25 novembre 1943: arresto dei sette fratelli Cervi

“(…) Ma nell’aria sentivano già la sciagura. Da casa i prigionieri partivano a gruppi. C’erano rimasti due russi, un inglese, un sudafricano, un australiano, Castellucci e Quarto Camurri. Ormai i fascisti erano imbestialiti e volevano saldare il conto con noi che non avevamo mai ceduto di un dito. Tutti lo sapevano e capivano che al fascismo si poteva pure tener testa. La guerra gli andava male, e allora almeno vincerla sui Cervi. Così si arriva al fatale 25 novembre [1943].
Era notte, pioveva a dirotto, e noi dormivamo tutti. A un certo punto ci svegliano i lamenti del bestiame e colpi di fuoco.
Che è? – dico io, e scendo dal letto.
Nel corridoio c’è Aldo, e gli altri aprono le porte, ci mettiamo a guardare dalle finestre. Sparano dai campi intorno alla casa, altro non vediamo. Poi viene una voce forte dalla campagna:
Cervi, arrendetevi!
Non diciamo parola e prendiamo subito le armi. Le donne trascinano nelle stanze le cassette delle munizioni. Genoeffa stava vicino alla porta della camera da letto, muta. La vedo come se fosse adesso, pallida e con gli occhi accesi. Poi si scuote e si mette a calmare i bambini. Intanto noi abbiamo infilato le pistole tra gli scuri. Aldo ha un mitra e apre il fuoco. Anche gli stranieri sparano con noi. Ci rispondono altri colpi e il fuoco dura qualche minuto.
Poi noi cominciamo a scarseggiare nei tiri finché ci guardiamo tutti e ci parliamo nelle stanze, le munizioni sono finite. Aldo guarda dalla finestra verso il fienile, vede un bagliore, e dice:
brucia, non c’è più niente da fare.
Io dico: – non mi arrendo a quei cani, andiamo giù tutti quanti e meglio morti che vivi.
Aldo mi ferma e dice: – no papà, che ci sono le donne e i bambini. Meglio arrendersi.
Così scendiamo le scale, piano per l’ultima volta. Le donne si aggrappano alle spalle degli uomini, qualcuno piange. Agostino prende in braccio il suo bambino e lo bacia. Nell’ingresso, prima
di uscire nell’aia, Aldo ci riunisce e dice:
Sentitemi bene. Quando ci interrogheranno, solo io e Gelindo ci prenderemo la responsabilità. Gli altri non sanno niente, è chiaro?
Poi apriamo la porta e usciamo nell’aia, io corro verso la stalla, ma un fascista mi acchiappa e gli urlo: – vigliacchi, almeno le bestie lasciate scampare.
Entrarono nell’aia due autocarri, poi ho saputo che erano venuti in 50 uomini per prenderci. La casa bruciava, e ora si vedevano i fascisti armati fino ai denti. Ci prendono villanamente, ma noi diciamo che saliamo da soli sul furgone. E poi, gli ultimi addii. I figli abbracciano le spose e dicono: – state tranquille, tutto si metterà bene, vedrete, non è la prima volta che ci arrestano.
Irnes, che ha in braccio il bambino più piccolo, bacia Agostino, e lui le dice: – quando torno deve saper camminare, eh?
Antenore bacia i suoi tre figli e si raccomanda: – Non lasciate mai sola la mamma, e non fate arrabbiare la nonna. Papà torna presto.
Gelindo abbraccia i suoi due bambini più volte. Lui sapeva già che non sarebbe tornato, come forse lo sapeva Aldo, che però salutò i suoi calmo e tranquillo.
Poi a Genoeffa tutti i figli le stavano intorno, e la baciano chi sul viso, chi sui capelli, chi le bacia le mani, e dicono: – arrivederci mamma, vedrete che torneremo presto, state tranquilla.
La madre li abbracciava tutti come poteva, e se li stringeva al petto, e li carezzava sul capo, e piangeva e diceva: – meglio morire, meglio morire.
Ma i fascisti non dànno tregua, ci spingono sul furgone, e quando prendono me, Genoeffa dice: – anche tu?
Anch’io, certo – gli rispondo forte mentre mi allontanano.
Così sai che ci sto io coi figli tuoi.
Genoeffa scoppia in singhiozzi, ché pensava mi risparmiassero. Prima che chiudano gli sportelli del furgone, gridiamo ancora: – state tranquille, torneremo presto.
Ma i loro visi si vedono e non si vedono, secondo i lampi delle fiamme. Ci portano via, mentre le donne e i bambini restano soli nella casa che brucia.
Continua a piovere, così forse l’incendio finirà presto. Ma poi ho risaputo che sì, l’incendio è finito presto, ma che i fascisti appena andati via noi, si sono messi a rubare e a saccheggiare tutto, mobili, macchine, copertoni, e poi bruciarono i libri, li strapparono e se li misero sotto i piedi. Meglio l’incendio, allora, ché almeno ci sarebbero rimaste le tracce.
Ma a un certo punto il furgone non va più avanti, per via del fango. I fascisti bestemmiano e attaccano due buoi, non so a chi l’hanno presi. Poi si arriva al bivio. Fanno scendere gli stranieri e li mettono su un’altra macchina per portarli a Parma.
Camurri resta con noi, mentre Castellucci si mette a parlare francese e dice che lui è un soldato di De Gaulle, e i fascisti ci credono, così lo mettono insieme agli stranieri.
Non so quale sorte sia poi toccata ai prigionieri, ma fino ad oggi non ho ricevuto mai lettere, solo l’inglese per ringraziamento ci ha mandato un pacco di caramelle.”

