A trent’anni di distanza quale possibile giudizio si può dare del caso Ippolito?

Come abbiamo visto il “caso Ippolito” fu un caso mediatico, prima che giudiziario, che ben presto venne associato dalla stampa ad altri due “casi” che maturarono nello stesso clima politico. Il primo e più noto è senz’altro il “caso Mattei”, che nacque dalla immediata e diffusa sensazione che l’incidente aereo di Bascapè del 27 ottobre 1962, in cui perì il fondatore dell’ENI, fosse di origine dolosa (connessa in
particolare alla lotta di Mattei contro le multinazionali del petrolio). Il secondo è legato alla figura di Domenico Marotta, ex direttore dell’Istituto Superiore di Sanità, il cui “caso” giudiziario si sviluppò negli stessi mesi di quello di Ippolito e portò al suo arresto, l’8 aprile 1964, per illeciti amministrativi da cui fu prosciolto in appello.
Fin dalla primavera del 1964 Felice Ippolito godette della solidarietà della quasi totalità della comunità dei fisici. Prima della sentenza venne fatta pervenire ai giudici una lettera di piena solidarietà al Segretario del CNEN firmata da 65 dei circa 70 titolari di cattedra di fisica in Italia, iniziativa che ebbe una vasta eco negli ambienti scientifici, ed altrettanto clamore ebbe la lettera inviata ai giudici da Étienne Hirsch, ex
Presidente di Euratom, che attestava la correttezza dell’imputato. Ciò che appariva chiaro era che il processo ad Ippolito andava ben al di là della questione personale per farsi qualcos’altro. A tal proposito è significativa la testimonianza di Indro Montanelli sul «Corriere della Sera» del 15 giugno 1964, più volte citata ma sempre efficace: “A un certo punto dell’udienza, il cancelliere ha interrotto il professor Ippolito. Con la sua penna (non sono riuscito a vedere se fosse una stilografica, ma ho avuto l’impressione che la tuffasse nel calamaio come gli scrivani di cinquant’anni fa) non riusciva a tener dietro all’imputato che
parlava liscio, spedito, padrone della propria materia e della propria sintassi. «Sta a vedere che ora Ippolito lo licenzia per scarso rendimento» ha mormorato un collega accanto a me. Il professore infatti aveva l’aria di poterlo fare. Dacchè il presidente gli aveva dato la parola, non l’aveva più lasciata, e tutti – giudici, avvocati, giornalisti e pubblico – pendevano dalle sue labbra. Senza spavalderia, ma con consapevole autorità, aveva assunto il timone del dibattimento e sembrava intento più a dirigerlo che a difendersi. All’obiezione del cancelliere – un giovanotto allampanato con una capigliatura che lo fa somigliare a Giorgio Gaber – ha avuto una smorfia di disappunto. Abituato ai reattori atomici di un ente nucleare coi suoi dittafoni, i suoi magnetofoni, il suo automatismo, non immaginava di trovarsi in tribunale alle prese con le lentezze di un cancelliere che scrive tuffando il pennino nel calamaio. E quando il presidente lo ha invitato a tenerne conto e e a continuare, dettando, ha mormorato con un misto di dispetto e di candore: «non lo avevo previsto, le mie parole ci perderanno in efficacia…», o qualcosa del genere. Forse tutto il senso del processo è riassunto in questo piccolo incidente. Il professor Ippolito non aveva previsto nemmeno che a inquadrare un ente come il CNEN la cui gestione richiede la massima prontezza di riflessi e rapidità di decisioni, in un organismo come il nostro Stato, che ancora non è arrivato agli stenografi e fa redigere i verbali da scriba col pennino innestato sull’asta e intinto nel calamaio, il rischio di qualche esplosione non si può evitare. Prima o poi la speditezza e la spregiudicatezza che richiede la direzione di un ente atomico avrebbero dato di capo nelle rigidezze di qualche capoverso di qualche comma di qualche legge. E con un uomo come Ippolito era chiaro che a soffrire sarebbe stata la legge”. <324
Montanelli concludeva attribuendo allo Stato, alla sua cronica lentezza tecnica, la responsabilità di generare “casi Ippolito” costringendo i suoi funzionari a scegliere tra legalità ed efficienza.
