Un salto nel buio

Mario Bonfantini – Fonte: Archivio dell’Università degli Studi di Torino

Nel rileggere “Un salto nel buio” viene la tentazione di parafrasare Balzac e dire che Bonfantini, nelle pagine dedicate al campo di concentramento e di transito di Fossoli <1, ha fatto concorrenza allo stato civile nel tratteggiare le figure della Resistenza. Quello degli uomini che stanno per essere inviati a Mauthausen è una sorta di inventario di un mondo in parte perduto. Pochissimi torneranno dalla deportazione. Ne fa parte anche la memoria sonora di «Mathausen», scritto proprio in questo modo per due volte da Bonfantini, così come compare in moltissime lapidi (per esempio quella imperiese di due suoi compagni di viaggio, i fratelli Enrico e Nicola Serra *), racconti e romanzi, maldestra resa grafica del toponimo austriaco ‘Mauthausen’. Nel nominare gli abitanti di quella baracca di Fossoli, Bonfantini restituisce una vivacissima pluralità di storie, figure e posizioni politiche: dagli antifascisti di lungo corso come Acciarini e Oliaro ai generali e persino a un fascista, dai capi comunisti come Gino Ghermandi al ladro professionista Simonetti «redento all’Idea». Per giungere alla figura più felicemente tratteggiata, quella di Valcarenghi, «l’eroe di ben tre evasioni», personaggio quasi letterario e al tempo stesso di immediato realismo <2.
Furono 475 i deportati del trasporto del 21 giugno 1944 partito da Fossoli con destinazione Mauthausen, dove giunse quattro giorni dopo, e tra quelli vi fu anche Mario Bonfantini <3. Dopo i lunghi mesi di immobilità trascorsi a San Vittore e a Fossoli, si sentiva trasformato, mosso da un profondo bisogno d’azione: «ne avevo abbastanza di stare in gabbia e volevo rimettermi a ‘far qualcosa’ prima che finisse la guerra» 4; quel «far qualcosa» che nel primo immaginato tentativo di fuga dal torpedone che conduceva gli internati dal campo alla stazione gli faceva dire di Mino Steiner che a lui non mancava certo l’eroismo bensì «una certa incapacità all’atto risoluto e violento» <5. Il drammatico scenario del vagone nel quale Bonfantini, con altri cinque, mise in atto la fuga è stato ricostruito dalla storiografia grazie alle diverse memorie di deportazione di chi viaggiò su quel carro bestiame, da Alberto Todros a Marcello Martini, da Sante Bartolai a Franco Varini <6. Ma la sintesi per così dire teatrale di Eugenio Montale, nella prefazione a Un salto nel buio, disegnava con grande efficacia lo scenario nel quale agirono i protagonisti:
“La storia è breve, e nella parte più drammatica si svolge in poche ore, in un carro piombato che porta una cinquantina di prigionieri dal campo di concentramento di Fossoli a un qualche Lager tedesco. In un’atmosfera irrespirabile pochi uomini prendono il comando di questo pack di carne umana e dopo un contrastato, pazzesco referendum decidono di tentare la fuga” <7.
Per cogliere pienamente l’atmosfera del vagone da cui Bonfantini fuggì bisogna accostare al suo racconto quello assai più tardo di Todros, soprattutto la sua chiosa finale, quasi in forma di verso:
“Da quel momento nessuno può più scappare.
Quante volte a Mauthausen chi ha impedito la fuga ha fatto l’autocritica.
Di sessanta prigionieri siamo tornati vivi in nove” <8.
Nel concretissimo salto nel buio di Bonfantini sembrava in questo modo inverarsi il passaggio dall’attendismo socialista nei confronti della lotta armata, che aveva caratterizzato il primo anno di Resistenza, all’impegno diretto nella guerra partigiana che, proprio nelle settimane in cui Bonfantini meditava e realizzava la fuga, dava vita alle brigate “Matteotti”. Nel primo inverno della Resistenza la volontà di uomini come Mario e Corrado Bonfantini o Renato Martorelli di creare gruppi armati all’interno del Partito socialista era stata minoritaria. Era la posizione di coloro che appartenevano a una generazione intermedia, cresciuta durante il fascismo ma che lo scontro con lo squadrismo lo aveva vissuto o perlomeno visto. Di cultura umanistica, “il loro socialismo era largamente compenetrato da ideali di riscatto popolare e di rinascita nazionale e in genere li animava una concezione attivistica, o addirittura volontaristica e interventistica della militanza politica. Nella lotta armata vedevano l’occasione del riscatto morale e pratico del socialismo italiano sconfitto dalla dittatura” <9.
