Alberto Savinio ed una parte della classe intellettuale italiana, nella transizione dal fascismo al post-fascismo, scrivevano…

Gli scritti di Savinio compresi tra il 1943 e il 1944 appartengono ad un’ampia costellazione di riflessioni sull’Italia fascista e postfascista portata avanti da una classe intellettuale sempre più bisognosa di sistematizzare, possibilmente con coerenza e senza sbavature, vent’anni di dittatura. Negli anni in questione, infatti, l’urgenza e la frenesia di descrivere, razionalizzare e spiegare il fascismo, il 25 luglio e l’8 settembre 1943, si tradussero in una serie effervescente e abbastanza omogenea di articoli, resoconti, saggi, romanzi e pamphlet destinati a restituire allo studioso e al lettore un’atmosfera caleidoscopica e a tratti straniante, oscillante tra il pessimismo fatalista e la tentazione del «colpo di spugna» <1. L’obiettivo, come ha notato Irene Piazzoni, consisteva nell’«intercettare esigenze culturali e civili di diverso tenore che interessavano le frange dell’opinione pubblica più colta e avvertita […], in primis il desiderio di aggiornarsi su quanto la censura aveva tenuto fuori dalla porta, di cercare risposte alla tragedia che si era appena consumata, di orientarsi nel convulso presente» <2.
Tra le riflessioni più articolate sul significato politico e civile dell’8 settembre e, più in generale, sul modo di essere e di porsi degli italiani rispetto al fascismo, si colloca L’Italia rinunzia? di Corrado Alvaro, pamphlet che coniuga considerazioni di tipo storico a giudizi psicoantropologici sull’identità nazionale. Nell’opuscolo, dato alle stampe nel 1945, lo scrittore calabrese accusa gli italiani di ingenuità e passività e sostiene che il fascismo sia riuscito ad affermarsi grazie al consenso attivo e alla complice acquiescenza della classe piccolo-medio borghese, composta perlopiù da «villani rifatti» ostili ai ceti popolari e servili verso i potenti.
Il risultato dell’analisi è amaro e disilluso, e Alvaro appare in fondo convinto che la crisi innescata dal fascismo non possa risolversi né in un esercizio di autocritica né nella nascita di una coscienza civile più autentica, e che gli italiani siano destinati a riorganizzarsi all’insegna del conformismo morale e del quietismo politico: «qui, da secoli, gli errori si sono accumulati agli errori, la rovina alla rovina. Né il Risorgimento né il fascismo né la caduta del fascismo avevano mai tolto di mezzo le rovine crollanti dei nostri mali, ma le hanno puntellate e conservate, elevate quasi a singolare carattere» <3. In definitiva, Alvaro sembra ammettere un’inguaribile refrattarietà degli italiani al mutamento, isolando una caratteristica nazionale in una certa misura confrontabile con le numerose riflessioni di Savinio attorno al concetto di «immortalità» degli italiani che, come le salamandre, disporrebbero della capacità di resistere immuni al fuoco/colpi della storia.
Parallelamente ad Alvaro, nel 1945 anche Alberto Moravia ragiona sullo stesso tema, parlando piuttosto di una «impermeabilità» degli italiani «distribuita egualmente in tutte le categorie o classi o gruppi della popolazione», nonché generata da un retaggio cattolico «tramandato da una pigra fedeltà sentimentale […] a cui nessuno crede e che tuttavia nessuno ha il coraggio di distruggere». Al pari di Alvaro, anche l’autore degli Indifferenti non pensa che la sconfitta del fascismo possa garantire agli italiani un futuro migliore: «l’impermeabilità degli italiani sino a ieri si chiamò fascismo. La cui originalità fu appunto quella di vantare come qualità i difetti e le manchevolezze della nazione […] Al fascismo, questa siccità sterile e africana, ha seguito un diluvio. Ma il duro suolo italiano rifiuta di imbeversene» <4.
Accanto alle meditazioni di esito drammaticamente scettico proposte da Alvaro e Moravia si collocano alcune prove caratterizzate da una marcata impronta satirica e grottesca, quali, ad esempio, la Storia degli Italieschi dalle origini ai giorni nostri, di Giorgio Fenoaltea, e Tre imperi… mancati. Cronaca 1922-1945, di Aldo Palazzeschi.
