Stragi in Carnia di civili inermi, colpevoli di aver fraternizzato con falsi partigiani

Paluzza (UD)

La Valle del But, una delle più importanti valli della Carnia, è percorsa dall’arteria stradale che per la via più breve e comoda, attraverso il passo di Monte Croce Carnico, conduce dalla Carnia all’Austria e da qui alla Germania <57. La vallata costituiva quindi la via di comunicazione che da Paluzza (UD), famosa per le trincee della prima guerra mondiale, arrivava sino a Timau, l’ultimo paese italiano prima del confine con l’Austria. In questa importante arteria stradale, durante tutto il periodo considerato, i partigiani andavano molestando continuamente il transito di mezzi e soldati tedeschi. Il territorio divenne giorno dopo giorno sempre più rischioso per le truppe tedesche.
Ai primi di luglio del 1944 i partigiani ostruirono la strada fra Timau e Monte Croce con grandi massi di pietra sottoponendo i tedeschi a continui attacchi lungo la carrozzabile, il più massiccio il 15 luglio. Quel giorno un’autocolonna tedesca <58 in pattugliamento nella valle del But venne attaccata due volte dagli uomini del Btg. «Carnia», prima a sud di Paluzza e poi sulla medesima strada in zona «ponte di Noiaris» <59. Secondo le cronache partigiane le perdite tedesche furono sensibili, mentre da parte tedesca non si è potuto trovare nulla di preciso. Le continue imboscate e la necessità che il Passo di collegamento con l’Austria non fosse disturbato da azioni partigiane, portarono ad un’azione di controbanda nella zona di Paluzza. L’unità tedesca era formata da circa 23-28 soldati tedeschi tra cui qualche italiano, ma da quale reparto provenissero questi soldati non è pienamente appurato.
Secondo Di Giusto sarebbero stati tutti appartenenti all’SS-Karstwehr-Btl. e agli ordini di un maresciallo <60, secondo Sergio Corbatti e Marco Nava, invece, non ci sarebbero documenti ufficiali che indichino che nella controbanda ci fossero uomini dell’unità delle SS, ritengono piuttosto che si trattasse di uomini della Divisione «Brandenburg» <61.
Se la documentazione ufficiale non può aiutare, qualche indicazione in più giunge dalle poche testimonianze di un sopravvissuto a quelle tristi giornate, Rodolfo Di Centa <62: «La maggior parte dei componenti il gruppo dei falsi partigiani erano Altoatesini, che ce l’avevano a morte con noi, un odio che ebbi a conoscere ancora quando vennero chiamati a prestare servizio militare nella artiglieria alpina. Parlavano l’italiano proprio come lo parlavano i falsi partigiani» <63; poco dopo ebbe nuove informazioni a Tolmezzo (UD) su quel piccolo gruppo di soldati tedeschi: «Questo gruppo di sanguinari era alle dipendenze dirette del comando di Trieste. Era composto da pochi italiani e da molti Altoatesini» <64. Soldati altoatesini si trovavano all’epoca solo tra le file della SS-Karstwehr-Btl. È importante fare una piccola parentesi sulla costituzione di questi piccoli reparti antipartigiani prima di descrivere come operò questa colonna. Quali compiti e in che modo le «controbande» fossero impiegate nella lotta antipartigiana.
[…] La teoria pianificata sulla carta dai comandi tedeschi non fu sempre facile da rendere operativa sul territorio. Il caso che si andrà ora ad analizzare dimostra come la strategia militare della controbanda si trasformò in una strage di civili. L’intento era di fatto rendere deserta la montagna, affinché i partigiani non trovassero più né asilo, né assistenza alcuna da parte di civili locali. Si scelse come tecnica l’utilizzo di questo tipo di unità per poter sfruttare meglio il fattore sorpresa e per poter ingannare la popolazione locale.
