Una certa tradizione anarchica e lo stesso Ferrua considerano ancora oggi Libereso una sorta di proto-obiettore di coscienza

Mentre l’interesse sembrava declinare, i casi aumentavano. Due mesi dopo un impiegato al comune di San Remo, Pietro Ferrua, studente marconista, si presentava all’addetto alla vestizione del Deposito C.E.M.M. di La Spezia e all’ordine di indossare la divisa di marò rispondeva di non essere intenzionato a prestare servizio militare <472. Era la prima volta che un’obiezione di coscienza veniva presentata alla marina. Soprattutto era la prima volta che un’obiezione di coscienza si ispirava a ideali rigorosamente anarchici.
[…] Dove il dibattito dottrinario ebbe uno sviluppo più animato, fu tra le vivaci federazioni anarchiche ricostituitesi in Liguria nel dopoguerra, nelle quali la forte presenza di una componente giovanile rendeva il problema della leva era particolarmente sentito. Tra queste una delle più vitali era il gruppo di Sanremo a cui Ferrua apparteneva. Nella sua biografia egli ricordò come nelle discussioni la questione militare avesse anzi avuto il sopravvento su tutte le altre nelle riflessione del suo gruppo <474: a partire dal 1946 volantini che sostenevano la neutralità perpetua e ripristinavano paradigmi diffusi a inizio secolo come l’abolizione della leva obbligatoria e dell’esercito o la contestazione dell’idea della caserma come scuola, avevano cominciato a riapparire sui muri della città. Un anno prima dell’obiezione di Pinna, San Remo aveva conosciuto l’opposizione al servizio militare di un altro anarchico, Libereso Guglielmi, conosciuto come il giardiniere della famiglia Calvino e immortalato dallo scrittore Italo nel racconto Un pomeriggio Adamo. Una certa tradizione anarchica e lo stesso Ferrua considerano ancora oggi Libereso una sorta di proto-obiettore di coscienza. Guglielmi venne in realtà imputato per renitenza alla leva nel giugno del 1948 per non essersi presentato al distretto né il giorno fissato dalla cartolina precetto, né nei cinque giorni successivi. I suoi sentimenti antimilitaristi erano noti, tuttavia sia nell’interrogatorio che nel dibattimento processuale, egli giustificò la sua mancata presentazione con la necessità di prendersi cura dei bisogni della famiglia e del padre malato <475. Anche a distanza di anni, in alcune interviste, lui stesso pur definendosi obiettore di coscienza motivò il suo rifiuto con le ristrettezza della madre, per cui aveva preferito essere un buon figlio e un cattivo soldato, dato che «la patria non sa nemmeno che esisto», mentre «mia madre (…) si è sacrificata per farmi arrivare a vent’anni» <476. Libereso, essendo già stato riconosciuto «meno atto per torace e peso», venne difatti assolto dal Tribunale e rimandato a casa. Il suo esempio tuttavia, anche per il carisma che egli aveva nella federazione sanremese, lasciò traccia.
La scelta di Ferrua attecchiva in un fermento antimilitarista preesistente sul quale si erano innestati gli echi del caso Pinna e le conseguenti riflessioni che coinvolsero il mondo anarchico. Il gesto dell’obiettore ferrarese faceva intravedere la possibilità di aggiornare la tradizionale renitenza alla leva e arrivare a una «valanga di casi Pinna» come aveva auspicato Giovanna Bernieri. Il rifiuto aperto ed esemplare poteva essere una possibilità di lotta alternativa all’esilio dei disertori, «considerato da alcuni un tradimento, nel senso che risolveva dei casi individuali ma non scalfiva (…) l’esercito militarista» <477 e che comunque aveva risvolti drammatici per gli esuli in terre straniere per le condizioni precarie, la durezza del lavoro, le illusioni deluse di chi era riparato all’est per finire in campi di concentramento. Già pochi giorni dopo il secondo processo Pinna, Ferrua cominciò a valutare insieme ai compagni la possibilità di un’obiezione di coscienza collettiva: « In data 12 Ottobre 1949 devo presentarmi alla visita di leva. Si tratta di decidere se è venuto il momento di rifiutare il servizio militare. Riunisco i compagni per sentire il loro parere. Si propende per posporre l’atto di disubbidienza considerando che farebbe molto più effetto se fosse collettivo e avrei qualche mese in più per prepararmi» <478. In realtà, anche se declinata in questa maniera l’obiezione di coscienza incontrava diverse resistenze nel mondo anarchico: Ferrua cercò, per esempio, di entrare in contatto con i giovani della rivista ciclostilata «Inquietudine» per mobilitare un’obiezione di coscienza collettiva più vasta, senza ricevere risposta <479. E quando giunse il momento formulare la sua obiezione di coscienza si ritrovò solo.
