzionari della Direzione della RSI e a giustificare invece le scelte delle Soprintendenze ed enfatizzarne gli atti di disobbedienza ed i legami con la Resistenza.
Conclusioni
Lo sforzo compiuto dall’Amministrazione delle Arti per la protezione del patrimonio artistico italiano ebbe quindi caratteristiche diverse all’interno del territorio nazionale, non solo per via dell’evoluzione della vicenda bellica nelle varie regioni.
Questo aspetto divenne progressivamente più evidente con il procedere del conflitto, e soprattutto dopo la divisione dell’Italia seguita all’8 settembre, ma anche nella fase precedente la situazione all’interno del Paese non era affatto uniforme.
Notevoli differenze emergono infatti già dal rapporto di De Tomasso del 1935, che rileva livelli di preparazione molto variabili, anche se generalmente insufficienti, nelle Soprintendenze da lui visitate.
I conflitti di competenze tra gli uffici ministeriali impedirono infatti l’elaborazione di una strategia ben delineata a livello nazionale. In aggiunta, la riorganizzazione delle Soprintendenze nel periodo immediatamente precedente il conflitto rese in alcuni casi più difficile anche per gli uffici locali preparare adeguatamente l’entrata in guerra.
Di conseguenza, le Soprintendenze si trovarono spesso ad improvvisare i primi interventi difensivi, il che ne avrebbe compromesso l’uniformità. Esse dovettero anche compensare la scarsità di materiali per le strutture protettive, dato l’immediato aumento della domanda per tali materiali dopo l’entrata in guerra. Gli uffici locali furono quindi costretti a utilizzare soluzioni diverse da quelle previste dalle istruzioni ministeriali, sfruttando le risorse disponibili nel loro territorio di competenza.
Anche per questo, la protezione antiaerea dei monumenti italiani fu un processo più graduale di quanto inizialmente immaginato. Nonostante gli annunci trionfalistici del Ministero, la costruzione di strutture difensive si protrasse infatti per i primi anni di guerra.
Un dettaglio ancora più interessante fu però la continua revisione delle strategie adottate. Spesso anche su sollecitazione del Ministero, le Soprintendenze non si limitarono infatti a disporre l’aumento dei monumenti da proteggere, ma riconsiderarono persino le tecniche utilizzate. Anche grazie al continuo confronto tra i Soprintendenti, furono cambiati i materiali con cui erano realizzate le protezioni.
Questa tendenza si rivelò occasionalmente controproducente, come nel caso del Tempio Malatestiano, ma più spesso rappresentò una risposta necessaria al progressivo inasprimento dei bombardamenti. Proprio gli effetti delle incursioni indussero infatti le Soprintendenze a modificare le proprie strategie. Naturalmente, con il procedere del conflitto gli interventi difensivi si ridussero progressivamente, per la scarsità di risorse e per la necessità di provvedere ai consolidamenti dei monumenti bombardati. Consolidamento e copertura erano infatti interventi più urgenti e come tali prioritari rispetto all’adozione di nuove misure difensive.
La mancanza di un’adeguata preparazione ebbe un effetto significativo anche nel caso dei beni mobili. Anche in questo caso infatti i Soprintendenti furono costretti ad individuare in breve tempo strutture adeguate alla conservazione delle opere d’arte e situate in aree sufficientemente isolate.
La disponibilità di simili edifici e la quantità di opere da asportare determinarono quindi le scelte compiute dai singoli uffici. In alcuni casi la scelta del numero di edifici da adibire a deposito non fu però soltanto frutto delle circostanze ma di una precisa strategia di riduzione dei rischi, come in Lombardia e Toscana.
Come per le protezioni dei monumenti, anche i depositi aumentarono di numero con l’avanzare del conflitto e l’aumento dei bombardamenti. La strategia scelta rimase però sostanzialmente identica fino all’estate 1943. Da quel momento, le reazioni alla prospettiva di una guerra terrestre furono estremamente diversificate nelle varie Soprintendenze, influenzate anche dai tempi dell’avanzata del fronte. Il Ministero e le Soprintendenze disposero infatti frequenti spostamenti delle opere dai depositi, nel tentativo di trovare loro una collocazione che le proteggesse contemporaneamente dalla guerra aerea e dal passaggio delle truppe.