Il saggio di Fenoaltea, volutamente antistorico e provocatorio, ripercorre la storia del popolo italiano dai Longobardi al fascismo, e immagina che in Italia si siano da sempre alternate due fazioni opposte e insieme connesse: quella degli Italieschi, corrotti, opportunisti e vili, e quella degli Italiani, moralmente retti e dotati di senso civile. Per quanto le vicende delle due fazioni vengano sempre considerate dall’autore in maniera allegorica, come in una sorta di dualismo immobile non soggetto a mutamenti, il saggio di Fenoaltea, al pari delle riflessioni di Alvaro e Moravia, intende richiamare gli italiani alla responsabilità avuta nella tragedia provocata dal fascismo, invece di sbarazzarsene scaricando tutte le responsabilità su Mussolini.
Libro-cronaca e, al contempo, libro-denuncia, è invece Tre imperi… mancati di Palazzeschi, apparso a Firenze per Vallecchi nel novembre 1945 <5. L’autore vi ricostruisce la storia del fascismo dalle origini alla caduta con uno stile farsesco e caricaturale, attraverso una satira beffarda e cinica: «nulla è concesso all’invenzione, ma è la stessa realtà che assume toni, contorni, fattezze, straordinari, tanto da risultare imbellettata, trasformata in materia posticcia […] Invece si inaugura davvero un brutto melodramma di storia nazionale e internazionale» <6.
Con sottile e caustica analisi, in questo libro che Franco Contorbia ha definito «una delle più singolari, e lucide, interpretazioni del fascismo tentate da un homme de lettres italiano» <7, la responsabilità dell’esito tragico della dittatura viene attribuita al ruolo svolto da colui che Palazzeschi definisce «l’italiano medio», il quale:
“Sa di avere una lunghissima storia dietro le spalle e ne fa pompa quasi per scaricarsene, si guarderebbe bene dall’andarci a frugare: è troppo lunga […] Libertà, indipendenza, gli piacciono come parole il cui significato non si è mai curato di approfondire, nomi bellissimi a cui dedicare grandi strade o piazze […] La famiglia gli va bene e appena può prende moglie; la posizione di tirannello in quel piccolo cerchio, lo mantiene purgato e in equilibrio e lo ripaga, forse inconsciamente, della mancata indipendenza in una cerchia superiore […] E i figlioli soggiacciono di buon grado alla domestica tirannia perché già sanno che loro faranno lo stesso, e ciò dà loro piacere […] Ama lo spettacolo di qualunque genere, la teatralità, né dà troppa importanza a quello che lo spettacolo voglia o possa rappresentare” <8.
Adottando una prospettiva simile a quella indicata da Fenoaltea, anche lo scrittore toscano riflette sul tema dell’identità nazionale e sul carattere degli italiani, considerati privi di etica, di senno, di coscienza civile:
“Giorno per giorno gli [a Mussolini] abbiamo dato quelle mani e quella voce, quegli occhi e quelle mandibole: il «Duce» è una creazione nostra, è carne della nostra carne, è sangue del nostro sangue, lo abbiamo creato in un’ora di vanità, di assenza, di esaltazione; guardatevi bene in questa immagine come dentro ad uno specchio altrimenti non costruirete la nuova civiltà ma una nuova immagine vana e folle, la mistificazione di una civiltà. E preparerete una nuova rovina altrettanto grande e definitiva, forse” <9.