La scelta aveva una matrice profondamente diversa rispetto a quella capitiniana. Non c’erano né Gandhi, né Tolstoj, né il Vangelo alla base: « Sono idee che conoscevamo di seconda mano» testimoniò in seguito Ferrua. « Il nostro antimilitarismo, va ribadito, era pura ribellione, rifiuto totale senza concessioni. Non si pensava né in termini di servizio civile alternativo, né al servizio militare senza che portassimo armi. Non volevamo trasformarci in pompieri o infermieri o cappellani laici, ben sapendo che come tali avremmo creato soldati sostitutivi combattenti». La coscienza non era un’estranea <480, ma nella riflessione anarchica svolgeva un ruolo ancillare rispetto all’azione nella società civile. Ogni volta che venne chiamato a rispondere, Ferrua cercò sempre di marcare la differenza rispetto alle motivazioni esprese dagli obiettori fino ad allora: «No, sono qualcosa di più, sono antimilitarista e anarchico, comunque tale potete considerarmi» rispose al comandante durante il primo interrogatorio <481. Come nell’antimilitarismo del primo Novecento, i riferimenti ideali erano prevalentemente politici. Al processo Ferrua ribadì che al fondo della scelta vi era l’antidisciplina intesa come «insofferenza alla disciplina impostami dall’alto» e una visione dell’esercito non al servizio della patria, ma quale mezzo che il capitale aizzava contro il popolo per « lo scioglimento di dimostranti e l’obbligo di rivolgere le armi contro di essi» <482. Avrebbe pertanto potuto fornire un contributo solo in « abiti civili».
In secondo luogo mancava qualsiasi riferimento alla scelta nonviolenta. Anche negli ambienti anarchici che la prendevano in considerazione quale mezzo di lotta, l’obiezione di coscienza venne sempre intesa come aggiornamento della tradizionale azione antimilitarista, quando si andava «più per le spicce: anche se ci si presentava, poi si disertava» <483. In un articolo del 1953 elaborato da più mani (tra cui quelle degli obiettori Ferrua e Barbani) e uscito su «La Palestra dei Reprobi» con la firma «Un obiector» era affermata l’assenza di contrasto «tra l’ideologia non violenta e quella violenta dell’anarchismo». La prima puntava al «rifiuto a piegarsi allo Stato» e «lottava attivamente per una rivoluzione etica, con metodi distruttivi e costruttivi: scardinare mali e pregiudizi di ogni genere, equilibrare gli istinti e introdurre un costume nuovo». La seconda, invece, «combatteva lo Stato mediante l’espropriazione collettiva delle ricchezze sociali, gli scioperi, la gestione delle fabbriche, l’insurrezione, cioè abbattono con la forza le sovrastrutture sociali». «A noi non interessa, qui, di stabilire quale metodo sia il migliore», affermava il collettivo celato dietro lo pseudonimo, «ci importa soltanto dimostrare come entrambe siano forme di lotta che mirano e conducono allo stesso fine». L’obiezione andava vista esclusivamente quale «metodo di lotta contingente che non aveva la «pretesa che tutto si riduca lì» <484.
