Varzi (PV) e la Zona libera

Varzi (PV) – Fonte: Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza

Il primo risultato della ripresa partigiana, dopo il rastrellamento dell’agosto 1944 è l’occupazione di Varzi. Il 19 settembre 1944 iniziano furiosi combattimenti tra fascisti e i partigiani che intendono impadronirsi della cittadina della Val Staffora. La sera del 19 il presidio repubblichino (alpini della divisione “Monterosa”) rinchiuso nei locali delle scuole si arrende. Ma gli scontri proseguono per altri tre giorni. I fascisti sparano dalle case cercando di sorprendere alle spalle i partigiani, i quali rispondono al fuoco e riescono a neutralizzare i cecchini.
Solo nella giornata del 24 settembre Varzi può dirsi libera.
Un ruolo decisivo è giocato dal “Reparto Cecoslovacco”. Sono una trentina di disertori della Wermacht, il Reparto Cecoslovacco, passati con i garibaldini.
Il bilancio finale della battaglia parla di una ventina di feriti tra i partigiani.
I morti tra i garibaldini sono tre: Angelo Salvaneschi, Lorenzo Togni, Arturo Albertazzi.

Varzi (PV); lapide alla memoria di Lauretta Romagnesi – Fonte: Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza

A perdere la vita sono anche due civili: Giovanni Corvetta e Laura Romagnesi.
Con Varzi libera, inizia l’esperienza della Repubblica partigiana, che si concluderà il 27 novembre 1944 sotto l’incalzare del feroce rastrellamento invernale del 1944-1945, che sconvolgerà l’intero Oltrepo. ANPI Voghera

Varzi (PV) – Fonte: Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza

Con Roma, anche Varzi. La cittadina adagiata sulle colline dell’Oltrepò, a quaranta chilometri a sud di Pavia è stata insignita di Medaglia d’Oro al Valor Militare il 25 settembre 2018 con questa motivazione: “Comune adagiato sulle colline dell’Oltrepò, snodo essenziale per le armate naziste, fu protagonista di un’ininterrotta e intrepida attività partigiana durante tutto l’arco della Resistenza. Varzi subì prima l’oltraggio delle atrocità delle bande fasciste e poi, dalla fine di novembre del 1944, l’ingiuria dei nazisti e dei loro scherani, colpevoli di inenarrabili violenze. La fiera popolazione, pur provata dalla perdita di tanti suoi figli, diede ripetutamente prova di fulgido eroismo: per due volte, nel luglio e nel settembre 1944, sconfisse il nemico nazifascista in altrettante epiche battaglie, e nella seconda concesse al vinto una capitolazione onorevole e dignitosa, consentendo alla grande maggioranza degli alpini del battaglione “Monterosa” di entrare nelle formazioni partigiane. Soggetto della breve ma ricchissima esperienza della repubblica partigiana di Varzi, assieme alle analoghe repubbliche che fiorirono in quel tempo pur di ferro e di fuoco, anticipò così il futuro democratico del Paese. Varzi incarna il valore della Resistenza come straordinaria lotta militare e civile di un popolo unito contro il nazifascismo e per la libertà della Patria, Varzi (Pavia), 8 settembre 1943 – 19 settembre 1944”. Ne dà comunicazione il sito della Presidenza della Repubblica (https://www.quirinale.it/onorificenze/insigniti/353030).
La vicenda di Varzi, che è un continuum di attività partigiana per tutta la Resistenza, è incentrata su due battaglie, la prima a luglio e la seconda a settembre. Nel corso della prima la banda di Fiorentini, il capo di una delle tante famigerate polizie speciali, la Sicherheits Abteilung viene sconfitta fra il 24 e il 25 luglio dai partigiani e dai contadini in armi. Fra i caduti, “il monello”, 15 anni, Aldo Casotti.
La seconda battaglia di settembre vede la presenza del battaglione Monterosa degli alpini. I partigiani entrano a Varzi il 17 settembre. Vinta la battaglia, il 19 settembre una ragazza di 21 anni, Lauretta Romagnesi, si reca con la bandiera bianca dal nemico per chiedere la resa, ma viene freddata da una raffica. Il 21 settembre il comandante partigiano Domenico Mezzadra, “Americano”, e il commissario politico “Piero Medici” (Gianni Landini), – l’altro protagonista fu Angelo Ansaldi, la Primula Rossa – lanciano un appello agli ufficiali e ai soldati nemici. La maggioranza degli alpini passa con i partigiani.
Patria Indipendente, 22 ottobre 2018