Nel 1965, mentre Ippolito era in carcere in attesa della sentenza d’appello, il Saggiatore pubblicò “La politica del CNEN <325 che conteneva una raccolta di scritti di Ippolito. Autore dell’illustre prefazione era Hirsch, il quale scrisse delle benemerenze del CNEN e concluse scrivendo: “Un’azione come quella del CNEN non si realizza senza scuotere abitudini acquisite e senza disturbare interessi costituti. È inevitabile che ne risultino gelosie e inimicizie. Pertanto ogni uomo che, animato dalla volontà di servire il pubblico bene, è deciso a superare gli ostacoli di cui la vita è disseminata, deve sapere che non può aspettarsi alcuna riconoscenza. Ma ha diritto che i servizi resi non gli vengano imputati a colpa”.
Ma se non si trattava di un fenomeno di malagestione attribuibile ad un singolo amministratore corrotto (l’individuazione del movente fu sempre un punto debole dell’impianto accusatorio, non avendo potuto dimostrare alcuna appropriazione), ben presto ci si iniziò a chiedere “chi ci fosse dietro” al processo.
Nel 1968 Silvestri, commentando un articolo de «L’Unità» che inquadrava il “caso” come il frutto di una vendetta degli industriali elettrici (ed in particolare l’Edison), escluse che l’attacco fosse partito da quella direzione sulla base di una considerazione tutto sommato abbastanza valida: tali e tanti erano stati i tentativi da parte dell’Edison, e di De Biasi in particolare, di far fuori Ippolito prima della nazionalizzazione (e tutti falliti), che ci sarebbe da stupirsi se fosse riuscito proprio quello dell’agosto 1963, quando ormai la battaglia contro la nazionalizzazione era persa e l’Edison era ormai fuori gioco. Silvestri scrisse:
“Personalmente ho il sospetto – ma solo il sospetto – che contro Ippolito si siano sovrapposte due iniziative: una più palese, facente capo al gruppo dei senatori democristiani, ed una più occulta, che passando casualmente attraverso Saragat, Preti e Togni mirava a scalzare Ippolito dall’ENEL”. <326
Anche al netto dei rapporti di fedeltà tra Silvestri e l’Edison, non sono prive di valore le considerazioni di Silvestri.
Luigi Lerro, nel corso della sua intervista pubblicata nel 1978, chiese esplicitamente ad Ippolito se dietro all’attacco al ruolo che la scienza aveva raggiunto c’era una “mente”, ovvero chi erano le “forze coalizzate” contro la ricerca nucleare. Ippolito rispose che a distanza di anni era ormai chiaro che si voleva eliminare “il
protagonista principale” (l’unico nel CdA dell’ENEL a voler portare avanti una seria politica nucleare) per far “tacere” l’intero programma nucleare. “Guardando il problema storicamente”, spiegò Ippolito, “fra tutte le forze convergenti contro di me è stata certamente preminente l’azione svolta dalle multinazionali petrolifere” <327. Se i petrolieri furono i beneficiari, secondo Ippolito l’attacco partì però dai socialdemocratici e da Saragat (per “obiettivi meschini e immediati” legati al suo ruolo nell’ENEL nel momento in cui si contrattavano le indennità ai nazionalizzati) e fu subito “montato scandalisticamente da destra, e soprattutto dalla destra economica”, ovvero dalla Edison di De Biasi e Valerio, per vendetta contro il suo ruolo nella nazionalizzazione. Infine c’erano le faide interne alla DC, che miravano a colpire il Ministro Colombo. Nella testimonianza Ippolito metteva in secondo piano i “nemici elettrici”, indicando come mandanti i petrolieri e forse ciò dipendeva anche dal fatto che il libro di Lerro uscì a pochi anni dalla crisi energetica del 1973, che aveva sollevato profondi rimpianti nuclearisti per i “dieci anni perduti”, citando il titolo della pubblicazione di Ippolito e Simen sull’argomento del 1974 <328. In tal senso vedeva più
similitudini tra il suo “caso” e quello di Mattei, che non quello di Marotta, tanto da affermare:
“In quanto all’analogia con il caso Mattei, basta leggere gli articoli pubblicati prima del ’63 da «24 Ore» – allora di proprietà della Edison – che mi chiamava «Il Mattei atomico». Certo, Mattei era molto più forte e potente di me, perciò forse fu ucciso…. È certo, peraltro, che Mattei ed io eravamo invisi allo stesso establishment, perché volevamo una aggressiva politica delle partecipazioni statali e perché, in modo diverso, toccavamo gli interessi degli stessi ambienti nazionali e multinazionali” <329.