Quel riscatto affondava le sue radici nel primo dopoguerra e nel clima di scontro e violenza descritto in modo magistrale da Emilio Lussu in Marcia su Roma e dintorni. Viene in mente la descrizione che Vittorio Foa ha fatto della Camera del Lavoro di Torino, assaltata dalle squadre fasciste nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1921.
[…] Come ha scritto Claudio Pavone, la Resistenza non fu l’«omega» rispetto all’«alfa» dell’avvento del fascismo, due momenti «che stavano a dimostrare come si possa perdere la libertà per insipienza, vigliaccheria, cedimento alla forza e come la si possa riconquistare solo a prezzo di duri sacrifici» <15. In mezzo vi era stato il regime e la sua cultura, la costruzione del consenso e la distruzione del dissenso, l’uniformità dell’educazione e dei mezzi di comunicazione, le difficoltà di vita per i singoli e per le famiglie che al fascismo si opponevano o perlomeno non aderivano indistintamente.
[…] La famiglia Bonfantini fu una di quelle famiglie che attraversarono con fatica, durezza, rigore, interrogativi e anche contraddizioni i vent’anni dell’Italia fascista.
[…] Debolezze o necessità molto umane, che vanno sempre misurate sulla dimensione pervasiva del fascismo, sulla pluralità di antifascismi e di modelli di militanza, sulla lunga stagione di silenzio e repressione a cui il regime sottopose gli italiani, e in specie coloro che erano stati nemici e non avevano di fondo abdicato. La sintesi più efficace di quell’attraversamento del Ventennio è rappresentata probabilmente dall’incontro di Bonfantini ne Un salto nel buio con due sacerdoti. Uno è don Giuseppe Ferrari (quasi un omonimo di suo nonno), i cui occhi dolci e ridenti ricordavano al fuggitivo una illustrazione di Maroncelli in una vecchia edizione de Le mie prigioni:
“Parlavamo di politica, o meglio dell’antifascismo, che era stato per tutti e due come una vocazione, il senso di una stortura contro cui è necessario combattere, indipendentemente da ogni idea o dottrina, ed era quello anzi che ci aveva poi spinti ad approfondir la politica”.
Perché come disse il sacerdote: «non si può esser fascisti e restar cristiani, cioè persone dabbene uomini e non bestie!» Dove si legge l’eco di Vittorini, la disumanizzazione del nemico, secondo un processo tipico delle guerre civili, ma anche l’idea di un socialismo originario e universale. Ma al centro del loro dialogo si poneva drammaticamente il tema della prudenza, virtù che si era mutata in malattia, quella della vigliaccheria, del tacere e del diventare «come loro» <28. Prudenza che era quella dell’altro sacerdote che Bonfantini incontrava nel suo viaggio, don Inghirani. Spaventato da ogni forma di socialismo e comunismo, il prete di campagna predicava a Bonfantini l’immobilismo e il dolore come salvezza dell’anima perché strumento di perfezione morale. L’Italia di don Ferrari era quella di una minoranza, che non aveva lasciato trascorrere l’8 settembre senza conseguenze, che si era interrogata sulle proprie responsabilità, sul proprio agire e sulle scelte da compiere. Nella sua ultima lettera dal carcere di Castelfranco Veneto, scritta il 18 agosto 1943, Vittorio Foa incoraggiava i suoi genitori perché «i tempi saranno ancora difficili, sempre più difficili, ma in una luce nuova di speranza» <29. Il 23 agosto, dopo otto anni tre mesi e tre giorni di reclusione, abbandonava la prigione, lasciando al suo compagno di cella Bruno Corbi la Scienza nova seconda di Vico con una dedica sempre vichiana, parole che in seguito – avrebbe ricordato – che lo avevano accompagnato per un lungo tratto della giovinezza: «per varie e diverse vie, che sembravano traversie ed eran in fatti opportunità» <30.
