Cenni sugli oppositori di Rovereto (TN) al regime fascista

Rovereto (TN) – Fonte: Mapio.net

Riassunto – Alla profonda crisi della città tra le due guerre corrispose una sua evidente debolezza politica. Il partito fascista fu a Rovereto ancor più diviso che nel resto del Trentino. Il compromesso tra vecchi e nuovi gruppi dirigenti (riassunto nella figura del sindaco liberale e podestà fascista Defrancesco) si infranse alla fine degli anni Venti, lasciando campo libero ad una politica di gregario adeguamento al conformismo di regime. Il saggio si occupa, nella seconda parte, di quanti rimasero estranei a questo conformismo: avversari del fascismo per scelta politica, o semplicemente refrattari ad una disciplina che pretendeva di estendersi ad ogni livello sociale ed espressivo. Sovversivi veri o presunti conobbero carcere, confino, emigrazione politica. Dai frammenti di storie che emergono dalla documentazione ufficiale l’autore propone di prendere lo spunto per una rete di vere e proprie biografie, che renda conto compiutamente dello spessore e dei limiti del loro antagonismo e che restituisca piena dignità alle loro esperienze.
[…] Alcuni tentativi di rimettere in piedi un’organizzazione politica antifascista, subito stroncati dalla repressione, si devono all’iniziativa dei comunisti. Si legge in una relazione del Prefetto, del settembre 1925:
“Partito Comunista: Non dà quasi più segno di vita nel capololuogo; qualche attività di propaganda sembrava volesse spiegare nel circondario di Rovereto, ma, prevenuta in tempo, con operazioni di polizia su larga scala, è stato anche colà stroncata ogni velleità di rinascita. Hanno certamente concorso a diradare le fila del partito, i trasferimenti di numerosi ferrovieri, la quasi scomparsa della disoccupazione, l’ottima stagione agricola, coefficienti tutti che hanno frustrata l’opera dei propagandisti” (36).
Nell’ottobre del 1926 un’operazione di polizia portò all’arresto di 27 «esponenti fiduciari» del partito in Trentino. Dalle carte sequestrate nel corso dell’operazione sappiamo che il Partito comunista contava allora nel roveretano una trentina di militanti (37). Tra gli arrestati (in buona parte del Basso Sarca), anche lo straccivendolo Silvio Baldessarini, di Villa Lagarina, Giuseppe Perghem di Nomi, che abbiamo già incontrato in queste pagine come Presidente dell’Unione Agricoltori del suo paese, Romano Tovazzi, contadino di Volano, Giacomo Dusatti, un commerciante di Nago domiciliato a Rovereto. Furono tra i primi a sperimentare il nuovo complesso sistema repressivo messo in piedi dal fascismo divenuto ormai regime: assolti dal Tribunale di Trento, perché accusati di attività politiche ancora legittime al tempo dei fatti loro imputati; inviati però in parte al confino di polizia nell’isola di Ustica; di nuovo arrestati e sottoposti, per gli stessi fatti, al giudizio del Tribunale Speciale (istituito con la legge del 25 novembre 1926 «per la difesa dello Stato»). Ci furono due distinti procedimenti nei confronti dei comunisti trentini, ambedue chiusisi nel 1928, con sentenze assolutorie per il reato più grave (cospirazione) e con qualche condanna a pene relativamente blande per la diffusione di stampa clandestina. Ma questo non impedì che una parte degli imputati scontasse lunghi periodi di carcere preventivo e di confino (38). Gli elenchi delle persone coinvolte in questa fase forniscono l’immagine di una base sociale rigorosamente proletaria.
Per qualche anno, a giudicare dalla documentazione finora reperita, l’iniziativa non fu più ripresa, perlomeno fino all’acutizzazione della crisi dell’economia locale, che ebbe il suo anno nero nel 1933, con il fallimento della Banca Mutua Popolare, le drammatiche difficoltà degli altri istituti di credito, i licenziamenti che ne conseguirono. In queste circostanze (il 14 marzo di quell’anno) furono diffusi a Rovereto volantini di protesta di chiaro tenore antifascista, con riferimenti ideali vistosamente disparati.