Il 19 luglio 1944 i comandi partigiani ebbero sentore della presenza in zona Casera Stua (al confine con l’Austria) di una controbanda i cui membri si erano travestiti da partigiani garibaldini. Il distaccamento Gramsci della «Garibaldi-Carnia» rastrellò invano la zona nel vano tentativo di individuare l’unità tedesca <71. Questa si trovava alle Casere di Lanza e Cordin, dove uccise 6 civili che avevano fraternizzato con loro. Il piccolo gruppo si spostò poi a Malga Pramosio; ciò che accadde qui lo descrisse il Segretario Comunale di Paluzza durante un suo incontro con il Berater di Udine: “Il giorno 21 luglio, verso le ore 13, in località “Malga Pramosio” sita in territorio del Comune di Paluzza, un gruppo di 23 individui (che poi si riconobbero per militari tedeschi e fascisti repubblicani), provenienti da oltre confine e già segnalati il giorno prima, in quel di Paularo, vestenti l’abito borghese e con distintivi dei Partigiani della Brigata Garibaldi (stella rossa sul copricapo e fazzoletto dello stesso colore al collo) trucidava, con diverse scariche di arma da fuoco ed a colpi di pugnale, il proprietario della malga stessa, Sig. Brunetti Andrea ed altre 15 persone; addette, in parte, alla malga stessa ed in parte salite di buon mattino, per il ritiro della propria quota di prodotti latticini. Dette persone, tre cui due donne con famiglia a carico e una in stato di avanzata gravidanza, stavano consumando, nella casera, il magro pasto meridiano. Il reparto dopo aver seviziato in orribile modo e aver spogliato di ogni oggetto e valore i corpi delle vittime, ed averli accatastati in un angolo del locale, proseguiva per Paluzza, lungo la strada che da “Malga Pramosio” posta in fondo valle e sfocia in località “Moscardo”, nella strada nazionale Tolmezzo-Passo di Monte Croce Carnico” <72.
Gli uomini della controbanda erano riusciti ad ingannare le persone della malga e, dopo aver mangiato, li trucidarono senza pietà in quanto ritenuti helfer dei banditi.
I civili della Malga non furono gli unici ad essere ingannati dal travestimento: “Lungo il tragitto, la banda assaliva due donne inermi (Delli Zotti Massima di anni 53 con figli a carico e Tassotti Paolina di anni 45 con 4 figli in tenerissima età a carico), e, dopo averle violentate ed atrocemente seviziate, le uccidevano a colpi di arma da fuoco e di pugnale, riducendo i poveri corpi, in uno stato orrendo. Le due donne portavano sulle loro membra, molteplici segni di morsi, le ecchimosi prodotte dalle battiture eseguite con i calci delle armi, le graffiature ecc., nonché orribili squarci e profonde ferite di pugnale. Ad entrambe era stato confitto, in foro anale ed in vagina, un tappo di legno, come a rendere più completo e feroce, lo scempio e l’oltraggio delle povere vittime, le cui vesti e membra, evidentemente per l’opposta resistenza e per la colluttazione, erano ridotte a brandelli” <73.
Una volta giunta al sottostante bosco «Moscardo», la controbanda trucidò, a colpi di pugnale, due operai di Paluzza di ritorno dal lavoro; «in entrambi, emergeva su tutte le molteplici ferite, un largo squarcio alla gola con recisione della carotide» <74.
Il gruppo dei terroristi, raggiungeva quindi l’abitato di Paluzza. Saranno state le ore 17. In località “Ponte di Pietra” esso si divideva: il grosso, composto di 18 uomini circa, proseguiva a valle dell’abitato, lungo la strada nazionale. Gli altri, attraversata via Pal Piccolo e raggiunta via Roma, facevano scoppiare una bomba nell’Ufficio Postale, nell’intento evidente, di distruggere gli apparati fonotelefonici e telegrafici. Essi dopo aver tratto in inganno diverse persone spacciandosi per partigiani di Tito, raggiunta la località “Bersaglio” a valle del Capoluogo, si riunivano al resto della banda, proseguendo alla volta di Cercivent, ove essi trassero in inganno e massacrarono tre persone. Quindi approfittando della sopraggiunta oscurità e della nebbia si dileguavano” <75.
In soli due giorni la controbanda aveva trucidato 29 civili inermi, tratti in inganno dal travestimento dei soldati tedeschi e colpevoli di aver fraternizzato con i falsi partigiani.
Il 22 luglio, verso le ore 13, giunse a Paluzza una seconda colonna composta da circa 70 uomini della SS-Karstwehr-Btl., proveniente da Tolmezzo, al comando di un tenente <76 delle SS, accompagnato dal capitano Giuseppe Uccelli <77.
Lungo la strada da Tolmezzo a Paluzza (UD) la colonna, a Rivo, aveva ucciso, davanti alla porta di casa, Gino Miss, operaio di 23 anni. Una volta arrivati a Paluzza, dopo aver circondato il paese e bloccati tutti gli accessi con postazioni di armi automatiche, la controbanda iniziò il rastrellamento passando di casa in casa. Verso le 14 giunse in paese, «tra grida selvagge ed inumane di evviva» <78, il gruppo dei finti partigiani che la sera prima si era dileguato in attesa che giungessero rinforzi per il rastrellamento di Paluzza.