Chi rimise nuovamente gli “elettrici” al centro del suo “mirino”, è il caso di dirlo, fu Orazio Barrese che nel 1981 titolò “Un complotto nucleare” <330 il primo libro che si occupava del “caso Ippolito” in quanto tale. Barrese esaminò attentamente, con prospettiva polemicistica e di carattere giornalistico, la figura di Ippolito connettendola in particolare al ruolo rivestito nella nazionalizzazione in veste di segretario del CNEN e mettendo in luce i continui attriti con il CISE, l’Edison e Silvestri al cui libro (che non bisogna dimenticare ebbe una vasta eco) pare controbattere esplicitamente in vari punti. Esaminò, basandosi sopratutto sulla stampa coeva, la “crociata di ferragosto” di Saragat ed il meccanismo che aveva messo in
moto. Riguardo al processo mise in risalto la “sommarietà” del procedimento ed individuò nei giudici Giannantonio e Pietroni i principali responsabili di un processo scandalo. In particolare sull’integrità del secondo sollevò forti dubbi commentando la rapida carriera che lo portò prima alla commissiona nazionale antimafia, poi all’arresto per aver favorito un clan mafioso. Quando si trattò di individuare i mandanti, pur ammettendo la mancanza di prove definitive, indicò senza molti dubbi l’Edison e gli elettrici che erano interessati a sabotare il Centrosinistra per evitare che le ingenti indennità ricevute dalle nazionalizzazioni fossero soggette ai vincoli della pianificazione economica. Secondo Barrese gli interessi di questa destra economica, rappresentata da PSDI, destra DC e PLI, venivano a coincidere non solo con quello delle “Sette sorelle” del petrolio, danneggiate dallo sviluppo del nucleare, ma anche con quello delle industrie nucleari americane, timorose di perdere il controllo sul nucleare in Italia. Fatto che, in virtù del ruolo del CNEN nell’Euratom, avrebbe significato perdere il controllo sul mercato della tecnologia nucleare sull’intera
Europa. Interessante infine, quanto poco documentata, l’ipotesi che secondo Barrese emergeva dallo scandalo dei fondi neri della Montedison che, stando alla sua ricostruzione (fondata principalmente su fonti giornalistiche e giudiziarie), aveva posto alla luce una ramificata rete di corruzione gestita da Valerio e De Biase (e comprendente molti dei nomi incontrati in questo studio come Segni, Malagodi, Saragat, Moro, Eugenio Cefis). Una tesi di questo tipo, benchè affascinante per le molteplici implicazioni che suggerisce, rimane un ottimo suggerimento per un possibile percorso di studio basato soprattutto sulle carte processuali citate, ma lascia di per sé poche possibilità di commento proprio per la scarsità documentaria con cui viene sostenuta da Barrese.
Ben più solida la ricostruzione operata da Sebastiani <331 sui cui pregi ci siamo più volte soffermati. Uscita a metà degli anni ’90 si colloca in modo diretto ed esplicito come un tentativo di indagare una delle possibili cause alla “degenerazione del tessuto politico, economico e sociale” di quegli anni (siamo nel periodo di “tangentopoli”). Secondo l’analisi da lui proposta i primi sintomi della “partitocrazia” e della “occupazione dello Stato” si hanno durante il primo Centrosinistra ed in particolare con la lottizzazione dell’ENEL. Di conseguenza il “caso Ippolito” si colloca in questo contesto di lotta tra gruppi di potere, sostanzialmente italiani, in lotta tra di loro per spartizioni di posizioni nel sottogoverno del Paese.