Tra il rastrellamento dell’agosto 1944 e quello, terribile, dei “mongoli” della divisione Turkestan, iniziato a novembre e che fino al febbraio dell’anno successivo seminò terrore e violenze in tutto l’Oltrepo collinare e montano, Varzi visse un’effimera, ma straordinaria esperienza di rinascita democratica che anticipò la Liberazione. Settantacinque anni fa, dunque, il capoluogo dell’alta valle Staffora, strappato agli alpini della divisione Monterosa (una delle grandi unità dell’esercito della Rsi, addestrato in Germania dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943) dai partigiani garibaldini, guidati da uomini come Domenico Mezzadra «Americano» e Angelo Ansaldi «Primula Rossa», fu epicentro di una “zona libera”, nel cuore del Nord Italia occupato, che si estendeva ai paesi vicini, fino al Brallo, Romagnese e Zavattarello. Un vasto territorio, che per due mesi venne “depurato” della presenza nazifascista, rintanata nelle sue basi in pianura, dalle quali si mosse solo quando la pausa dei combattimenti sulla linea Gotica consentì alla Wehrmacht di disimpegnare i reparti e gli armamenti da impiegare nella lotta ai “ribelli”, nel durissimo ultimo anno di guerra.
L’iniziativa del capitano Terrabrami, che lascia Varzi per rispondere alla richiesta di soccorso del presidio “nero” di Ponte Nizza, è la scintilla che fa scattare l’attacco partigiano, al quale partecipa anche un gruppo di soldati cecoslovacchi, arruolati a forza dai tedeschi dopo l’occupazione del 1938 e che hanno da poco disertato, unendosi alla Resistenza: i precisi colpi sulla torre Malaspina della loro mitragliatrice da 20 millimetri mette a dura prova gli alpini della Monterosa. Il 22 settembre, Terrabrami si arrende e la maggior parte dei 150 uomini passa con i partigiani, mentre gli altri – una ventina – vengono scortati fino a Mulino del Conte, dove incontrano «i primi reparti della brigata nera», scrive il professor Giulio Guderzo ne “L’altra guerra”: i rinforzi, ormai tardivi, chiesti dal capitano fascista.
Presa Varzi, viene organizzata la gestione della zona libera: al Cln locale (presieduto dal comunista Guido Versari, e di cui entrano a fare parte i socialisti Giovanni Bergamini e Luigi Rebaschio, il repubblicano Costantino Piazzardi, il democristiano Lino Tarditi, il liberale Emilio Piana), si affianca la giunta di governo, con sindaco l’avvocato Fortunato Repetti. «Con l’aiuto del nuovo segretario comunale, Bruno Barani, un vecchio repubblicano di Massa Carrara – spiega lo storico Pierangelo Lombardi – si riesce ad amministrare alla meglio, indirizzando in particolare la sua attenzione al settore scolastico, a quello edilizio e urbanistico, con una prima provvisoria sistemazione di case e strade, all’ordine pubblico, con l’istituzione della guardia civica». Si combatte la borsa nera, attraverso il controllo annonario dei prezzi, mentre un accordo con la Cassa di risparmio permette di continuare a rifondere i contadini per i prelievi di grano e paglia.
Il 29 novembre 1944, sotto l’incalzare della Turkestan (con l’operazione Heygendorff), i partigiani abbandonano Varzi, senza neppure tentare una opposizione, che «in quelle condizioni sarebbe stata impossibile». Resta il valore, non solo simbolico, di una pagina unica nella storia del movimento di Liberazione in provincia di Pavia, valsa a Varzi la medaglia d’oro al valor militare, e rievocata anche da Cecilia Demuru nel libro «La libertà non è un dono».
Roberto Lodigiani, “Repubblica” di Varzi. La vittoria partigiana del settembre 1944 anticipò la Liberazione, la Provincia Pavese, 21 settembre 2019

Varzi (PV), 1944: messa al campo officiata da “fra Gianni” (padre Giovanni Maria Tognazzi), cappellano della Brigata “Capettini” – Fonte: Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza

Varzi è in mani partigiane dal 19 settembre 1944 e viene a far parte di una zona libera con un territorio di grandi dimensioni: l’Oltrepo si congiunge alle colline del Piacentino e dell’Alessandrino e alla catena di montagne che arriva fin sopra Genova. Vengono così a costituirsi delle piccole repubbliche partigiane che getteranno i semi del nuovo assetto di governo democratico, di quella che sarà la Costituzione italiana.
La repubblica varzese, che da Godiasco arriva fino alla Valle Staffora, ha avuto vicende ed esperienze particolari di significativo rilievo storico. Ne sono stato partecipe e mi propongo di darne testimonianza.
Nel settembre del 1944 avevo da poco compiuto 18 anni e superato gli esami di licenza liceale. Già prima del 25 luglio 1943 ero stato in contatto con formazioni politiche antifasciste che svolgevano attività cospirativa, all’inizio con il Partito d’Azione e poi con il Partito comunista. Il m io compito era stato soprattutto la diffusione della stampa clandestina, che nelle ore serali infilavo nelle cassette della posta al pianoterra di edifici del centro e della periferia di Pavia.
I compagni più esperti e con le maggiori responsabilità mi ritenevano esposto al rischio di un arresto e mi dicevano che avrei dovuto allontanarmi da Pavia. Forse anche perché temevano che un diciottenne non avrebbe resistito alle torture che i fascisti più volte avevano inflitto ai militanti arrestati.
La soluzione più naturale mi sembrava quella di raggiungere Varzi per mettermi in una brigata partigiana, anche perché la mia famiglia veniva da Bognassi, una piccola frazione di Varzi alla quale mi sentivo legato fin da bambino, con i ricordi delle vacanze di tante estati. Il mio proposito doveva però essere approvato da chi dirigeva l’attività cospirativa e questa è stata la ragione di un mio incontro con “Carlo” (nome di battaglia di Beniamino Zucchella).
L’appuntamento era fuori città, in uno spiazzo lungo il Naviglio. Carlo mi ha ascoltato, ma ha subito scosso la testa. Non era il caso che io andassi a Varzi per mettermi un fucile in spalla. A Varzi sarei andato ma per far parte del CLN (Comitato di liberazione nazionale) che nella zona libera doveva occuparsi di tanti problemi dei partigiani e della gente e soprattutto sperimentare gli strumenti di governo che, a guerra finita, sarebbero stati quelli di tutta l’Italia.
Ho raggiunto Varzi col treno fino a Voghera e poi a piedi. Sono stato calorosamente accolto da Guido Versari, presidente del CLN locale, che mi ha presentato all’avvocato Fortunato Repetti, persona dal tratto signorile già designato sindaco e a Costantino Piazzardi, del quale mi erano già noti il rigore morale ed il grande prestigio.
Il CLN del quale ero membro in rappresentanza delle organizzazioni giovanili si è subito occupato dei problemi più urgenti, intervenendo nel settore annonario per la stabilizzazione dei prezzi ed il censimento delle scorte di viveri, n quello dei lavori pubblici per la riparazione delle case danneggiate dai combattimenti e dell’ordine pubblico per la costituzione di una Guardia civica. C’era anche il proposito di dare una sede alle “organizzazioni di massa” giovanili e femminili e di promuovere attività culturali e qui è capitata a me l’occasione di ottenere da un parente varzese la disponibilità gratuita di un ampio appartamento in un bel palazzo del centro di Varzi, dotato di un ottimo arredo e di una ricca biblioteca.
Per un gesto di fiducia, ma forse anche perché disponevo di tempo libero, mi sono stati assegnati altri compiti. Mi è stato messo a disposizione un ufficio nel palazzo municipale con l’incarico di disporre ordini di requisizione di beni privati per soddisfare le necessità delle formazioni partigiane. Dovevo anche ricevere chiunque avesse problemi particolari e mi chiedesse un aiuto, un consiglio per risolverli.
Tutti i giorni sulle scale che portavano al mio ufficio c’era una gran confusione, una fila di persone che mi volevano parlare. Ho così compreso come i varzesi facessero gran conto sul governo del CLN, che dava a loro tante speranze. Le questioni che mi venivano poste erano le più diverse e forse quella che mi ha dato maggior interesse e compiacimento è stata di due maestre elementari che avevano inserito nel programma scolastico il tema del nuovo governo della zona libera e m i chiedevano di suggerire con quali argomenti avrebbero dovuto parlarne ai ragazzi.
Ma non sono mancati anche momenti di difficoltà. Mi si presentavano spesso comandanti di piccole unità partigiane con la richiesta di vettovaglie, materassi, biciclette, viveri e tante altre cose. La gente di montagna, mi dicevano, fa quello che può, ma è povera, le requisizioni devono colpire le famiglie varzesi ricche. A questo punto mi venivano indicati nomi e indirizzi. Il tono era aspro, con un sapore di vendetta. Mi è venuto in mente che il comandante partigiano Remo (Carlo Lombardi, 19 anni di carcere fascista) appena arrivato a Varzi, si diceva che avesse esclamato: “Ecco la città dei banchieri e degli usurai!”. Avevo sentito anche un giovane sacerdote che solidarizzava con i montanari giustificando la loro avversione per i commercianti varzesi che si erano arricchiti con i loro prodotti agricoli.
Il governo del CLN non poteva, per la sua ispirazione unitaria, accettare questa contrapposizione sociale. Con tono conciliante ho cercato di spiegare che non potevamo fare a meno del consenso e della collaborazione della borghesia varzese. Ma c’era anche un risvolto politico. Il commissario della divisione garibaldina Piero e Remo, del quale ho già detto, sostenevano che spogliare i borghesi di Varzi della loro ricchezza era un obiettivo della guerra partigiana, Anche con loro ho sostenuto che non era quello il momento storico per proporre una lotta di classe.
Ma è arrivato il mese di novembre e sono arrivate anche notizie molto preoccupanti che hanno fatto dimenticare le vicende della repubblica di Varzi. Si era mosso un rastrellamento della divisione Turkestan composta da mongoli, prigionieri di guerra che si erano messi agli ordini di ufficiali tedeschi, e sostenuta da forze fasciste. Voci sempre più precise aggiungevano che, in base ad un patto col comando tedesco, i mongoli, quando entravano in un villaggio, potevano dare alle fiamme le cascine e violentare donne, di tutte le età.
Nel mio ufficio c’era un apparecchio telefonico che collegava Varzi e Zavattarello. C’era una manovella, la si girava e qualcuno da Zavattarello rispondeva. Sarà stato il 25 o 26 di novembre, ho girato la manovella e una voce sconosciuta mi ha risposto che da quelle parti era in corso un combattimento. Intanto sentivo il crepitio di una mitragliatrice. Ho chiamato altre due o tre volte con la stessa risposta. Un’altra volta ancora al mio “pronto” ha risposto una voce perentoria che parlava tedesco. Ho chiuso l’apparecchio.
Era tutto chiaro: il nemico aveva occupato Zavattarello e sarebbe presto arrivato a Varzi. Quella stessa sera lunghe colonne hanno preso la strada dell’alta Valle Staffora: partigiani e civili che avevano collaborato con il CLN varzese e poi tante donne per sfuggire al pericolo della violenza dei mongoli.
Lunghe camminate nel fango, notti passate sulla paglia delle cascine o sui pavimenti di case abbandonate, finché un giorno ho incontrato il comandante Americano (Domenico Mezzadra) che mi ha detto che stare in montagna non aveva senso, di nascondermi a Bognassi nella casa materna. Così ho fatto, camminando per una notte a mezza costa, perché i tedeschi stavano sui crinali e nel fondovalle. Arrivato nella casa di Bognassi mi sono sistemato in un sottotetto. Ero stanchissimo, tanto da ignorare i topi che mi giravano attorno. Già il giorno dopo da una finestra di una casa vicina una ragazza che andava tutti i giorni a Varzi per il suo lavoro di parrucchiera ha incominciato a darmi qualche notizia. Erano sempre brutte notizie. Sempre partigiani caduti in combattimento o catturati e uccisi dopo essere stati torturati.
In quel sottotetto sono così venuto a sapere che Primula Rossa (Angelo Ansaldi, mitica figura di partigiano varzese) era stato ferito in combattimento, aveva perso una gamba ed era in mani nemiche. Un’altra volta la ragazza m i ha detto che era stato catturato e ucciso dai fascisti Lucio Martinelli. Lo studente di medicina Lucio aveva seguito a Varzi tutte le mie attività, mi aveva dato preziosi consigli, un fratello maggiore. L’ultima volta che ci eravamo visti mi aveva detto: “Ci vediamo dopo il rastrellamento, abbiamo ancora tante cose da fare insieme”.
Con la primavera i partigiani, dopo una battaglia vittoriosa, sono tornati a Varzi e io sono tornato a sedermi al tavolo del mio ufficio varzese. Per prima cosa ho rimesso al loro posto dei documenti del CLN che avevo portato nel sottotetto di Bognassi perché non dovevano finire in mani fasciste. Sui muri di Varzi un manifesto del CLN salutava e rassicurava i cittadini: la vostra vita sarà tutelata, “le incomprensioni del passato” non si ripeteranno. Era un modo per fare autocritica. Lo confermava anche il fatto che non erano più presenti Remo e Piero, designati ad altri incarichi in località lontane. I due erano stati accusati di “settarismo”, un termine che in quei tempi stava a significare l’errore di chi rifiuta l’alleanza fra forze sociali e politiche diverse anche quando si devono difendere valori e interessi comuni. Il “nuovo” non era finito. Al posto del giornaletto “Il garibaldino” e della sua polemica antiborghese si è dato alle stampe “Il tricolore”, di ispirazione unitaria.
In questa seconda repubblica varzese emergono le qualità e le capacità di comando di altri personaggi: Ciro (Carlo Barbieri), un amico fraterno per me, un uomo che sapeva ascoltare e comunicare, Edoardo (Italo Pietra) che con la sua autorevolezza e le sue doti umane guiderà tutti i partigiani dell’Oltrepo, Albero (Alberto Maria Cavallotti), il medico al quale toccherà la direzione politica. Tutto questo “nuovo” era in sintonia con l’unità delle forze partigiane. Con i primi giorni di aprile non ci sono più state brigate e divisioni di ispirazione comunista, socialista, cattolica, monarchica, ma una sola organizzazione militare, il Corpo Volontari della Libertà.
E’ arrivato il giorno della liberazione, i partigiani hanno lasciato la montagna e sono scesi in pianura. Io non sono andato subito a Pavia, la mia città. Ho sofferto a lasciare quell’ufficio di Varzi, anche se la repubblica partigiana aveva ormai esaurito i suoi compiti. Era stata l’esperienza forse più importante della mia vita. Clemente Ferrario Clemente Ferrario (1926-2018), di famiglia varzese povera, educato alla libertà da due zii socialisti e dalle letture di Tolstoi, da ragazzo antifascista diventa partigiano, militante e poi dirigente e funzionario del Partito comunista, avvocato della CGIL. Nell’ultima parte della sua vita si è dedicato agli studi storici e ad opere di scrittura e narrazione. Il pezzo qui riportato è tratto da “Uomini della Resistenza”, Guardamagna Editori in Varzi, 2019. in 1944 – Le Repubbliche Partigiane