Il processo a Ferrua fu accompagnato dalla scenografia di gesti e pratiche della tradizione anarchica. Nelle sue memorie Ferrua ricorda le bandiere anarchiche che coloravano l’aula e le notizie dei comizi tenuti da Umberto Marzocchi e Pier Carlo Masini in varie città. Tra i testi oltre a figure ricorrenti come Calosso e Marcucci (la cui testimonianza da “consulente tecnico” non fu tuttavia ammessa, in quanto “estranea ai fatti”) <485 fu presente un simbolo dell’antimilitarismo anarchico come Ugo Fedeli che testimoniò l’affratellamento dei popoli alla base del principio. La composizione della tradizione anarchica con la nuova odc non era semplice e i giudici la misero in evidenza. A Calosso che attestava lo spirito di sacrificio e di umanità degli anarchici accanto ai quali aveva combattuto in Spagna nell’opposizione «all’uccisione diversi falangisti» <486, fu facile per il p.m. eccepire che «quegli anarchici non erano o.d.c.» <487. Gli avvocati difensori, Segre e De Filippo, subodorando la difficoltà dei giudici ad accettare un’obiezione politica, si mantennero dentro il percorso difensivo seguito con Pinna e Santi. Anche la corte mantenne un’ambiguità di fondo, soffermandosi contraddittoriamente sull’impossibilità di estendere a Ferrua la qualità di o.d.c., formula che tuttavia nessun codice prevedeva. A dimostrazione di ciò venne letta dal pm una lettera scritta da Ferrua alla famiglia e intercettata dalle autorità, in cui egli motivava il gesto oltre che con motivi di coscienza e ragioni umanitarie, con il timore di perdere il suo impiego <488.
La sentenza (condanna ad un anno) non presentava una severità particolare. Furono riconosciuti i benefici della condizionale e della non iscrizione. Come già accaduto a Pinna, Ferrua non venne scarcerato. In attesa di una nuova destinazione venne assegnato al corpo dei marinai di guardia di stanza al carcere di Sarzana, ma gli venne negata, arbitrariamente, la possibilità di uscire di caserma <489. La situazione era talmente anomala da spingere Ferrua a chiedere al generale di ricevere nuovamente la divisa, per opporre un nuovo rifiuto e poter almeno raggiungere i vecchi compagni di carcere <490. Il giovane venne rapidamente accontentato: la sera del 19 aprile venne condotto nuovamente al distretto Militare Marittimo di La Spezia e la mattina invitato a indossare la divisa. Il processo questa volta si svolse per direttissima <491. La difesa fu affidata ancora a De Filippi e a un avvocato anarchico Pedio, che sostituì Segre impossibilitato a partecipare. Il cambio aveva anche una motivazione ideologica. Pedio avrebbe infatti marcato con maggior vigore la differenza anarchica nel «considerare la guerra come un mezzo di oppressione a vantaggio di una classe contro i propri fratelli oppressi» rispetto ai casi «ispirati da motivi religiosi o umanitari» <492. Nello stesso tempo, quasi a segnare un distacco da qualsiasi confusione con un approccio nonviolento, sostenne che Ferrua avrebbe preso le armi se fosse stato necessario difendere le libertà e certe conquiste sociali.
La questione della differenza anarchica nei giorni precedenti aveva stimolato anche alcune riflessioni sulla stampa del movimento. Italo Garinei vi dedicò un intervento su «Era Nuova». Egli, aveva provocatoriamente convenuto con i giudici nel mancato riconoscimento dello statuto di obiettore, proponendo per gli anarchici una formula nuova di “oppositori di coscienza”. I principi anarchici misconosciuti dai giudici (il libero arbitrio, l’autodisciplina, il disconoscimento alla maggioranza di imporre il proprio volere alla minoranza), forgiavano infatti una morale diversa rispetto alla morale «dominante» che altro non era che la morale «delle classi dominanti». «Noi anarchici non possiamo avere “una loro morale”. E’ verissimo. Noi anarchici abbiamo infatti la “nostra morale” che è al di sopra di ogni morale sociale o filosofica o religiosa. Ed abbiamo anche la “nostra coscienza” (…) che è superiore di gran lunga ad ogni coscienza di benpensanti» <493. Dal punto di vista nonviolento, la questione della differenza venne toccata privatamente da Ceronetti che in una lettera a Capitini coglieva la novità della posizione di Ferrua, ma, senza misconoscerne il valore, trovava nell’obiezione anarchica una deminutio rispetto all’obiezione morale o religiosa: «Certo il caso di Ferrua è originale, ma meno interessante dei due precedenti. Un’obiezione di carattere meramente politico non vale un rifiuto di natura essenzialmente morale e religiosa: e contro lo Stato si deve andar con queste armi che sono le sole capaci di rimpiccinirlo fino a renderlo una pura parvenza della forza» <494.