L’«italiano medio» di Palazzeschi appare dunque dominato e condizionato da un’esigenza psicologica totalizzante e antidemocratica, che si traduce nella creazione di un’ologrammatica proiezione narcisistica (il Duce) all’ombra del quale rifugiarsi in una contraddittoria ora di «assenza» e di «esaltazione». In questo senso, la situazione descritta da Palazzeschi trova una corrispondenza nella condizione di «orfanismo» descritta da Savinio in Fine dei modelli <10:
“L’uomo, l’uomo comune vive tranquillo, più sicuro, più fiducioso sotto il monoteismo e i suoi derivati, ossia sotto la monarchia e, purtroppo, sotto la dittatura. Quale altra ragione dare al successo che presso tanti uomini ha la dittatura, e alla nostalgia che la dittatura lascia in tanti uomini, e alla speranza che tanti uomini vivono di nuove dittature? Tocca il giusto la dittatura quando dice: «Guardate le democrazie, il loro disordine, il loro stato di disfacimento…». Perché la dittatura, o stato totalitario come si dice oggi, si vanta di tenere in vita gli augusti modelli e una condizione ottima; mentre la democrazia, tutta orizzontale, tutta scorrente, tutta libera, vive naturale e indipendente da ogni imposto esempio di modelli “<11.
«Italiano medio» e «uomo comune» sono dunque le vittime designate – facili da sedurre, facili da «riempire», facili da «radiocomandare» – di un piglio volitivo, energico e ammaliante che promette ordine, energia e stabilità a chi non è in grado di «autogovernarsi». Ecco dunque che «l’uomo comune», bisognoso di puntelli e riferimenti esterni, è, in un certo senso, l’esatto opposto dell’Ermafrodito, sereno, controllato e autosufficiente, che dorme sul divano nel cuore dell’Europa.
Savinio stesso – al pari di tutti gli intellettuali citati – è consapevole delle difficoltà che incontra chi decida di intraprendere il cammino democratico verso la condizione, allo stesso tempo democratica e autarchica, dell’Ermafrodito. Per questo, prima ancora che analisi storiche e antropologiche, i testi di Alvaro, Moravia, Fenoaltea, Palazzeschi e Savinio sono inviti all’(auto)esame di coscienza, nonché alla valutazione di quanta parte le «necessità» dell’«uomo comune» occupino e abbiano occupato nell’esistenza di ciascuno.
[…] L’interpretazione di sapore psicanalitico, l’ammissione dello stato di paranoia che il regime era stato in grado di provocare nel singolo individuo (anche quello apparentemente più «corazzato», come l’artista), nonché l’esortazione all’introspezione e all’autoanalisi avvicinano le riflessioni di Savinio agli spietati giudizi sul fascismo («la ventennale maialata») che in quegli stessi anni andava formulando Carlo Emilio Gadda, impegnato nella composizione di Eros e Priapo.
Il testo, la cui genesi fu complessa e tormentata, uscì nel 1967 per Garzanti, ma Gadda lo scrisse tra il 1944 e il 1945 <13. Si tratta di un atto di (auto)denuncia che interpreta il rapporto tra il popolo italiano e Mussolini utilizzando come chiave di decifrazione la psicanalisi e indagando i meccanismi che regolano le dinamiche collettive in un sistema totalitario.
Secondo Gadda, tra il popolo e il capo esisterebbe una tensione sessuale che agisce a livello inconscio e che conduce le masse a investire emotivamente sul leader identificandolo con un totem erotico. Se ne deduce che «l’io collettivo è guidato ad autodeterminarsi e ad esprimersi molto più dagli “istinti”, cioè in definitiva da Eros, che non da ragione o da ragionata conoscenza» <14. Con Eros e Priapo Gadda intende mettere a nudo questi meccanismi, dimostrando ai lettori che «una lubido, una foja ha gestito l’Italia durante il catastrofico ventennio, non una ratio, una coscienza etica, uno spirito religioso». Le finalità che lo scrittore si propone sono eminentemente morali e civili: «il male deve essere noto e notificato» <15 perché, proprio in quanto determinato da impulsi comuni e soprastorici, come l’impulso sessuale, potrebbe facilmente ripetersi.
In particolare, in Erotia narcissica o autoerotia Gadda si sofferma sulla tendenza del «giovine» ad innamorarsi di un «modello esterno» dello stesso sesso, non necessariamente positivo, nel quale identificarsi e sul quale proiettare il proprio istinto (omo)sessuale. In questo delicato momento della formazione e della crescita dell’individuo, chiunque «si autopromuova a istitutore della società» dovrebbe offrire al giovane dei modelli positivi, che li conduca «a Dante, e non al coltello» e che promuova nell’individuo una «disciplina formativa».