Fonte: Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza

La presa di Varzi merita di essere ricordata perché è uno dei pochi casi in cui una località di fondovalle viene occupata in seguito a un vero e proprio combattimento da parte delle forze partigiane e non, come solitamente avveniva, con azioni di disturbo che spingevano il nemico ad abbandonare il territorio.
-14/ 19 settembre 1944: il combattimento si protrae per 5 giorni; prima vengono eliminati i presidi periferici, poi la città viene stretta d’assedio e la sera del 19 settembre 240 alpini della “Monterosa” si arrendono: molti di questi si arruoleranno nei partigiani. La “Repubblica” dell’Oltrepò Pavese, con la liberazione di Varzi vede accresciute di molto le sue dimensioni territoriali.
Si costituisce un Comitato di Liberazione Nazionale che dà vita a una Giunta Popolare Comunale; questa si occupa degli approvvigionamenti alimentari (grano, pane, carne, latte, legna, ecc.); delle requisizioni; dei lavori pubblici ( allacciamento di nuove frazioni alla rete di illuminazione elettrica, ricostruzione di edifici colonici devastati dai rastrellamenti, ecc.); dell’ordine pubblico (costituzione di una Guardia Civica) e di politica scolastica (nuovi programmi). Un buon impulso lo ebbe anche l’attività editoriale: basti pensare che Il Garibaldino in meno di otto settimane (quante ne durò la prima liberazione di Varzi) uscì con ben 5 numeri.
Fine della “zona libera”23 novembre 1944: inizia il grande rastrellamento che prendendo l’avvio dal Pavese e dal Piacentino, in breve tempo, raggiunge Varzi (e Bobbio). 27 novembre 1944: Varzi viene occupata dai nazifascisti; il grosso delle forze partigiane si attesta sullo Staffora. 12 dicembre 1944: riprende il rastrellamento; i tedeschi attaccano la Valle Staffora, il Tortonese, le valli liguri fino al monte Antola; le formazioni partigiane si scindono in piccoli nuclei che si sganciano filtrando così più facilmente attraverso lo schieramento nemico. 12 gennaio 1945: Varzi viene liberata per la seconda volta; si ricostituisce all’incirca la stessa “zona libera” che aveva visto la luce nell’ottobre – novembre 1944. Istituto Storico Modena