La difesa di Pedio non pagò: Ferrua subì la pena più alta fino ad allora mai comminata, un anno e tre mesi da scontare, assieme alla precedente. La recrudescenza della condanna destò una certa preoccupazione tra i sostenitori dell’obiezione di coscienza: «Ferrua è stato duramente e ignobilmente trattato, forse perché accampava soltanto ragioni politiche, forse perché obiettore n.3. (…) Dovrà scontare 2 anni e 4 mesi. Troppi. Ci avviciniamo al livello delle condanne francesi» <495.
Il caso di Ferrua sollecitò una visibilità e una richiesta di presenza del mondo anarchico sull’obiezione di coscienza. Sei giorni dopo la seconda condanna, Umberto Marzocchi in piazza Castello a Torino, tenne un discorso sul tema “Gli anarchici e la guerra”, salutando, davanti al folto pubblico, i giovani obiettori di coscienza che «ci danno un chiaro esempio di volersi opporre praticamente a non farsi strumento di morte» <496. Non era tuttavia facile per un singolo obiettore fare breccia in un mondo che aveva impostato il proprio antimilitarismo secondo altri percorsi. Ferrua testimoniò di aver trovato tra le molte lettere di solidarietà di compagni, diverse lamentele sullo spazio limitato dedicato dalla stampa anarchica al processo, mentre la stampa borghese «si era alquanto divertita a ricamarci sopra» <497. In seno alla Fai andò costituendosi un gruppo di anarchici che vedeva nell’obiezione di coscienza un aggiornamento della tradizione dell’antimilitarismo anarchico, in cui si distinsero Ugo Fedeli, Italo Garinei, Alfonso Failla e Giuseppe Mariani, che aveva rinnegato il passato dinamitardo <498. Ma sostennero l’obiezione di coscienza, anche altri gruppi dissidenti, non aderenti alla Fai, come quello di Milano I, il gruppo Anarchismo di Napoli-Palermo, il Gruppo Albatros di Pistoia che un paio d’anni dopo avrebbe fondato la Cassa d’aiuto agli obiettori anarchici.
[NOTE]
472 F.B. Terzet, Un obiettore di coscienza condannato a La Spezia, «La Gazzetta», 4 aprile 1950.
474 P. Ferrua, L’obiezione di coscienza anarchica in Italia. I pionieri, Guasilia, cit., p.25.
475 Archivio di Stato di Torino, Tribunale Militare, 1945-1969, fasc. 4085.
476 L. Guglielmi-I. Pizzetti, Libereso, Il giardiniere di Calvino, Padova, F. Muzzio, 1993, p.83.
477 P. Ferrua, L’obiezione di coscienza anarchica in Italia. I pionieri p.31.
478 Ibidem. 479 P. Ferrua, L’obiezione di coscienza anarchica in Italia. I pionieri, cit., p.66. Ferrua imputava la mancata risposta alla coincidenza che nessuno di quei giovani apparteneva al suo scaglione di leva. Nessuno, comunque, lo seguì nella scelta.
480 «La vampa delle armi produce la cecità delle coscienze» recitava un volantino dell’epoca. (P. Ferrua, L’obiezione di coscienza anarchica in Italia. I pionieri, cit., p.30.