Ebbene, il fascismo avrebbe sfruttato proprio questo meccanismo, intervenendo nella fase della «scelta del modello», «per il turpe fine dell’assicurar vittuvaglia e prepotere alla impiantata camorra»: «Guai […] a chi coscientemente si avvale d’una inesperimentata debilità de’ ragazzi da insufflare nelle loro anime il germe della grandiloquenza assassina, lo spirito della prevaricazione spavalda e applaudita, il ventoso coraggio dei mille contr’uno: il coraggio delle squadracce» <16.
In una sorprendente convergenza di temi e motivi, nello stesso giro d’anni in cui Gadda ragiona sull’erotismo che pervade i rapporti tra la massa e il suo capo, anche Savinio (che certo non poteva conoscere il testo di Eros e Priapo) sembra pervenire all’incirca alle stesse conclusioni, interpretando l’intero fenomeno nazifascista come un immane tentativo omoerotico di assomigliare al Duce o a Hitler, uguagliandone tanto la potenza quanto l’aspetto fisico. Si leggano a questo proposito le voci Hitler e Travestimento di Nuova enciclopedia <17:
“Hitler: Mi ricordai che io stesso, molti anni prima, avevo proposto la fondazione di una lega i cui soci si dovevano impegnare a onorare Mussolini e a non pronunciare mai il suo nome. Se più uomini avessero la volontà, la costanza e soprattutto la «preoccupazione igienica» di rispettare il patto di una simile lega, l’ascensione di uomini come Mussolini e Hitler diverrebbe altrettanto vana, quanto quella di un pallone dentro uno spazio privo d’aria. Per quale ragione il rispetto generale di simili patti non è possibile? Perché uomini come Hitler e Mussolini rappresentano, esprimono, attuano le idee, i desideri, le ambizioni della massima parte degli uomini, che sono idee di gloria militare, desideri di dominazione, ambizioni di conquista. Perché stupire e dolersi dei risultati che dà il potere di un Mussolini e di un Hitler, quando gli uomini, tutti gli uomini sono educati a quelle medesime idee di «grandezza» di cui Hitler e Mussolini sono la naturale e precisa espressione? Si tratta di capovolgere il giudizio che sorregge questi «tipi»: si tratta di abolire le idee che rendono nonché possibili, ma ardentemente desiderati uomini come Hitler e Mussolini. Si tratta insomma di un radicale mutamento del concetto di grandezza. Del che non si vede segno neppur nel cuore del disastro in cui la «grandezza» di questi tipi ci ha precipitati. C’è il pericolo invece che per sanare i danni degli Hitler e dei Mussolini, siano creati nuovi Hitler e nuovi Mussolini. Ma questo pericolo chi lo avverte?
Travestimento: Sotto il fascismo, alcuni fanatici si radevano completamente la faccia e il cranio, a fine di «immussolinirsi» e acquistare per effetto di imitazione le virtù del dittatore. A questo proposito, e considerando il fascismo come un colossale e collettivo fenomeno di omosessualità (quale infatti è la dittatura) nel quale il dittatore rappresentava l’elemento attivo e il popolo l’elemento passivo, aggiungo che Mussolini, radendosi la faccia e il cranio, era riuscito, non so se consapevolmente o inconsapevolmente, a sembrare un colossale membro virile”.
La filigrana dei testi lascia emergere ancora una volta, seppur criptato, il tema dell’estetismo, da Savinio già affrontato in relazione al fascismo e alla dittatura: l’attrazione verso «superuomini» (i potenziali «modelli esterni» indicati da Gadda) come Hitler e Mussolini è infatti dettata dal desiderio di «essere quello che non si è»; inoltre, tale desiderio collettivo è avallato da un sistema educativo deviato e pericoloso, che invita il singolo individuo all’imitazione sconsiderata di una grandezza fittizia. Savinio propone pertanto un radicale mutamento pedagogico basato sulla demitizzazione dei «tipi» grandiosi e, come Gadda, avverte la necessità di una riflessione generale sulla psicologia delle masse perché il meccanismo dell’emulazione non si ripeta.