La situazione sarebbe diventata particolarmente complessa nelle regioni settentrionali, dove le Soprintendenze si trovarono a competere con altri uffici governativi per ottenere l’utilizzo degli edifici disponibili. Anche in questo caso le scelte compiute dalle Soprintendenze non furono uniformi ed in alcuni casi si rivelarono controproducenti.
Sin dall’inizio quindi la gestione della difesa antiaerea variò a seconda delle Soprintendenze e non fu sempre in linea con quanto prescritto dal Ministero. Questa autonomia gestionale anticipa, seppur in forma meno esplicita, l’indipendenza dimostrata da funzionari come Poggi a partire dall’autunno 1943.
Tale autonomia fu come già detto un diretto risultato dell’impreparazione alla guerra dell’Amministrazione. La mancanza di istruzioni e risorse necessarie alla programmazione delle difese, costrinse infatti le Soprintendenze a improvvisare i propri interventi. Esse quindi dovettero ricorrere a soluzioni diverse da quelle previste, come nel caso dei sacchi di carta, e soprattutto arrivarono a completare le misure difensive più lentamente di quanto sarebbe stato auspicabile.
Questo ritardo permise però loro di adattarsi più facilmente all’evoluzione della situazione, e la mancanza di un piano permise la continua elaborazione di nuove strategie, che spesso si rivelò cruciale nel salvataggio delle opere d’arte.
Tale elasticità fu essenziale anche per superare la crisi istituzionale nella difficilissima fase seguita all’8 settembre. In quell’occasione l’Amministrazione seppe infatti mantenere operativi i propri uffici anche in assenza di organi superiori, nonostante l’enorme difficoltà della situazione.
Questa capacità di adattamento dimostrata fu però soprattutto il prodotto della straordinaria abnegazione con cui il personale svolse i propri compiti durante una fase così difficile.
Lo stesso impegno caratterizzò, seppure in modo diverso, sia i funzionari tecnici sia i Direttori Generali provenienti da un percorso diverso, come Lazzari e Petrozziello, nonostante le occasionali difficoltà di rapporti e comprensione reciproca con i funzionari tecnici. Nel loro caso, l’impegno dimostrato si concluse però tendenzialmente con la cessazione del loro incarico. Lo stesso non avvenne per i funzionari tecnici, che spesso si dimostrarono disposti a contribuire allo sforzo di tutela indipendentemente dal loro inquadramento.
La dedizione dei funzionari rifletteva del resto la loro piena consapevolezza della gravità del momento, che emerge chiaramente anche dai loro scritti dell’epoca, compresi in alcuni casi i documenti ufficiali.
La consapevolezza della responsabilità di cui erano investiti permise spesso ai funzionari di superare numerosi ostacoli pratici e legali per la realizzazione dei loro piani di protezione. In alcuni casi questa coscienza ebbe però un effetto paralizzante, e li indusse a prendere decisioni sbagliate, o addirittura ad esitare a prendere iniziative. Questa seconda eventualità si verificò spesso nel caso degli uffici ministeriali e in particolare di Anti, con effetti negativi sul patrimonio affidato alla loro tutela.
Simili indecisioni e contraddizioni rischiavano di compromettere l’operato di un’Amministrazione già significativamente indebolita dalla cronica mancanza di risorse. La vicenda delle opere delle regioni centrali, e in misura minore quella della Cappella degli Scrovegni, sono un esempio emblematico dei rischi che una qualunque esitazione poteva comportare.
Nel caso degli uffici centrali, però, queste incertezze erano a volte anche un sintomo di impotenza. I vertici della Direzione erano infatti più condizionati da questioni di opportunità politica, e soprattutto subivano le pressioni degli occupanti. Data la mancanza di mezzi e materiali nelle zone occupate, la collaborazione di questi ultimi era infatti necessaria per qualsiasi intervento.