481 Ivi. p. 68.
482 Sicor (Bruno Segre) Anche la Marina Italiana ha avuto il suo obiettore di coscienza, «Milano Sera», 10-11 aprile 1950. Bruno Segre ricordava anche che Ferrua aveva eretto a motto della sua crociata una frase di Tolstoj: «Il militarismo è la scuola ufficiale della violenza». Tuttavia questa può essere una testimonianza della diffusione del pensiero di Tolstoj oltre il tolstojanesimo che l’anarchismo aveva recepito solo negli aspetti funzionali.
483 G. Mariani, I due processi contro l’anarchico Pietro Ferrua, «Era Nuova», 15 maggio 1950.
484 «La Palestra dei Reprobi», marzo 1953 in P. Ferrua I Pionieri, cit., pp.101-103 Va tenuto presente che l’articolo si inserisce in un momento particolarmente acceso del dibattito sull’obiezione di coscienza all’interno del movimento anarchico, al cui interno crescevano le voci di chi non riteneva compatibile l’antimilitarismo anarchico con l’obiezione di coscienza. Il testo rimane tuttavia una testimonianza significativa di una lettura dell’obiezione di coscienza, ben diversa da quella capitiniana.
485 E. Marcucci, Sotto il segno della pace, cit. p.135. «La mancata escussione di Marcucci è strana. Che cosa temevano? Tanto sospetto per un tolstojano non è però senza significato» commentava Ceronetti (Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino, 18/4/1950 in AS, FC, b.686).
486 F.B. Terzet, Un obiettore di coscienza condannato a La Spezia, «La Gazzetta», 4 aprile 1950.
487 Processato l’obiettore Ferrua, «L’Incontro», n.4, aprile 1950.
488 A dimostrazione di ciò venne letta dal pm una lettera scritta da Ferrua alla famiglia e intercettata dalle autorità, in cui egli motivava il gesto oltre che con motivi di coscienza e ragioni umanitarie, con il timore di perdere il suo impiego (Ivi). Ferrua spiegò l’episodio come un «tranello tesomi dal Comandante. (…) Ufficialmente durante la fase istruttoria, mi si era permesso di scrivere. (…) La condizione era di non tessere l’apologia del mio reato, di mostrare un certo pentimento per il dolore causato agli esseri amati e via di seguito. Gran vigliaccheria da parte loro sapendo che le lettere non sarebbero mai state consegnate ai destinatari e i diari sarebbero stati “censurati” o “confiscati”. Maggior ignominia quella di servirsi di argomenti da loro “suggeriti” per poi “rinfacciarmeli” in tribunale per mettere in dubbio la mia sincerità e la purezza dei miei ideali. Non solo la Pubblica accusa si servì di me di questa lettera (…) ma la utilizzò la stampa (e, non solo di destra) per sottolineare certe presunte incoerenze» (P. Ferrua, I pionieri, cit., p. 75).
489 Soltanto su interessamento della compagna dell’anarchico Giuseppe Mariani, Susanna Sannier, che era andata a discutere col generale, Ferrua poté avere a disposizione quattro ore libere di una giornata domenicale per recarsi nella casa di una famiglia di compagni sarzanesi, controllato da due agenti in borghese (P. Ferrua, I pionieri, cit., p. 75 Cfr. anche G. Mariani, I due processi contro l’anarchico Pietro Ferrua, «Era Nuova», 15 maggio 1950).
490 Ibidem.
491 «L’Incontro», n.5, maggio 1950.
492 «Era Nuova», VII, 15 maggio 1950 in A. Martellini, cit.
493 Gli anarchici non sono obiettori di coscienza, «Era Nuova» in P.Ferrua, I pionieri, p.93.
494 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini, Torino, 18/4/1950 in AS, FC, b.686.
495 Lettera di Guido Ceronetti ad Aldo Capitini Capitini, Torino, 29/4/1950 Ivi.
496 «Era Nuova», VIII 15 maggio1950.