[NOTE]
1 Per un inquadramento generale: GIUSEPPE MAYDA, Storia della deportazione dall’Italia 1943-1945. Militari, ebrei, politici nei lager del Terzo Reich, Torino, Bollati Boringhieri, 2002; La deportazione nei campi di sterminio nazisti. Studi e testimonianze, a cura di Federico Cereja e Brunello Mantelli, Milano, Angeli, 1986; BRUNO MAIDA, La deportazione politica, in Otto lezioni sulla deportazione, a cura di Bruno Maida e Brunello Mantelli, Milano, Aned, 2007.
2 MARIO BONFANTINI, Un salto nel buio, Novara, Interlinea, 2005 (I ed. Milano, Feltrinelli, 1959), pp. 43-44.
3 ITALO TIBALDI, Compagni di viaggio. Dall’Italia ai lager nazisti: i trasporti dei deportati, 1943-1945, Milano, Angeli, 1994.
4 BONFANTINI, Un salto nel buio, 2005 cit., p. 23.
5 Ivi, p. 40.
6 CARLO GREPPI, L’ultimo treno. Racconti di viaggio verso il lager, Roma, Donzelli, 2012, pp. 104-107.
7 Prefazione a BONFANTINI, Un salto nel buio, 2005 cit., p. 5.
8 ALBERTO TODROS, Memorie (1920-1952), Torino, Trauben, 1998, p. 45.
9 SIMONE NERI SERNERI, Cultura politica dei socialisti nella Resistenza, in I Bonfantini. Per un contributo alla conoscenza della cultura, della politica e dell’arte novarese tra il 1900 e gli anni ’60, «Atti del Convegno di Studi di Novara, 23 novembre 1991», a cura di Mauro Begozzi e Massimo A. Bonfantini, Provincia di Novara, 1996, pp. 150-151.
15 CLAUDIO PAVONE, Il regime fascista, in La Storia, IX, L’età contemporanea, 4, Dal primo al secondo dopoguerra, a cura di Massimo Firpo e Nicola Tranfaglia, Torino, UTET, 1986, p. 202.
28 BONFANTINI, Un salto nel buio, 2005 cit., pp. 107-108.
29 FOA, Lettere della giovinezza. Dal carcere 1935-1943, a cura di Federica Montevecchi, Einaudi, Torino, 1998, p. 1112.
30 BRUNO CORBI, Scusateci tanto (carceri e Resistenza), La Pietra, Milano, 1977, citato in PAVONE, Una guerra civile, 1991 cit., p. 3.
Bruno Maida, Da Novara a Fossoli: Mario Bonfantini dall’antifascismo alla Resistenza in MEMORIA – Mario Bonfantini (1904-1978). Un salto nella libertà, Atti del Convegno di Torino (16 dicembre 2016), a cura di Chiara Tavella, Rivista di Storia dell’Università di Torino V, 2016.2

* I fratelli Enrico (nato il 24 maggio 1921) e Nicola (nato il 2 luglio 1918) Serra furono arrestati il 3 dicembre 1943 dalla milizia fascista (Guardia Nazionale Repubblicana) con l’accusa di aver rubato armi ai tedeschi e di essere dei “ribelli”. L’11 febbraio 1944 i due fratelli furono consegnati alle SS per essere trasferiti nel carcere di Savona e poi nel carcere Marassi di Genova. L’11 marzo 1944 entrambi furono internati nel campo di transito di Fossoli (Modena) e deportati nel campo di concentramento di Mauthausen il 21 giugno 1944 come “prigionieri politici” con il trasporto n. 53. Enrico Serra morì il 2 febbraio 1945, a causa delle torture e dell’esaurimento fisico, nel campo di sterminio di Gusen. Nicola Serra fu trasferito da Mauthausen al campo satellitare di Redl-Zipf; sottoposto a lavori forzati e a condizioni di vita disumane, morì l’11 novembre 1944 per polmonite acuta.
Giorgio Caudano