La progressiva autonomizzazione delle Soprintendenze rappresentò quindi una risposta anche a questa debolezza. Essa però rappresentava anche una forma di resistenza al processo di centralizzazione avviato dal regime prima del conflitto. Soprattutto nell’ultima fase, di fronte alla prospettiva di una nuova riforma strutturale dell’Amministrazione, la condotta delle Soprintendenze fu anche funzionale alla rivendicazione di una maggiore indipendenza per i propri uffici. Inoltre, nel caso delle regioni settentrionali, un certo grado di insubordinazione nei confronti del Ministero di Padova avrebbe potuto rappresentare un titolo di merito agli occhi dei liberatori. Si poteva quindi trattare di una condotta utile alla futura carriera, oltre a essere una manifestazione di genuina lealtà nei confronti del legittimo governo italiano.
Si trattò in ogni caso di un fenomeno che non fu mai pienamente contrastato dalla Direzione Generale padovana, consapevole probabilmente della necessità di queste iniziative autonome delle Soprintendenze e spesso anche impossibilitata per altre circostanze a sostenerle ufficialmente.
La condotta apparentemente debole e contraddittoria della Direzione fu quindi in qualche occasione intenzionale. In alcuni casi essa può addirittura essere considerata il prodotto di un certo pragmatismo.
Proprio il pragmatismo fu un tratto distintivo dell’operato di tutta l’Amministrazione, e soprattutto degli uffici centrali. Dato il momento delicato, i funzionari che ne facevano parte si trovarono spesso a dover adottare strategie irrituali per ottenere i propri obiettivi, prescindendo dai normali modelli di condotta. Questo elemento è particolarmente evidente nella vicenda dei trasporti in Vaticano, e nel coinvolgimento nelle operazioni di figure esterne all’Amministrazione.
La capacità di anteporre a questioni di principio le superiori esigenze delle opere d’arte fu del resto testimoniata chiaramente dai numerosi casi di Soprintendenze, anche settentrionali, che si trovarono, a volte anche contemporaneamente, a collaborare sia con gli occupanti sia con i partigiani pur di raggiungere i propri scopi. Questo atteggiamento emerge occasionalmente anche nella condotta dei due uffici centrali in merito alle questioni più propriamente politiche, ad esempio nella disponibilità a incoraggiare seppur ufficiosamente la collaborazione con i partigiani nel caso di Anti, e a sorvolare sui precedenti di figure come Sanpaolesi che avrebbero teoricamente dovuto essere sottoposte a procedimento di epurazione in quello della Direzione del Regno.
Lo stesso pragmatismo ispirò probabilmente la condotta quasi spregiudicata dell’Italia in sede di trattative postbelliche, senza la quale la restituzione delle opere portate fuori confine prima del conflitto sarebbe stata impossibile.
La disponibilità a contribuire a qualsiasi iniziativa pur di facilitare la protezione del patrimonio artistico è testimoniata anche dai numerosi, e variamente strutturati, tentativi di sensibilizzare le truppe occupanti, spesso suggeriti dai rispettivi uffici per la protezione del patrimonio artistico. Essi videro infatti un ampio coinvolgimento dei funzionari delle Arti, che non si limitarono a concedere l’uso dei quadri nelle mostre o ad autorizzare visite ai monumenti ma arrivarono a prestare il loro tempo per illustrare le opere d’arte agli occupanti, improvvisandosi guide turistiche, in un momento in cui chiamata alle armi e infortuni avevano drasticamente ridotto il personale ed i compiti da svolgere erano numerosi.
Pur facendo parte della più ampia strategia di propaganda in tema, infatti, queste iniziative ebbero in alcuni casi, come quello di Fasola durante l’occupazione dei depositi fiorentini, i tratti di un tentativo disperato di imbonire gli occupanti nella speranza di contenere i danni che stavano già producendo, più che essere parte di una campagna di sensibilizzazione per indurli a contribuire alle operazioni di protezione del patrimonio artistico.