497 G. Mariani, I due processi contro l’anarchico Pietro Ferrua, «Era Nuova», 15 maggio1950. 498 Cfr. G. Mariani, Memorie di un ex-terrorista, Genova, Ventotene, L’ultima spiaggia, 2009.
Marco Labbate, E se la patria chiama… Storia dell’obiezione di coscienza al servizio militare nell’Italia repubblicana (1945-1972), Tesi di dottorato, Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”, Anno accademico 2014-2015

Le informazioni di Santi tuttavia non erano corrette, bensì trasformate e ingigantite probabilmente dal passaparola all’interno del carcere.
Pietro Ferrua (Sanremo, 1930) obiettò due mesi dopo Santi, il 3 aprile 1950. Non era comunista ma anarchico. Nato e residente a Sanremo dove lavorava come impiegato, il giovane era stato chiamato al servizio militare, nella marina, a La Spezia: si era presentato puntuale alla chiamata, ma si era subito rifiutato di indossare la divisa. Aveva inizialmente anche tentato di coinvolgere nel suo gesto altre giovani reclute, ma il suo gesto non aveva trovato seguito tra gli altri chiamati alla leva <77. Lo stesso Ferrua registrò l’episodio in alcune pagine del diario che scriveva in quei giorni <78 e che in seguito riprese nel suo libro sull’obiezione di coscienza anarchica in Italia. Ecco come riferisce Ferrua ad anni di distanza:
“Ad un tratto mi sento chiamare e mi mettono secondo in una fila di dieci reclute. Si tratta di prendere la misura delle scarpe e quindi bisogna togliersi la scarpa destra. Eccomi di fronte alla pedana.
– Non togli la scarpa, tu? – mi dice il marinaio di servizio.
– Per me non c’è bisogno – rispondo io.
– E perché? – dice lui.
– Perché rifiuto la divisa – rincalzo io.
Mi si prende per scherzo, i due marinai addetti a noi ridono, le reclute allungano le orecchie perché non capiscono quanto stia avvenendo.
– Avvisate i vostri superiori! – dico.
Dopo qualche istante mi si introduce alla presenza di sei ufficiali e sottufficiali i quali pensano trattasi di un anticipato pesce d’aprile. Ripeto il mio rifiuto. Viene chiamato il comandante della reclute, tenente di vascello Callegari e nel frattempo mi si rivolgono le domande del caso:
– Sei obiettore di coscienza?
– No, son qualcosa di più, sono antimilitarista e anarchico, comunque tale potete considerarmi.
– Ma lo sai a cosa vai incontro? Processo, condanna, iscrizione al casellario giudiziario e poi tocca ugualmente fare il militare.
– Le so già queste cose, però il militare non lo farò!
– Te lo faranno fare per forza.
– Rifiuterò sempre.
– Allora vuoi proprio passare tutta la vita in galera?
Son pronto a tutto”. <79
Ferrua dunque si dichiara “anarchico” e non “obiettore di coscienza”. Non fu l’unico obiettore a presentare una giustificazione politica al suo rifiuto. Una giustificazione che, tra l’altro, come vedremo, gli costerà cara durante il processo.
Dopo l’episodio della divisa, i militari portarono il giovane in cella di rigore dove sarebbe rimasto alcuni giorni. A questo punto iniziarono le visite di diversi ufficiali e sottufficiali che tentarono di convincerlo a tornare sui propri passi alternando consigli e ordini, non manca nemmeno un ufficiale (il secondo Comandante di Deposito) che arriva a dichiararsi egli stesso “anarchico” nel tentativo di farsi amico l’obiettore e persuaderlo a non perseverare nel rifiuto <80.