Appartiene al medesimo gruppo di queste voci anche un manoscritto saviniano di ventidue carte, non datato e del tutto inedito, conservato nel Fondo Savinio e intitolato Colloquio Mussolini-Gentile <18. Nel testo, Savinio/Nivasio Dolcemare descrive un incontro tra Mussolini e Gentile avvenuto nel dicembre 1943 a Villa Feltrinelli, sul Lago di Garda, in occasione dell’assurda – viste le circostanze – nomina del filosofo a presidente dell’Accademia d’Italia.
Mussolini è descritto in tutta la sua tragica disfatta, nell’ingenua convinzione di avere ancora la vittoria in pugno. Date le circostanze disperate, Nivasio Dolcemare si domanda perché, malgrado i ripetuti esempi offerti dalla storia, gli uomini non abbiano ancora imparato a trarre i debiti insegnamenti dall’esperienza e si ostinino – nonostante i manifesti esiti catastrofici della dittatura – ad accogliere e ad acclamare l’imperatore/il dittatore, riconoscendo in lui un modello positivo di emulazione. Solo chi è consapevole degli insegnamenti della storia e opera secondo saggezza sa che l’imperatore (Savinio allude a Napoleone), il Führer e il Duce andrebbero presi, rivestiti di una solida camicia di forza e rinchiusi in una stanza priva di luce, con pareti imbottite e sbarre alle finestre. In clausola al testo, però, Nivasio Dolcemare è colto da un dubbio: è soltanto la mancanza di esperienza storica che consente a questi pericolosi personaggi di tornare a fiorire di tanto in tanto? Il popolo, in fondo, ama «i criminali e gli istrioni», nient’altro: pertanto, periodicamente, elegge a proprio rappresentante chi sembra soddisfare il suo desiderio di potenza, grandezza e predominio. La conclusione è quindi amara e cinica, e Savinio sembra attestarsi su convinzioni scettiche e poco costruttive: l’uomo ha costantemente bisogno di vivere all’ombra della confortevole cupola tolemaica, e il paradigma dell’historia magistra vitae cade al cospetto dell’istinto, della pigrizia e della dissennata tendenza a delegare a terzi la conduzione della propria esistenza, tipici del «villan rifatto», dell’«italiano medio» e dell’«uomo comune».
Il motivo saviniano della scelta di un «modello esterno» negativo sul quale proiettare i propri desideri e aspirazioni ci permette di compiere un’altra incursione in territorio gaddiano, svelando un ulteriore parallelismo tra gli esiti del ragionamento dei due intellettuali.
[…] La contiguità dei temi gaddiani con gli scritti saviniani degli anni 1943-1946 (da Sorte dell’Europa a Fine dei modelli) è evidente (la necessità di demitizzare/incenerire il paradigma, il comune appello alla saggezza e all’intelligenza), né può sfuggire la simmetria che è possibile stabilire tra l’Ermes Macchinatore di Gadda e l’Ermafrodito dormiente di Savinio.
Entrambi i simboli, emersi in seguito a un sofferto processo di autocritica, rappresentano la «consapevolezza copernicana» cui ogni individuo, distrutto con la ragione e l’intelligenza ogni mito/modello tolemaico imposto dall’esterno, dovrebbe aspirare per costruire la propria esistenza in funzione dell’etica e non del basso istinto.
Laddove Gadda, nel 1944, invita l’uomo a fare «un impiego della propria vita che non contrasti ai modi associativi della umanità» e a compiere «un atto di coscienza con che nu’ dobbiamo riscattarci» <23, Savinio, nel 1945, scrive la celebre Prefazione a Tutta la vita, che traduce sul piano della letteratura le premesse teoriche affrontate negli scritti politici, antropologici e sociopsicologici della fase 1943-1945.
Com’è noto, nella Prefazione Savinio offre la più compiuta (e più largamente citata) definizione della sua poetica surrealista: «nel surrealismo mio si cela una volontà formativa e, perché non dirlo? una specie di apostolico fine. Quanto alla “poesia” del mio surrealismo, essa non è gratuita né fine a se stessa, ma a suo modo è una poesia “civica”, per quanto operante in un civismo più alto e più vasto, ossia in un supercivismo» <24.