Dunque, questa canzone è nata un anno fa, d’agosto, nell’Oltrepò pavese, quando là, su per le montagne che guardano Varzi, e vedono il grande mare di terra bianca e verde fino alle Alpi, vivevano tre brigate, e non avevano avuto neanche un lancio.
Eravamo tre brigate, eravamo mille armati, eravamo padroni di una zona libera fatta di sette valli, di ventidue comuni, di cinquantamila abitanti; ma il magazzino armi e munizioni era ancora sulla via Emilia, ogni arma un agguato, così tanti ragazzi, come Armando, Bianchi e Walter, sono morti con la faccia sull’asfalto. Non avevamo avuto neanche un lancio.
Da Pometo capitale della Matteotti, da Zavattarello garibaldino, dal vecchio bel Romagnese tutto ribelle, scendevano a sera i gialli camion partigiani della Wehrmacht verso gli agguati al Po e lungo la via Emilia.
Ecco Alfredo il moro col cappello alpino, ed ecco, col berretto da SS, Fusco, che quasi ogni notte si guadagna una uniforme, e Maino senza cappello conte Luchino da Verme garibaldino.
Ed ecco il padre dei garibaldini pavesi, è quel pallido ragazzo sui vent’anni, col braccio al collo in una fascia rossa: si chiama Americano [Domenico Mezzadra], ed è italiano, studente, comunista.
Quello in piedi che ride senza denti, porta scritto con filo d’oro sulla camicia rossa “Caramba dominatore dei falsi profeti“, ma una sera le brigate nere lo prenderanno vestito da prete in una osteria di Casteggio, e andrà al muro come spia.
Ragazzi morti, ragazzi vivi, ormai sembra un sogno, ma chi ricorda quelle sere piene di fisarmoniche, sten, ragazze, buoi squartati, polente, automobili, camicie rosse, mele cotte, scabbia, pidocchi, messaggi speciali, sangue di Giuda, sigarette tedesche, cioccolato americano, cappelli alla garibaldina, ex prigionieri inglesi, capisce perché certi ragazzi, che in montagna hanno combattuto per la libertà, oggi sono quasi prigionieri di quel sogno.
Verso l’alba si sentivano i motori, e allora, per esempio a Romagnese, la gente correva al vecchio muro del castello, dal muro guardava lontano come dal ponte di una nave.
Ecco alla svolta il ’34 della Sesta Brigata, cantano, c’è il bandierone delle nottate d’oro, questa volta sono sacchi, saranno sacchi di zucchero, ecco anche un camion giallo che deve essere l’ultima preda; si vede ruzzolare una forma di parmigiano, ci sono quattro tedeschi, quello è un ufficiale della repubblica. Il comandante della Sap corre a far suonare a festa il campanone; il comandante che si chiama don Alberto Picchi, parroco del paese. Italo Pietra (“Edoardo”), Il coraggio del NO. Figure e fatti della Resistenza nella Provincia di Pavia, Editrice Amministrazione Provinciale di Pavia, 1981