Passati i giorni di cella di rigore, Ferrua viene denunciato alla Procura militare della Repubblica (15 marzo 1950). Nella denuncia si può leggere la trascrizione del verbale della dichiarazione di Ferrua del rifiuto (Ferrua la firma e in seguito, nel suo libro sull’obiezione di coscienza dove riporta copia del documento, confermerà che rispecchiava fedelmente quanto aveva detto)
[…] Ferrua, dunque, si dichiara contrario anche a prestare un servizio militare senza armi perché servire l’esercito in qualsiasi modo significava collaborare con la violenza. È esattamente quello che diceva Santi: “Chi aiuta a far del male è per me responsabile come chi lo fa”. Non sappiamo se Ferrua sarebbe stato disposto a prestare un servizio civile al posto di quello militare, sappiamo però che nel 1953 collaborò ai campi del Servizio Civile Internazionale, lasciando quindi aperta una possibilità in questa direzione.
[…] L’aver reso il processo per disobbedienza un processo politico non giocò a favore di Ferrua che questa volta fu condannato a una pena più severa e senza condizionale: un anno e tre mesi di reclusione che l’obiettore dovette scontare per intero al carcere militare di Gaeta. Dopo la scarcerazione, Ferrua si rese latitante e fu “ricercato per diserzione”; per evitare un nuovo arresto, visse alcuni anni “clandestino”, ospite della Federazione Anarchica di Livorno, finché nel 1954 riuscì a passare il confine con la Svizzera <86. In questo paese Ferrua si fermerà per alcuni anni, anche grazie all’aiuto di Aldo Capitini, che lo mette in contatto con un amico svizzero, un certo Pierre Vieusseux (così è citato nelle lettere, ma forse si tratta di uno pseudonimo), che lo aiuta a ottenere un “Permesso di tolleranza” valido (dal 1° settembre 1955) per il territorio cantonale. Dalla corrispondenza con Capitini di questo periodo, si viene a sapere come Ferrua, che nel frattempo portava avanti degli studi universitari mantenendosi col lavoro di cameriere al “ristorante universitario”, continuasse a impegnarsi nella causa della pace, organizzando incontri e conferenze <87. Ferrua, in seguito, sarebbe stato espulso dalla Svizzera (1963) per la sua attività di studio e sostegno di gruppi anarchici e si trasferì prima in Francia e poi in Brasile. Dopo un arresto (per gli stessi motivi) in Brasile (1969) scappò negli Stati Uniti (Oregon) dove divenne docente universitario, studioso delle avanguardie artistiche e letterarie messicane; fu in cattedra fino al 1987, quando andò in pensione <88. Nel frattempo, solo nel 1978 ricevette il suo congedo militare <89.
[NOTE]
77 È lo stesso Ferrua a raccontarlo nel suo libro, L’obiezione di coscienza anarchica in Italia cit.
78 Si tenga presente che il diario tenuto durante le fasi del rifiuto era stato scritto con la consapevolezza che sarebbe stato sequestrato e controllato dalla censura, quindi potrebbe essere condizionato almeno in parte da una autocensura preventiva.
79 Ferrua, L’obiezione di coscienza anarchica in Italia cit., pp. 67-68.
80 Ivi, pp. 69-70.
86 Martellini e altri sbagliano, lo collocano in Svezia, ma dalle lettere che scambia con Capitini si capisce che è in Svizzera e che non è mai stato in Svezia, almeno fino al 1956 (data dell’ultima lettera ricevuta da Capitini).
87 Le lettere scambiate tra Capitini e Ferrua non sono molte e tutte comprese tra il 1953 e il marzo 1956. Archivio di Stato di Perugia, Fondo Capitini, Corrispondenze, Ferrua Pietro, b. 877.
88 Le notizie biografiche di Ferrua si possono trovare in diversi siti anarchici come http://digilander.libero.it/biblioego/ferrua.htm o siti sulle avanguardie messicane: http://www.avantgardepublishers.com/about_ferrua.html (ultima visione 16.04.2014)
89 Ferrua, L’obiezione di coscienza anarchica in Italia, p. 123.
Elena Iorio, Il riconoscimento tardivo. Idee, pratiche e immagini dell’obiezione di coscienza al servizio militare in Italia con una comparazione con la Repubblica Federale Tedesca (1945-1972), Tesi di dottorato, European University Institute, Florence, 2014