Sebastiani esaminò la posizioni di Barrese e le dichiarazioni dello stesso Ippolito negli anni ’70 sollevando dubbi su entrambe. Alla teoria di Barrese, secondo cui l’industria nucleare americana avrebbe avuto timore della competizione tecnologica italiana, Sebastiani oppose la constatazione dell’enorme ed incolmabile divario tra le due industrie nucleari. Pare invece aleatorio il giudizio sulle parole di Ippolito riguardo le “7 sorelle”, che secondo Sebastiani sono attribuibili solo ad un suo avvicinamento alle posizioni antiamericane del PCI nel corso degli anni ’70.
Il testo contiene anche un’intervista a Ippolito, in cui ci pare invero che le domande tendano ad indirizzare un po’ troppo le risposte <332, in quanto Ippolito venne sollecitato solo sulle dinamiche interne all’ENEL. Nonostante ciò ad un tratto, partendo da una domanda su Colombo, Ippolito divagò e ripropose senza alcuna suggerimento in merito l’argomento delle “7 sorelle” antinucleariste. Interessante anche l’intervista, riportata in appendice, al Ministro Colombo, anche in questo caso caratterizzata purtroppo da domande piuttosto univoche. Solo ad un certo punto Sebastiani avanzò una domanda abbastanza vaga da lasciare spazio ad una risposta potenzialmente sorprendente: «A trent’anni di distanza quale possibile giudizio si può dare del caso Ippolito?». Sebastiani, che nel testo trascrisse le risposte di Colombo in terza persona e al presente, raccontò che “Pesando attentamente le parole l’on. Colombo sottolinea come vi sia stata un’ampia ventata contro Ippolito; lo si voleva colpire sull’amministrazione e sulle sue iniziative. La legge doveva ingabbiare Ippolito” <333. Purtroppo Sebastiani ritenne di passare ad un’altra domanda senza
indagare la portata della “ampia ventata”, né sul giudizio di inconciliabilità intrinseca tra Ippolito e la legge che pare trasparire dall’ultima frase.
Barbara Curli scelse di intitolare significativamente “Il primo processo alla modernità” il capitolo dedicato al “caso” <334 all’interno del suo lavoro su Ippolito. Superando le posizioni “complottiste” di Barrese e Simen ed approfondendo quelle istituzionali e politiche di Sebastiani, inquadrò il “caso” nel contesto europeo del
conflitto tra vecchie burocrazie votate all’ideale della corretta amministrazione e nuove élites tecnocratiche abituate a confrontarsi con la dinamicità delle aziende private, tra vecchi e nuovi apparati di gestione dell’intervento statale. In tal senso il paragone tra l’operato di Mattei all’ENI e di Ippolito nei comitati nucleari risulta particolarmente convincente. Nella sua ricostruzione delle vicende gestionali degli
enti nucleari fece emergere in particolare la continua tensione con la Tesoreria di Stato e gli altri enti di controllo e non mancò di osservare come l’elemento più paradossale del processo fosse stato il non riconoscere la natura eminentemente politica di questa tensione che invece venne confinata in modo forzoso nell’ambito giuridico amministrativo. La prova più lampante di questa volontà è stato il
trattamento ricevuto dai politici coinvolti ed in particolare da Colombo. Nonostante l’operato di Ippolito fosse stato più volte legittimato dai suoi referenti istituzionali come i vari Ministri succedutisi durante la sua segreteria e nonostante che l’ultimo di questi, Colombo, avesse testimoniato al processo attribuendosi la piena consapevolezza e responsabilità dell’accaduto (rifiutando di farsi passare per una “macchietta” nelle mani del Segretario Generale come di fatto sosteneva l’accusa), il Ministro, e con lui l’intera classe politica, non fu mai messo in discussione. Incriminare il politico democristiano avrebbe significato arrivare fino alla Corte Costituzionale, fatto senza precedenti fino allo “scandalo Lockheed” alla fine degli anni ’70. Allo stesso modo non fu accolta la proposta comunista riguardo all’istituzione di una commissione parlamentare che avrebbe finito per mettere in discussione non solo l’operato di Colombo, ma di ampia parte della classe politica democristiana. Il “caso Ippolito” quindi appare, nell’analisi di Curli, come sintomatico dello scontro tra la vecchia burocrazia contabile e la nuova amministrazione efficentista degli enti che andavano dall’IRI di Beneduce al CNEN. Ippolito aveva supplito con il suo “personalismo” e “illegalismo” alle necessità di un ente moderno di fronte al mancato ammodernamento degli strumenti dell’intervento statale. Il gioco aveva funzionato fino ai primi anni ’60 perché aveva garantito le risorse tecnologiche rimandando ogni decisione politica, ma con l’avvento del centrosinistra e della decisione sulla
nazionalizzazione, i nodi erano venuti al pettine. La politica aveva visto nella nazionalizzazione non l’occasione di un articolato intervento statale, ma quella di una lottizzazione partitica. A farne le spese fu la riforma strutturale per eccellenza (la creazione dell’ENEL) e, all’interno di questa, il settore che maggiormente avrebbe richiesto pianificazione a lungo raggio: il nucleare.