Così come i testi saviniani di dichiarato impegno politico e sociale scaturiscono da un’intensa meditazione sugli avvenimenti e sui mutamenti intervenuti in Italia nella transizione dal fascismo al post-fascismo, anche la produzione letteraria successiva al crollo del regime risente di una nuova e più impegnativa spinta etica, che inscrive il «surrealismo civico» e il «supercivismo» in un preciso contesto storico. L’«apostolico fine» che Savinio si prefigge, dunque, nasce anche come risposta costruttiva al disastro civile e culturale del paese, e investe di una nuova luce i testi che, non a caso, lo scrittore definisce «i racconti più singolari e profondi che siano stati scritti in lingua italiana, e non solamente in questa lingua» <25.
[…] Da qui, prosegue Zunino, nonostante il giudizio di Savinio non sia per niente compiacente nei confronti dell’Italia fascista ma sia piuttosto intriso di «irridente pessimismo a sfondo psicanalitico», l’impossibilità di una ricostruzione che tenesse conto dei nodi politici e sociali da cui era scaturito il fascismo: «anche Savinio, insomma, dava fiato alle trombe del “partito dei senza partito”, che erano poi le foltissime truppe di coloro che per vent’anni un partito a cui riconoscersi, più di buon grado che di cattivo, l’avevano ben avuto» <27.
Una così estrema valutazione della riflessione di Savinio intorno al fascismo sembrerebbe avallare la prospettiva indicata da Raffaele Liucci nel suo saggio dedicato agli intellettuali nella seconda guerra mondiale, Spettatori di un naufragio. Nel valutare l’impegno etico e politico degli uomini di cultura nella fase 1943-1945, Liucci isola una cosiddetta «zona grigia», ovvero un «territorio fluido e stratificato che si restringeva e allargava a seconda delle circostanze e che includeva al proprio interno una varietà di posizioni» (intermedie tra i resistenti e i militi di Salò):
“L’Italia della «zona grigia», che nel Ventennio aveva aderito al regime, e durante la Resistenza era stata alla finestra, nel dopoguerra – pur senza nutrire sentimenti apertamente nostalgici – coltiverà una «memoria indulgente» […] La violenza squadristica, i tribunali speciali, i gas in Etiopia, le leggi «razziali», l’alleanza con Hitler, le atrocità commesse durante l’occupazione della Jugoslavia. Tutto cancellato […] a favore di una vulgata melliflua e familiare del duce, a tratti farsesca, comunque inoffensiva. La seconda guerra mondiale smarriva così le sue coordinate temporali, risucchiata in buco nero della memoria” <28.
[…] Come questo lavoro ha cercato di metter in luce, l’antifascismo di Savinio ha radici più meditate e raffinate di una frettolosa mano di vernice («il colpo di spugna» dei senza partito), né sarebbe corretto ascrivere la prospettiva astorica, psicanalitica e decontestualizzante con cui l’artista valuta il fascismo e la seconda guerra mondiale a una pura superficialità di comodo.
Infatti, come si è visto in svariate occasioni nel corso di questo studio, la «tecnica del riflettore», frequentemente adottata da Savinio per valutare il contesto sociopolitico di riferimento, offre solo in apparenza un quadro sommario della situazione analizzata. Si tratta piuttosto di una semplificazione «didattica», con cui lo scrittore isola, tanto per sé stesso quanto per gli altri, categorie di pensiero (estetismo, anfionismo, surrealismo ecc.) e macro eventi significativi per capire la realtà in divenire.
D’altra parte, Savinio non è né un politico, né uno storico né un sociologo: è un artista a tutto tondo, una «centrale creativa» (come lui stesso amava definirsi) che, negli anni disperati della guerra civile, ha pervicacemente opposto una personalissima forma di resistenza culturale alla violenza, all’ignoranza, ai fascismi. Ne sono prova non solo l’impegno profuso nei pamphlet dedicati all’Europa e all’Italia e la pubblicazione di opere come Tutta la vita, ma anche, seppur in misura minore, la partecipazione di Savinio alla rivista «Mercurio», «Mensile di politica, arte e scienze» diretto da Alba de Céspedes e apparso per la prima volta a Roma il 1° settembre 1944 <29.