I tedeschi, dopo i ripetuti attacchi subiti presso questo paese, pensando di trovare in paese forte resistenza ed un grosso numero di partigiani, avevano deciso di attaccarlo in forze. A Tolmezzo dove vi era il grosso delle truppe tedesche dislocate in Carnia, si udiva spesso dire: «Paluzza dove stare tutti partigiani». Il paese della Carnia era quindi considerato «zona partigiana» e tutti i suoi cittadini dovevano essere trattati di conseguenza in quanto tutti possibili banditi o loro helfer: “Per fortuna la maggioranza assoluta degli uomini si era data alla montagna, onde sottrarsi al pericolo che li minacciava. Alcuni Ufficiali, tra i quali il capitano Uccelli degli Alpini Italiani, scortati da numerosi soldati armati di fucili automatici, irrompevano nel palazzo municipale ove si trovavano il Podestà, il Segretario Comunale, il Direttore Didattico ed alcuni impiegati. Un tenente della SS tedesca che portava il cappello alpino italiano, investiva urlando, a schiaffi il Podestà e gli spianava contro una pistola. Giungevano frattanto, sul piazzale del Municipio, le persone che, da parte delle pattuglie, veniva prelevata presso le rispettive abitazioni” <79.
Verso le 16 il reparto, «ebbro di sangue ed in stato di palese ubriachezza (ubriachi erano anche gli Ufficiali)» <80 lasciò il paese e si diresse, con alcuni ostaggi, verso Tolmezzo. Tra questi ostaggi anche Rodolfo di Centa: “All’improvviso fu dato l’ordine dal maggiore Uccelli: “Prendete ognuno i vostri” ripetuto poi in tedesco dal tenente comandante delle SS. A quest’ordine i falsi partigiani come tigri andarono addosso alla preda, caricando questi uomini feriti e doloranti, dei loro zaini pieni di ciò di cui avevan fatto man bassa” <81.
Anche questa volta lungo la strada verso Tolmezzo, vennero compiute altre violenze e altre retate di civili, dove si contarono numerose vittime innocenti: altri tre uomini furono presi con l’inganno, sempre dalla stessa controbanda, e uccisi <82.
Giunti al bivio per Sutrio, il comandante dei finti partigiani con alcuni dei suoi uomini, si portò verso il paese di Sutrio per fare un’altra retata. Camuffati com’erano riuscirono ad ingannare altri cinque uomini.
Passato un po’ di tempo, circa un’ora, incominciammo a vedere gli sbirri con le loro prede ingannate. Man mano che arrivavano, uno alla volta veniva dato in consegna questa volta all’ufficiale tedesco e ai suoi uomini più vicini. Fu così l’inizio del martirio dei civili di Sutrio, i quali in primo luogo furon “presi a pugni” in viso e in altre parti del corpo fino a grondare sangue. Inoltre a calci finché si afflosciavano come sacchi vuoti. Poi venivano rialzati e presi sotto braccio dagli sgherri e portati verso l’orlo della strada, con il viso verso la scarpata. Infine il tenentino prendeva il mitra d’un suo milite e, puntando l’arma alla nuca, li faceva fuori” <83.
I soldati della controbanda rastrellavano i prigionieri, a Kühnbander, probabile nome del tenente delle SS, spettava il colpo di grazia, mentre il maggiore Uccelli, come ricordò Di Centa, «assisteva impavido alla scena, alla quale non partecipò, ma nemmeno mosse un dito per impedire la barbarie» <84. La colonna proseguì il suo cammino, tutti in fila indiana, con gli ostaggi caricati di cassette di munizioni e bombe a mano. Arrivati presso «Acquaviva» iniziò la strage degli ostaggi, come ricorda il protagonista Di Centa: “Andando avanti formammo una lunga fila, tanto che noi primi avevamo oltrepassato appena la curva di “Acquaviva” allorché sentii i primi spari un po’ lontani. Questo fu per me il segnale della nostra fine. […] Continuando il cammino, di tanto in tanto sentivo qualche sparo, sempre più vicino. Passata la curva di Noiaris, arrivammo al tunnel. Con un po’ di quiete volli chiedere a quel tale che mi aveva appeso il sacchetto di bombe, il perchè dietro di noi sparassero. Egli mi disse: “Kaputt partigiani”. Allora compresi e del resto l’avevo già intuito, che stavano facendo fuori i miei compagni, iniziando dagli ultimi man mano. […]
Quattro <85 ostaggi vennero uccisi quel giorno, finiti con colpo di pistola e scaraventati di volta in volta nel greto del fiume But. Due civili incontrati lungo il cammino fecero la stessa fine <86. Secondo la testimonianza di Di Centa tutti questi furono uccisi sempre dalla controbanda. I sette ostaggi giunti a Tolmezzo, tra cui lo stesso Rolando Di Centa, furono imprigionati per qualche giorno, e poi liberati. Durante l’operazione di rappresaglia morirono 52 civili.