Altrettanto saggiamente, Varzi è stata dichiarata, dai comandanti partigiani, “città aperta”[7]. Dove il Movimento, e per esso i responsabili garibaldini, manterrà il controllo sull’Amministrazione, ma valendosi innanzi tutto dell’apporto di quello stesso Commissario – l’avv. Fortunato Repetti, universalmente riconosciuto persona integerrima – che gestiva in precedenza la Civica amministrazione, coadiuvato da un eccellente segretario comunale – il sig. Bruno Barani – nominato e arrivato fortunosamente a ricoprire quell’incarico giusto mentre infuriava la battaglia tra partigiani e alpini. Mentre a costituire una specie di Giunta, eletta in un’assemblea pubblica dall’evidente forte significato politico e incaricata di collaborare con Repetti, pure confermato per elezione, si prestano specialmente alcuni rappresentanti del CLN, il Comitato clandestino di Liberazione interpartitico, sorto a suo tempo anche a Varzi e guidato da Guido Versari. Tra loro, ancora Versari ricorderà con particolare ammirazione Costantino Piazzardi e Giovanni Bergamini. Che, potremmo commentare, come altri membri del CLN, quale in primo luogo lo stesso Versari, rappresentavano quel meglio in fatto di competenza, onestà, dedizione al pubblico servizio che si sarebbe visto all’opera in tante situazioni eccezionali di quel tempo come dei primi anni postbellici – a prescindere, si osservi, dalle rispettive adesioni partitiche – un meglio inevitabilmente per lo più irripetibile poi, in situazioni di pacifica normalità […]
Nel ricordo di Versari, non sarebbero mancate difficoltà nel tentativo perseguito tenacemente dall’amministrazione di “vincere la speculazione e l’insensibilità” di operatori che “ammassavano ed esportavano clandestinamente grano, uova, latte e carne”, ovviamente destinati al mercato nero fuori zona. Piazzardi sottolineerà quanto e come operasse la Giunta per assicurare i rifornimenti soprattutto all’Ospedale, ricorrendo, se del caso, allo strumento coercitivo delle requisizioni, e in tal modo riuscendo ad alimentare – preciserà – “i numerosi ammalati e feriti stretti uno all’altro nel piccolo ospedale, spesso digiuni da diversi giorni”. Ancora Versari vorrà tuttavia precisare che “la stragrande maggioranza dei commercianti varzesi e i contadini delle zone limitrofe cooperarono lealmente” con la Giunta, sicché “si poterono soddisfare i bisogni dell’ospedale, dell’asilo, del ricovero dei vecchi, dei frati del convento e della popolazione” [8].
Lo schema varzese, in forme più semplici, si ripete con poche varianti in tutta l’area collinare e montana dell’Oltrepò sotto controllo partigiano. Dell’approvvigionamento alimentare, dal quale, in ultima analisi, dipende l’esistenza stessa delle formazioni, si occupano, generalmente, i rispettivi commissari, ai quali risultano in tal modo addossati compiti d’intendenza teoricamente non loro propri. E lo strumento principe resta la requisizione, con forme di pagamento rinviate alla Liberazione e attestate dal rilascio di specifici ‘buoni’. Ma sono attestate forme di coordinamento con la popolazione e di organizzazione di quest’ultima che riportano in vita modalità organizzative antiche. Così, ad esempio, Luchino dal Verme ricorderà come, per portare a buon fine l’approvvigionamento alimentare delle formazioni con le inevitabili requisizioni, risultasse fondamentale il “consenso degli anziani”.
Franco Costa, che a lungo inseguirà l’idea di un’efficiente organizzazione di serie Intendenze sia di Brigata (nello specifico, quando era stato aggregato alla “Crespi”) sia Divisionali, per l’ “Aliotta”, non mancherà d’altronde di rilevare come, nella fattispecie, nell’alta Val Tidone, dove pure non si erano date modalità più avanzate – diciamo democratiche – di rappresentanza delle rispettive popolazioni, si erano tuttavia manifestate “forme embrionali di collaborazione (…) intendendo soprattutto la volontà di sondare l’umore della popolazione da parte dei rappresentanti comunali”. Ciò che poteva realizzarsi, se non attraverso la nomina di “un vero rappresentante di frazione”, almeno interpellando “le persone più autorevoli del luogo”[9].
Quel che l’organizzazione, in forme diverse ma tendenzialmente univoche, viene a configurare progressivamente nel breve periodo di relativa quiete della zona libera è, poi, in sostanza, l’estrinsecazione di un tentativo di incanalare in forme sopportabili dalla popolazione lo scontro militare in atto, con l’accettazione per lo più tacita, da entrambe le parti in lotta, di relazioni che a entrambe conviene mantenere. Perché quel grano, quelle uova, quel latte, quella carne – che Versari giustamente si preoccupava non venissero a mancare ai bisogni alimentari di Varzi – eran poi prodotti di cui anche la pianura occupata dai repubblicani aveva bisogno, come, e anche più, della legna di cui la montagna abbondava, mentre nelle città, venendo progressivamente meno gli apporti di carbone d’oltre Brennero, i problemi non solo del riscaldamento – sia per le famiglie, sia per gli edifici destinati a usi pubblici, come, in particolare, le scuole – ma addirittura anche quelli più elementari della cottura dei cibi, si stavano facendo sempre più preoccupanti.
Appartenendo alla generazione che, non avendo partecipato alla lotta mortale in atto, è stata tuttavia coinvolta in questo genere di difficoltà, non ho certo dimenticato sia le lunghe – piacevoli per gli scolari, ma assai poco produttive – vacanze invernali adottate dalle autorità repubblicane giusto per scansare il problema, ma poi anche il grosso pezzo di legna che ogni studente era impegnato a portare la mattina in classe quando le scuole riaprivano i battenti, per alimentare la stufa di cui ogni aula era stata dotata. Né potrei dimenticare il passa-parola che una mattina – si era già nel ’45 – arrivò dal Municipio, col permesso di abbattere gli alberi – erano delle robuste acacie – del viale su cui si affacciava anche casa mia, perché altro ormai non c’era per far fuoco nelle cucine di città […]
Sicurezza e annona erano poi, a ben vedere, le due facce di un unico fondamentale problema: il controllo del territorio. E ben s’intende come, in diverse circostanze e occasioni, l’uno o l’altro contendente avrebbe voluto incanalare in forme per così dire regolari – o, altrimenti detto, tradizionali – l’aspro confronto – o, per dirla ancora con Paola Profumo, la confusione – che, teoricamente in atto subito all’indomani dell’8 settembre del ‘43, era progressivamente cresciuta nel nostro Oltrepò dalla primavera del ’44, e nella vittoria a Varzi del successivo settembre aveva segnato uno dei suoi momenti più significativi. Giusto alla vigilia di quello che poi sarebbe passato nella pubblica memoria come il rastrellamento “dei mongoli” si sarebbe quindi situato un evento che di quella volontà sarebbe stata in Oltrepò l’espressione forse più emblematica.
All’incontro del 17 novembre a Sanguignano, in Valle Ardivestra, tra i rappresentanti delle due parti in conflitto, cui mi riferisco, di poco precedente l’inizio del grande rastrellamento operato dal generale von Heygendorff e dalla sua “Turkestan”, andrà subito detto come il nostro Movimento partigiano arrivasse con la buona coscienza di aver non solo più o meno felicemente, ma sempre decisamente, contrastato combattendo il nemico, ma pure di aver saputo progressivamente avviare forme di amministrazione del territorio liberato e controllato volte, per quanto possibile, ad assicurare e se possibile migliorare le condizioni di vita delle popolazioni interessate.
Così, nella fattispecie a Varzi, non ci si era occupati solo di annona e sicurezza in linea generale, ma pure di ordine pubblico, con l’istituzione di una “Guardia civica”, e di istruzione, con la ripresa, più o meno regolare, delle lezioni nella scuola elementare, e ancora di lavori pubblici, avviando la ricostruzione di edifici colonici devastati dai precedenti rastrellamenti e addirittura provvedendo all’allacciamento alla rete di illuminazione elettrica di frazioni che ne erano sin allora rimaste escluse. A proposito del quale, per quell’eterogenesi dei fini anche ironica che fa, non raramente, capolino fra le pagine della storia, grande o meno che sia, andrà pure ricordato come dei lavori a questo preciso scopo condotti tra Varzi e Monteforte e del relativo filo conduttore si sarebbero giovati i rastrellatori della “Turkestan” per sorprendere i garibaldini che a Monteforte stavano in totale tranquillità di presidio, convinti com’erano d’esser ben protetti dalle postazioni collocate sulla strada normale d’accesso a quella fortezza naturale[10].