Alcide Cervi, “I miei Sette Figli, (a cura di) Renato Nicolai, Einaudi, 2013

La casa colonica dove abitava la famiglia Cervi in una foto d’epoca (fonte: fratellicervi.it), qui ripresa da Maria Vittoria Giacomini, op. cit. infra

Nel 1934 i Cervi si erano trasferiti ai Campi Rossi (Gattatico), dove presero in affitto un podere di 16 ettari.
All’indomani dell’8 settembre 1943, la casa colonica si trasformò presto in una «stazione di smistamento» di ex-prigionieri alleati che intendevano superare la linea del fronte: «così se prima la casa sembrava una caserma, adesso somigliava alla Società della Nazioni», scriverà poi Alcide Cervi nella sua autobiografia (p. 76). Vennero raccolte armi e munizioni (che ogni prigioniero di passaggio lasciava) e preparati viveri da destinare ai primi gruppi partigiani della montagna, tramite la Banda Cervi che dal 10 ottobre era operativa sull’Appennino. «Intanto casa diventava una fabbrica di alimentari. Gelindo e Antenore macellavano spesso e mettevano la carne in salamoia, per tenerla conservata e pronta, per i prigionieri che ripartivano. Ferdinando aveva messo sotto pressione le api e cavava chili di miele. Le donne facevano il pane anche tre volte al giorno, e gli stranieri si dividevano in due commissioni. […] Una impastava e cuoceva. Un’altra faceva il burro». (p. 84) All’alba del 25 novembre Casa Cervi fu circondata da un plotone di militi della GNR, agli ordini del capitano Pilati. L’operazione, la prima della GNR di Reggio Emilia (che si era
costituita il 20 novembre), si concluse con l’incendio del fabbricato e l’arresto degli uomini Cervi e degli ex-prigionieri presenti nella casa.
Chiara Cecchetti, Casa Cervi in Comando Militare Nord Emilia. Dizionario della Resistenza nell’Emilia Occidentale, Progetto e coordinamento scientifico: Fabrizio Achilli, Marco Minardi, Massimo Storchi, Progetto di ricerca curato dagli Istituti storici della Resistenza di Parma, Piacenza e Reggio Emilia in Rete e realizzato grazie al contributo disposto dalla legge regionale n. 3/2016 “Memoria del Novecento. Promozione e sostegno alle attività di valorizzazione della storia del Novecento”