Nel folto gruppo di giornali e periodici d’informazione e cultura pubblicati nell’Italia meridionale e centrale liberata dagli Alleati, «Mercurio» è sicuramente il più notevole per la qualità e il prestigio dei collaboratori. Nel dicembre 1944, Savinio partecipa al fascicolo monografico che la rivista dedica alla «Resistenza al Sud» (ma che, in realtà, si concentra in prevalenza sui nove mesi dell’occupazione tedesca di Roma): settantasei firme per trecentoventi pagine, destinate a testimoniare il rinnovato rapporto degli italiani con la libertà e la ripresa del sentimento nazionale.
[…] Nel dicembre 1946 Savinio collabora al terzo (e ultimo) numero monografico speciale di «Mercurio», Processo al ‘46, dedicato agli eventi della storia italiana dalla caduta della monarchia alla nascita della Repubblica. Complessivamente, la successione degli interventi (settantacinque) compone una sorta di diario politico/sociale collettivo incentrato sugli avvenimenti chiave del 1946, dal referendum del 2 giugno alle sedute della Costituente, dalla Conferenza di Parigi ai principali eventi di cronaca; alcuni scrittori, però, preferirono proporre ad Alba de Céspedes un proprio personale bilancio dell’anno trascorso. Fra questi, Savinio realizzò un articolo, mai più ripubblicato, destinato a fungere da sintesi e corollario non solo dell’anno 1946, ma anche dell’intera transizione dal fascismo al postfascismo che si è cercato di descrivere negli ultimi tre capitoli di questo lavoro […]
[NOTE]
1 Tra questi ricordiamo: Giorgio Fenoaltea, Sei tesi sulla guerra con note per fascisti onesti, Firenze, Barbèra, 1944 e Storia degli italieschi dalle origini ai giorni nostri, Firenze, Barbèra, 1945; Corrado Alvaro, L’Italia rinunzia?, Milano-Firenze-Roma, Bompiani, 1945, poi Palermo, Sellerio, 1986 e L’Italia rinunzia? 1944. Il meridione e il paese di fronte alla grande catastrofe, introduzione di Mario Isnenghi, Roma, Donzelli, 2011 (con L’Italia rinunzia? Bompiani inaugurò la collezione di saggi «Tra le due guerre», cui fece seguito Sorte dell’Europa di Savinio); Alberto Savinio, Sorte dell’Europa, Milano-Firenze-Roma, Bompiani, 1945, poi Sorte dell’Europa, Milano, Adelphi, 1977; Fabio Cusin, L’Italiano. realtà e illusioni, Roma, Atlantica 1945, poi Roma, RAM Multimedia a cura di Giovanni Aliberti; Aldo Palazzeschi, Tre imperi… mancati. Cronaca 1922-1945, Firenze, Vallecchi, 1945, poi Tre imperi…mancati. Cronaca 1922-1945, a cura di Gino Tellini, Milano, Mondadori, 2016; Paolo Monelli, Roma 1943, Roma, Migliaresi, 1945, poi Roma 1943, con una nuova prefazione di Lucio Villari, Torino, Einaudi, 2012; Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo. Versione originale, a cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti, Milano, Adelphi, 2016. Sull’argomento si rimanda a Giovanni Aliberti, La resa di Cavour. Il carattere nazionale tra mito e cronaca, 1820-1876, Firenze, Le Monnier, 2000.
2 Irene Piazzoni, Per una nuova cultura politica: le iniziative editoriali tra 1943 e 1946, in 1945. La transizione del dopoguerra, a cura di Guido Formigoni e Daniela Saresella, Roma, Viella, 2017, pp. 209-227.
3 Corrado Alvaro, L’Italia rinunzia?, cit., p. 65.
4 Alberto Moravia, L’impermeabilità degli italiani, in «Mercurio», II, 15, novembre 1945, pp. 23-26. L’intervento non è mai stato ripubblicato. Sull’attività intellettuale di Moravia nel dopoguerra si veda Marcello Ciocchetti, Percorsi paralleli. Moravia e Piovene tra giornali e riviste del dopoguerra, Pesaro, Metauro, 2010.