Perché poi si fosse arrivati a quell’incontro a Sanguignano non è difficile capire, pur che si lascino parlare documenti e testimoni.
Il Movimento aveva nell’estate acquisito un apporto individuale – quello di Italo Pietra – per ragioni familiari legato all’Oltrepo’, che nel prosieguo si sarebbe dimostrato prezioso, soprattutto nelle viste e per il diretto intervento dei responsabili milanesi. Pietra, portatore di un’esperienza non solo, tout court, militare ma anche nei Servizi segreti del regio esercito, aveva presto assunto in Oltrepò le funzioni di ascoltato consigliere. Tanto capace e persuasivo da riuscire a convincere Orfeo Landini , il coriaceo commissario “Piero”, dell’opportunità di quell’incontro in terreno neutro con tedeschi e repubblicani di cui si conoscevano precedenti, seguiti da precisi accordi tra le parti, in aree non controllate da formazioni garibaldine o gielliste e da queste ultime seccamente condannati.
Promosso da un personaggio vogherese per molti versi singolare quale l’aristocratico Jacopo Lauzi de Rho, che l’incontro avrebbe pure presieduto, Pietra ne avrebbe poi fornito una versione del tutto fantasiosa, verosimilmente volta a scrollargli di dosso la possibile accusa di cedimenti al nemico, ma le carte, confermate dalle testimonianze, non consentono troppi dubbi. Redatto da Lauzi e confermato da don Alberti, presente in veste di garante – funzione ricorrentemente riservata a sacerdoti e religiosi riconosciuti almeno formalmente al di sopra delle parti in conflitto e quindi utilizzabili per gli eventuali rapporti tra le medesime – il verbale dell’incontro, tenuto nel castello di Montesegale, lascia intendere come da parte tedesca si puntasse soprattutto allo scambio di prigionieri, mentre precisa come Pietra avrebbe tenuto a far accettare dalla controparte un’idea del Movimento di pretto stampo militare, con le conseguenze del caso, nella fattispecie volendo ottenere che i partigiani venissero trattati non come banditi o ‘irregolari’ ma come soldati, ai quali si dovevano applicare le convenzioni internazionali. Era, a ben vedere, una visione che poteva pur sostanziare l’idea di quell’esercito partigiano tanto decisamente coltivata dalle centrali operative milanesi, ma risultava altresì inapplicabile rispetto alle modalità conflittuali inevitabilmente adottate dalla Resistenza.
Il verbale non accenna esplicitamente ad accordi tra le parti nella prospettiva di una delimitazione del territorio di rispettiva competenza e conseguente cessazione delle puntate offensive dall’una come dall’altra parte, anche se a questo fine l’incontro era stato soprattutto pensato e nella testimonianza di don Alberti il tema sarebbe pure stato verbalmente affrontato, peraltro rinviando ogni decisione al riguardo a ulteriori trattative. Verosimilmente, nella prospettiva, preannunciata per chiari segni premonitori, di un imminente, nuovo, devastante rastrellamento, mentre l’inverno incombeva e gli Alleati inchiodati sulla linea Gotica avevano avvisato, giusto qualche giorno prima, col cosiddetto proclama Alexander, i partigiani dell’inevitabile rinvio dell’offensiva finale in Valpadana, un accordo tra le parti che lasciasse indisturbate ai Tedeschi, specialmente sulla cruciale via Emilia, le comunicazioni, e tranquilli i partigiani sulle loro montagne, non poteva non sorridere a chi, come Pietra ma anche Landini, si rendeva ben conto dell’incombente realtà. Per cui il temuto rastrellamento sarebbe potuto risultare tanto catastrofico, come poi in realtà fu, da rendere difficilissima la stessa sopravvivenza dei partigiani, riducendone, insieme, sin quasi ad annullarla, la capacità offensiva, e in tal modo comunque liberando le comunicazioni tedesche e repubblicane, tanto sulla via Emilia quanto in val Trebbia e in valle Scrivia, dal precedente, pesante stillicidio degli attacchi partigiani.
Quella voglia di divise, di leggi, di ordine che Pietra aveva decisamente esternato nell’incontro, era, d’altronde, chiaramente iscritta nel futuro dello stesso Movimento, non mancando di manifestarsi in pubbliche come in private manifestazioni anche di rappresentanti di quella Wehrmacht che pure il nostro ‘Maino’[11] aveva additato mesi prima ai suoi ragazzi come il loro più autentico nemico. Dalla magmatica, incandescente realtà resistenziale, superate le prime durissime settimane seguite all’ondata offensiva della “Turkestan”, ci si sarebbe, inevitabilmente, in tal modo, avviati a quel nuovo ordine i cui primi, chiari segni si eran visti giusto nell’organizzazione primordialmente democratica di Varzi. Mentre, dall’altra parte, il nemico tendeva progressivamente a riassumere quelle sembianze umane che nel crogiolo della contrapposizione violenta sembravan essersi dissolte.
Concluso il tempo della affannosa ricerca ed eliminazione dei reali o supposti delatori, mentre le puntate offensive tedesche si rarefacevano, sarebbe venuto il tempo di una giustizia applicata non solo al nemico ma all’amico colpevole di reati comuni, progressivamente non più tollerati. Con condanne anche a pene capitali, come si sarebbe visto per la banda Draghi, in una vicenda pur inquadrabile in quel clima di sospetti e conseguenti drastici interventi di cui prima si diceva. Mentre nei confronti dell’occupante tedesco si sarebbero adottati comportamenti più o meno consapevolmente ispirati a quelle convenzioni che sino a poco prima si erano fattualmente negate. Tornava lo Stato, tornava, o almeno cominciava a tornare, la Legge.
La “confusione” tendeva così progressivamente a dissolversi. Quasi emblematicamente, dalle sue caligini, sarebbe emerso nel ’45, una sera di marzo, in casa Profumo, subito oltre Staffora, Gustavo, il fratello ‘grande’ di Paola, dato da tempo per morto. Che viceversa, passate dopo l’8 settembre le linee, deciso a battersi contro repubblicani e tedeschi, era stato poi paracadutato dall’OSS in Piemonte a mezzo luglio a guidare – Cippi il suo nome in codice – una importante missione alleata – la Apple – di appoggio alla Resistenza. Ferito in val Pellice e ricoverato in Francia, era stato un’altra volta paracadutato, in alta val Borbera, a mezzo febbraio e dai primi di marzo si trovava a Torre degli alberi, di dove con la sua radio – in codice “radio Piroscafo” – non solo avrebbe vigorosamente sostenuto, con esito positivo, l’urgenza di lanci di armi e munizioni, vestiario – soprattutto le preziosissime scarpe – e medicinali ai nostri partigiani, ma sarebbe pure riuscito, con eccellente tempismo, a ottenere l’intervento dell’aviazione alleata a contrastare efficacemente l’offensiva portata da Fiorentini da nord a sostegno di quello che, fra il 10 e il 12 marzo, sarebbe stato l’ultimo rastrellamento organizzato da repubblicani e tedeschi contro i nostri partigiani, culminato nel lungo, duro scontro passato alla storia della nostra Resistenza come la – vittoriosa – battaglia di Costa pelata.
A Varzi, abbandonata definitivamente dal presidio tedesco solo quattro giorni dopo, precisamente nella nottata del 16 marzo, i nostri ragazzi, festeggiatissimi dalla popolazione, sarebbero, il 17, definitivamente rientrati[12], per non più perderla, anticipando di una buona settimana la liberazione dei maggiori centri padani.
Cominciava una nuova storia: per Varzi, per l’Italia, per l’Europa.
[7] Guderzo, Giulio Guderzo, L’altra guerra. Neofascisti, tedeschi, partigiani, popolo in una provincia padana. Pavia, 1943-1945, Bologna, Il Mulino ed., 2002
[10] Si sarebbe specialmente occupato di questi aspetti della Varzi liberata Lucio Ceva, in un importante saggio del ’70 su Le zone libere di Bobbio e di Varzi, che avrei ovviamente poi ripreso nell’Altra guerra, cit., pp. 406-407. Sulle circostanze dell’attacco a Monteforte, ivi, p. 506.
[11] Era il nome ‘di battaglia’ adottato da Luchino Dal Verme.
[12] Guderzo, L’altra guerra cit., p. 679.