Il 25 novembre i fascisti fecero irruzione nella grande masseria di Praticello, tra Campegine e Gattatico, vicino a Reggio Emilia, dove viveva la famiglia Cervi. Erano, i Cervi, dei fittavoli che si erano insediati nel podere dal 1934: il padre, Alcide, la madre Genoveffa Cocconi, sette figli, il maggiore di 42, il più giovane di 22 anni. Nel loro cascinale i Cervi avevano dato ospitalità dopo l’8 settembre a prigionieri e sbandati – e di questo venivano sospettati dalle autorità fasciste – ma avevano anche organizzato azioni di squadre per disarmare i presidi fascisti. Il rastrellamento del 25 novembre mirava proprio a snidare i prigionieri rifugiati a Praticello (vi furono infatti catturati un russo, due sudafricani, un francese gollista, un irlandese, e un «rinnegato» italiano). I maschi della famiglia Cervi furono tutti trasferiti nelle carceri di San Tommaso, a Reggio Emilia. Due giorni dopo Natale a Bagnolo in Piano, nelle campagne di Reggio, venne ucciso da un commando il segretario fascista Vincenzo Onfiani, e questo segnò la condanna a morte, per rappresaglia, dei sette fratelli «rei confessi di violenze e aggressioni di carattere comune e politico, di connivenza e favoreggiamento con elementi antinazionali e comunisti». Il padre non seppe della feroce strage fino a quando uscì di prigione.
Indro MontanelliMario Cervi, Storia d’Italia. L’Italia della guerra civile. Dall’8 settembre 1943 al 9 maggio 1946, Rizzoli, 1983

La casa colonica dove abitava la famiglia Cervi in una foto d’epoca (fonte: fratellicervi.it), qui ripresa da Maria Vittoria Giacomini, op. cit. infra