5 Il libro di Palazzeschi è suddiviso in quarantotto paragrafi, cinque dei quali, sotto il titolo Cronache del passato regime, erano apparsi sulla «Nuova Europa» di Luigi Salvatorelli nel dicembre 1944. Per approfondimenti si rimanda a Franco Contorbia, Su Palazzeschi “politico”, in L’opera di Aldo Palazzeschi, Atti del convegno internazionale (Firenze, 22-24 febbraio 2001), Firenze, Olschki, 2002, pp. 177-205, e all’Introduzione di Gino Tellini all’edizione del 2016.
6 Gino Tellini, Introduzione a Tre imperi… mancati, cit., p. VIII.
7 Franco Contorbia, Su Palazzeschi “politico”, cit. p. 192.
8 Aldo Palazzechi, Tre imperi… mancati, cit., pp. 47-48.
9 Ivi, p. 210.
10 Tellini stesso, nell’Introduzione a Tre imperi…mancati, riconosce un’aria di famiglia tra i due tipi: «Non è un caso se in Tre imperi…mancati l’autore tira in ballo a più riprese, come sappiamo, proprio “l’italiano medio”, che è fratello gemello dell’uomo comune saviniano, amante delle dittature» (p. XI).
11 Alberto Savinio, Fine dei modelli, cit., p. 552.
13 Per le complesse vicende interne relative alla composizione ed edizione del testo gaddiano si rimanda alla ricca nota al testo curata da Paola Italia e Giorgio Pinotti in Eros e Priapo. Versione originale, Milano, Adelphi, 2016.
14 Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo, cit., p. 30.
15 Ivi, p. 39.
16 Ivi, pp. 156-157.
17 Alberto Savinio, Hitler, in Nuova enciclopedia, cit., pp. 219-221 (non è stato possibile identificare la prima stampa) e Travestimento, in Nuova enciclopedia, cit., pp. 375-381. Travestimento era stata parzialmente anticipata sulla «Stampa» il 24 aprile 1942. Il paragrafo citato, l’ultimo, è ovviamente posteriore al 1943 (non è stato possibile identificare la prima stampa).
18 IT ACGV AS. II. 53.67. Il manoscritto, che non è datato, con ogni probabilità è tuttavia ascrivibile alla fase 1944-1946. Savinio racconta di aver avuto notizia del colloquio dall’amico Luigi Volpicelli, che a sua volta lo aveva appreso dal Ministro dell’Educazione Nazionale Edoardo Scardamaglia, il quale aveva accompagnato Gentile in macchina da Firenze a Villa Feltrinelli.
23 Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo, cit., p. 13.
24 Alberto Savinio, Prefazione a Tutta la vita, ora in Casa «la Vita» e altri racconti, cit., pp. 555-556. Tutta la vita porta la data di edizione 1945, ma apparve nel giugno 1946. Come si evince dalle lettere di Savinio a Bompiani riprodotte da Paola Italia nell’edizione Adelphi di Tutta la vita del 2011, la prefazione venne iniziata nel 1944 e ultimata nel 1945.
25 Alberto Savinio, Prefazione a Tutta la vita, cit., p. 556.
27 Pier Giorgio Zunino, La Repubblica e il suo passato. Il fascismo dopo il fascismo, il comunismo, la democrazia. Le origini dell’Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, pp. 526-527.
28 Raffaele Liucci, Spettatori di un naufragio. Gli intellettuali italiani nella seconda guerra mondiale, Torino, Einaudi, 2011, pp. 192-193. Ma si veda anche, dello stesso autore, La tentazione della «Casa in collina». Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana (1943-1945), Milano, Unicopli, 1999.
29 Su «Mercurio» e Alba de Céspedes si vedano: Alba de Céspedes, a cura di Marina Zancan, Milano, Il Saggiatore/Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2005 e Laura Di Nicola, «Mercurio». Storia di una rivista 1944-1948, Milano, Il Saggiatore/Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, 2012.
Lucilla Lijoi, Il sognatore sveglio – Alberto Savinio 1933-1943, Tesi di dottorato, Università degli Studi di Genova, 2019