​​​​​Giulio Guderzo, L’altra repubblica: Varzi e la Zona libera 1944 in Gruppo Ricercatori Aerei Caduti Piacenza (Il Grac ringrazia Giulio Guderzo , Professore Emerito di storia dell’Università degli Studi di Pavia, per la concessione alla pubblicazione)

Stavamo osservando la piazza da una finestra del municipio di Varzi. A un tratto Versari mi disse: “Ecco, quello è Americano!”. Stava in quel momento passando una grossa motocicletta militare tedesca, pilotata dal Moro, un partigiano grande e grosso. A cavalcioni sul sedile posteriore scorsi un giovane pallido, con uno sguardo triste che contrastava con la sua sgargiante camicia rossa. Nella frase con cui Versari me lo aveva additato c’era qualcosa che metteva fine alla mia lunga aspettativa di poter vedere il più famoso comandante partigiano dell’Oltrepo, già in quei giorni diventato leggenda.
Di Americano avevo sentito parlare ancora prima di arrivare a Varzi. Mi avevano detto dei suoi colpi di mano. Scendeva di notte con due o tre uomini sulla via Emilia, nel tratto fra Voghera e Broni, fermava un automezzo tedesco o repubblichino, e dopo averne disarmato gli occupanti, lo portava su in montagna con un carico talvolta prezioso: armi, divise, viveri. Una volta era toccato a un furgone pieno di sigarette, ed era stata una gran festa.
Si raccontavano anche molti episodi a prova del suo temperamento freddo e responsabile: quando era stato ferito in combattimento, senza darlo a vedere aveva continuato a sparare e dare ordini fino alla fine dello scontro. Anche Carlo, a Pavia, nel fare il quadro della situazione in Oltrepo, aveva avuto per lui un riguardo particolare, svelandomi tra l’altro il mistero di quel nome di battaglia: era nato in America, figlio di emigranti italiani; era uno studente di filosofia di ventiquattro anni. Clemente Ferrario, Op. cit.