Tutta la famiglia fu coinvolta nell’opposizione al regime. Uno dei più attivi insieme ad Aldo fu Gelindo <28, il primogenito della famiglia.
Dopo l’8 settembre 1943, le truppe naziste occupano militarmente il suolo italiano. I Cervi, abituati all’azione e ad anticipare i tempi, sapevano che bisognava combattere per la libertà dall’occupazione tedesca, e ancora una volta dal fascismo.
Iniziarono la lotta armata a partire da questa casa, che diventò un centro di smistamento per rifugiati e rifornimenti ai partigiani. La Resistenza dei Cervi fu intensa ma molto breve: dopo le prime azioni in pianura, i sette fratelli e alcuni compagni cercarono di organizzarsi nella montagna, ma in poco tempo furono costretti a ritornare a casa, sui propri passi.
Nell’ottobre del 1943 infatti i Cervi diedero vita alla prima formazione partigiana della regione, anticipando un movimento che, nei mesi successivi, riuscì a radicarsi in modo non paragonabile a nessun’altra realtà regionale. Nel corso del mese di settembre misero a frutto i tanti rapporti stabiliti nel corso della lotta antifascista, e contribuirono a realizzare l’ossatura del movimento partigiano nella zona a ovest della bassa reggiana (Campegine, Gattatico, Sant’Ilario, Poviglio, Castelnovo Sotto).
In ottobre erano in montagna per costituire una formazione armata. Le loro azioni generarono difficoltà nel rapporto con alcuni dirigenti del Partito Comunista reggiano, che non condividevano le modalità di azione della banda Cervi. Questa situazione spinse i Cervi a prendere contatti anche con la federazione comunista di Parma, ma si tradusse in una situazione di parziale isolamento dal resto del movimento locale. Fu inoltre difficile mobilitare altre persone, come dimostrava l’impossibilità di trovare ospitalità presso altre case per occultare i componenti della formazione: fu questa la ragione per cui furono tutti sorpresi in casa Cervi dai fascisti il 25 novembre 1943. I militi fascisti, dopo uno scontro a fuoco, appiccarono un incendio al fienile e alla stalla. A questo punto la famiglia si arrese e i Cervi furono trascinati via dai fascisti, lasciando nella casa che ancora bruciava solo donne e bambini.
I sette fratelli Cervi rimasero in carcere a Reggio sino al 28 dicembre, quando i fascisti decisero la loro fucilazione come rappresaglia ad un attentato dei partigiani.
L’estremo sacrificio dei sette fratelli Cervi e del loro compagno Quarto Camurri, consumato all’alba del 28 dicembre 1943 al poligono di Reggio Emilia, rappresentò uno spartiacque per la Resistenza reggiana: in breve tempo il movimento partigiano si riorganizzò, facendo di quel martirio un simbolo per gli altri resistenti.
Casa Cervi fu dai primi anni del dopoguerra meta di pellegrinaggi della memoria: semplici cittadini, delegazioni politiche e istituzionali, fino all’omaggio del Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, che incontrò personalmente Alcide Cervi. Nel 1956 uscì il volume dal titolo “I miei sette figli”, il libro di memorie che consegnò al grande pubblico questa vicenda familiare. Da quel momento, la storia dei sette fratelli fucilati dai repubblichini agli albori della Resistenza iniziò ad essere diffusa. Negli anni Sessanta, con l’ampliamento dello stabile e la creazione di un’apposita saletta, la casa colonica iniziò a trasformarsi anche fisicamente in un luogo di conservazione e valorizzazione della storia del Novecento, e in particolare del ruolo dei contadini nella rinascita del paese alla metà del secolo. L’Istituto intitolato alla memoria di Alcide e dei suoi figli nacque da questo nucleo di archivi e di studi. Alla morte dell’anziano padre, nel 1970, la Casa contadina iniziò la sua evoluzione da luogo simbolico ad ente culturale.
Solo nel 1975, con l’acquisto dell’immobile e del fondo da parte della Provincia di Reggio Emilia, è stato possibile iniziare un lavoro di consolidamento della struttura, conclusosi nel 2001 grazie ad un finanziamento del Ministero per i Beni Culturali. Con la riqualificazione del museo Cervi, su progetto dell’architetto Giovanni Leoni <29, è stato riallestito l’intero percorso di visita secondo un itinerario che parte dalla esperienza di vita, di lavoro, di lotta della famiglia Cervi, restituisce una testimonianza del complesso tessuto culturale, politico e sociale che caratterizza le campagne emiliane nella prima metà del XX secolo. Il nuovo percorso di visita si sviluppa focalizzando nella storia dei Cervi, e nella storia dell’Emilia del Novecento, alcune fasi fondamentali: il lavoro nelle campagne, l’antifascismo e la Resistenza, la costruzione della memoria dei Cervi nel dopoguerra. A conclusione dell’esposizione storica è possibile visitare le stanze in cui viveva la famiglia Cervi. Al percorso storico si intreccia un percorso narrativo, che utilizza sia le parole lasciate da tanti protagonisti, sia alcune testimonianze video. Oltre agli oggetti e ai documenti disponibili, legati alle attività lavorative della famiglia, pochi cimeli relativi alla lotta antifascista e partigiana, numerosi per il periodo successivo alla Liberazione, nel percorso sono possibili approfondimenti grazie a leggii tematici, carte geografiche, elaborazioni grafiche, rassegne di fonti fotografiche, filmate e documentarie <30.
[NOTE]
28 Già “ammonito” dalle autorità nel 1939 per la sua attività sediziosa, e successivamente incarcerato, Gelindo finì in carcere anche nel 1942, insieme al fratello Ferdinando, proprio per aver ostacolato l’ammasso della produzione agricola.
29 L’architetto Giovanni Leoni è anche il progettista del restauro del Museo della Repubblica Partigiana di Montefiorino (Provincia di Modena), ubicato nella rocca medioevale. Giovanni Leoni ha insegnato al Politecnico di Bari dal 1993 al 2005. Dal 2002 è professore ordinario di Storia dell’Architettura “Aldo Rossi” dell’Università di Bologna. Nell’ultimo decennio si è occupato di storia contemporanea.
30 Paola Varesi, Claudio Silingardi, Paolo Burani, Il Museo Cervi tra storia e memoria: guida al percorso museale, Tecnograf, Reggio Emilia 2002.
Maria Vittoria Giacomini, Memorie fragili da conservare: testimonianze dell’Olocausto e della Resistenza in Italia, Tesi di dottorato, Politecnico di Torino, 2012