Il libro di Curli è interessante naturalmente anche perché riporta una delle ultime testimonianze di Ippolito <335 da cui si evince che a oltre trent’anni di distanza (l’intervista è stata condotta a più riprese nel corso del 1996 e rivista da Ippolito stesso l’anno successivo) si era ormai convinto che l’ordine dell’attacco, a sostegno del quale poi contribuirono vari fattori (tra cui rivalità interne alla DC ed anche alla comunità scientifica, come pure gli antichi rancori degli elettrici) era arrivato da qualcuno all’interno del CdA dell’ENEL ed era diventato operativo ben prima dell’attacco di Saragat. Anche in questo caso, però, Ippolito, travalicando i binari di un’analisi sulle cause interne al sistema politico italiano suggerito dall’intervistatrice,
fece riferimento al fatto che “Sullo sfondo c’erano sempre le sette sorelle, l’ambasciata americana, gli interessi petroliferi” <336, tema a cui evidentemente non voleva rinunciare. Ma anche in questo caso l’intervistatrice preferì riportare il discorso alle cause interne alla DC senza approfondire tali accuse.
Anche gli studiosi che si sono occupati principalmente delle vicende istituzionali degli enti di ricerca, trattando quindi il “caso” in maniera collaterale, tendono ad indicare nelle dinamiche di potere interne alla politica italiana, e specificatamente nella lotta per la spartizione delle cariche e per la determinazione della linea politica dell’ENEL (in particolare nello scontro tra Ippolito e Angelini), la cause della caduta di
Ippolito di cui il processo fu lo strumento <337.
[NOTE]
324 I. Montanelli, “Corriere della Sera”, 15 giugno 1964, citato in O. Barrese, Il complotto nucleare – il caso Ippolito, cit. pp.12-13.
325 F. Ippolito, La politica del CNEN, Milano 1965, Il Saggiatore.
326 M. Silvestri, Il costo della menzogna, cit., p. 340.
327 Lerro L., Ippolito – intervista sulla ricerca scientifica, cit., p.53.
328 F. Ippolito – F. Simen, La questione energetica. Dieci anni perduti 1963/1973, cit.
329 Lerro L., Ippolito – intervista sulla ricerca scientifica, cit., p.59.
330 O. Barrese, Il complotto nucleare – il caso Ippolito, cit.
331 Cfr. L. Sebastiani, Il caso Ippolito, cit.
332 Cfr. L. Sebastiani, Il caso Ippolito, cit., p.239.
333 Cfr. L. Sebastiani, Il caso Ippolito, cit., p.267.
334 B. Curli, Il progetto nucleare italiano…, cit., cap. III, parti I, pp.97-113.
335 B. Curli, Il progetto nucleare italiano…, cit., pp.243-ss.
336 F. Ippolito in B. Curli, Il progetto nucleare italiano…, cit., p.247.
337 Cfr. in particolare G. Battimelli, M. De Maria e G. Paoloni, L’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare…, cit, p. 161-162.
Igor Londero, Felice Ippolito intellettuale e grand commis – La ricerca nucleare in Italia dal dopoguerra al primo centrosinistra, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Trieste, Anno Accademico 2011/2012