Anche la propaganda, pur essendo in primo luogo concepita come una parte dello sforzo bellico, giocò un ruolo fondamentale nell’opera di protezione. La denuncia delle distruzioni fu infatti con tutta probabilità consapevolmente usata anche a scopo deterrente dall’Amministrazione delle Arti, che non poteva ignorare il precedente della prima guerra mondiale e le riflessioni in merito durante il primo dopoguerra.
L’attenzione alla comunicazione di quanto riguardava il patrimonio artistico rimase del resto un elemento fondamentale dell’operato degli uffici centrali anche dopo la cessazione delle ostilità, seppur in chiave totalmente diversa.
Si passò infatti dalla produzione di pubblicazioni di denuncia a testi dai toni molto diversi, che illustravano la gravità dei danni subiti dal patrimonio artistico italiano non per suscitare ostilità nei confronti dei responsabili, e così facendo scoraggiare il ripetersi di simili eventi, ma per indurre il pubblico a contribuire all’impegnativa, e fondamentale, opera di ricostruzione.
Nel complesso, il quadro che emerge è quello di un’Amministrazione che pur affrontando enormi difficoltà non soltanto pratiche riuscì a superare positivamente una fase di straordinaria emergenza, soprattutto per l’abnegazione del suo personale e la disponibilità di quest’ultimo ad avvalersi di tutti i mezzi a sua disposizione, che generalmente permisero di compensare l’impreparazione e la scarsità di risorse.
Nonostante le terribili perdite subite dal patrimonio italiano, bisogna infatti riconoscere che il bilancio del conflitto fu più positivo di quanto ci si sarebbe potuti immaginare, soprattutto se si considerano le circostanze in cui l’Italia affrontò la guerra, ed il potenziale distruttivo del conflitto che attraversò il paese.
Da questo punto di vista, la difesa del patrimonio artistico italiano dai danni bellici costituisce tuttora un modello importante. In un momento in cui la distruzione dei monumenti nelle zone di guerra è tornata ad essere al centro dell’interesse dell’opinione pubblica, lo studio di un simile precedente può infatti rappresentare un contributo utile all’elaborazione delle strategie per la protezione del patrimonio artistico.
L’analisi degli aspetti positivi e negativi dell’esperienza bellica e della riflessione cominciata nel primo dopoguerra è infatti ancora alla base delle più recenti disposizioni internazionali in materia, ovvero il secondo protocollo della Convenzione dell’Aja, redatto nel 1999.
[NOTE]
732 Fasola 1945, Rotondi 1945, Molajoli 1948 e Ceschi 1949. Ad essi si aggiunge anche il già citato Hartt 1949, che rappresenta il solo volume pubblicato da uno degli ufficiali MFAA che operò in Italia.
733 Lavagnino 1974, poi ripubblicato in Morselli 2010.
734 Siviero 1983 p. 28.
735 Bisogna notare che risulta che anche il Kunstschutz stesse preparando un volume dedicato agli sforzi compiuti dal proprio ufficio per il patrimonio artistico italiano. Del volume resta soltanto uno schema di indice. A differenza delle pubblicazioni promosse dalla RSI, esso avrebbe dovuto documentare nello specifico l’attività svolta dal Kunstschutz nelle diverse aree del paese, anche se una parte (di cui risulta lo schema preparato da Heydenreich) sarebbe stata dedicata anche alla documentazione fotografica dei danni di guerra. L’enfasi sarebbe però comunque stata posta soprattutto sulla celebrazione dell’operato del Kunstchutz. Sull’indice in questione vedi Klinkhammer 2012 p. 60 e p.71 n.93. e Caraffa e Goldhahn p. 98 (sullo schema di Heydenreich). I due indici sono riportati in traduzione anche da Siviero 1984 pp. 132ss
Alice Leone, “L’opera ostinata e devota del personale rimasto”. L’Amministrazione italiana e la protezione del patrimonio artistico tra 1943 e 1945, Tesi di perfezionamento in Discipline Storiche, Scuola Normale Superiore di Pisa, Anno Accademico 2016/2017