[NOTE]
57 Si tratta di una strada esistente come collegamento già al tempo dei romani per il Norico.
58 Dalle testimonianze raccolte dallo storico Di Giusto, nell’autocolonna ci sono uomini della SS-Karstwehr-Btl.
59 G.A. Colonnello, Guerra di Liberazione cit., pp. 202-203; S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland cit., p. 513.
60 S. Di Giusto, Operationszone Adriatisches Küstenland cit., p. 514.
61 S. Corbatti – M. Nava, Karstjäger cit., p. 45.
62 Rodolfo Di Centa, noto in paese come Rudy, nato il 12.3.1901 a Zolna in Ungheria, prima della Grande Guerra si trasferisce a Paluzza con la famiglia. Dopo aver fatto il colono in Africa torna in Italia dove trova lavoro a Sauris, nella costruzione della diga, dove è impegnato nella realizzazione delle gabbie in ferro. Dopo l’8 settembre fu inserito nelle unità della Todt. Non fu mai un combattente e nemmeno partigiano, morirà a Paluzza il giorno 8 dicembre 1986, all’età di 85 anni. Quel giorno fu preso come ostaggio dai tedeschi, fu uno dei pochi a sopravvivere. Le sue memorie sono state pubblicate: R. Di Centa (Rudy), Testimone oculare. Valle del But (Carnia) 1944-1945, Paluzza 2003.
63 R Di Centa, Testimone oculare cit., p. 48.
64 Ivi, p. 54.
71 G. A. Colonnello, Guerra di Liberazione cit., p. 204.
72 IFSML-UD, Fondo 7, fasc. 7, Paluzza, Relazione del Signor Virgilio Candido, segretario Comunale di Paluzza, sull’eccidio di Malga Pramosio, di Sutrio e Paluzza del 21 e 22 luglio 1944. La relazione fu fatta verbalmente al Berater ed al Prefetto di Udine, il 10 agosto 1944. Assieme al segretario di Paluzza vi erano alcuni Podestà delle Vallate del But e del Degano, i segretari comunali di Forni Avoltri, Rigolato, Ovaro e Lauco; presenti anche l’Ing. Gnadlinger, cittadino austriaco benemerito del Movimento di Insurrezione e l’Ing. Cioni direttore delle Miniere di Cludinico a Ovaro (già membro del CLN nella Valle del Gorto). La relazione è stata recentemente pubblicata integralmente in A. Buvoli – C. Nigris, Percorsi della Memoria civile. La Carnia, la resistenza, Udine, 2004, pp. 46-49.
73 IFSML-UD, Fondo 7, Fasc. 7, Paluzza, Relazione del Signor Virgilio Candido cit.
74 Ibidem, si tratta di Pagavino Oreste di anni 38 e Primus Benvenuto di anni 59, entrambi coniugati ed il secondo con 4 figli a carico.
75 Ibidem.
76 Si tratta sicuramente del SS-Obersturmführer Kühnbander, e la colonna e lo Jagdkommando di Tolmezzo.
77 Giuseppe Uccelli, nel settembre del 1943 faceva parte delle truppe alpine di Tarvisio; collaborò da subito con i tedeschi, che gli affidarono il comando delle forze di polizia italiane nella zona di Cave del Predil. Successivamente entrò volontario nella SS-Karstwehr-Btl. sino a raggiungere il grado di Waffen-Sturmbannführer der SS. Dopo la guerra fu processato per collaborazionismo e condannato a 24 anni di carcere; cfr. IRSML-TS, Fondo Friuli, B. CXIII, fasc. 4931-4932.
78 Ibidem.
79 IFSML-UD, Fondo 7, Fasc. 7, Paluzza, Relazione del Signor Virgilio Candido cit.
80 Ibidem
81 R Di Centa, Testimone oculare cit., p. 34.
82 G. A. Colonnello, Guerra di Liberazione cit., p. 205. Furono: Straulino Mosè, 29 anni; De Reggi Mario, 46 anni; Nodale Enrico, 47 anni.
83 R Di Centa, Testimone oculare cit., p. 35.
84 Ivi, p. 36.
85 Erano: Englaro Ernesto (anni 44); Del Bon Osvaldo (anni 32); Gressani Giovanni (anni 32); Pittino Adamo (anni 45); un quinto certo Lazzara Costanzo, ferito gravemente si salvò.
Giorgio Liuzzi, La politica di repressione tedesca nel Litorale Adriatico (1943-1945), Tesi di Dottorato, Università degli Studi di Pisa, 2004