[…] Nel 1935 prese vita un’iniziativa politica più decisa e insieme più articolata, anche in corrispondenza alle nuove strategie nazionali ed internazionali dei comunisti. In essa ebbe un ruolo rilevante Remo Costa, amministratore dell’antica azienda famigliare, duramente coinvolta nella crisi del 1933. Irredentista e volontario di guerra, repubblicano negli anni ’20, si era avvicinato alle idee marxiste. In carenza, per ora, di un profilo biografico vero e proprio e di sicuri riscontri documentali, non sapremmo indicare con precisione le tappe di questo processo, né se esso fosse già concluso nel 1935 con un’adesione formale al Partito Comunista. A conferma del carattere composito, dal punto di vista politico e sociale, del movimento in formazione, troviamo con lui il trentino Guido Pincheri, socialista, e – in un ruolo più defilato – Umberto Sannicolò, capo del personale presso la Montecatini di Mori. In un intreccio di relazioni spesso problematiche e conflittuali, partecipava agli incontri e al laborioso processo organizzativo un consistente gruppo di lavoratori, tra cui alcuni che avevano già conosciuto di persona la persecuzione fascista e che non ne erano stati scoraggiati, evidentemente, dal battersi per le proprie convinzioni. Quello che sappiamo delle loro intenzioni e delle loro attività proviene dalle carte di polizia, una fonte che richiede mille precauzioni e verifiche. Ne esce, comunque, l’immagine di una rete di relazioni fragile, intaccata in partenza da diffidenze personali e aspre divergenze. Emerge dai documenti la diffusa contrarietà di una parte dei vecchi comunisti alla leadership di Costa. Non è facile capire fino a che punto vi influisse un dissenso politico (per un diverso modo di intendere il «fronte» con i non comunisti, nel caso di alcuni, per contrapposizione anarchica al rigore dottorale di Costa, nel caso di altri) o piuttosto una chiusura sociale populistica nei confronti dell’intellettuale borghese. Comunque sia, queste difficoltà risultarono evidenti anche in occasione dell’episodio culminante di questa rifondazione organizzativa, la riunione avvenuta nel «bosco della città», sulla collina ad est di Rovereto, nel settembre 1935, presenti poco più di una decina di persone. Vi si parlò dell’imminente guerra d’Africa e di come promuovere contro di essa un’efficace propaganda. Per quanto riguarda le questioni organizzative, vi fu la nomina di un «direttorio» (a valenza provinciale), composto da Pincheri e da due coraggiosi militanti storici del partito comunista trentino, il fornaio Pedrolli e il muratore Sandri. Il compito di fiduciario per Rovereto venne affidato al tipografo Enrico Andreatta, mentre Costa, osteggiato apertamente da alcuni, non ebbe incarichi formali. Nell’anno e mezzo che separa la fase costitutiva dagli arresti del maggio 1937, proseguì la difficile tessitura delle relazioni personali e politiche e si realizzò qualche iniziativa rivolta all’esterno, sicuramente enfatizzata dalla relazione inviata il 31 luglio dal Prefetto di Trento al Ministero degli Interni. Nell’ampio documento (64 pagine dattiloscritte) si espongono i risultati dell’indagine, sulla base degli interrogatori dei trenta arrestati e degli altri elementi raccolti.
Ne riportiamo per intero la conclusione. Se in queste pagine ci riesce difficile far emergere con nettezza la voce degli oppositori del fascismo, possiamo almeno fornire qualche saggio di come se li rappresentavano i loro avversari e persecutori.
“Riepilogando, alla data d’oggi, le indagini condotte in perfetta intesa e collaborazione dalla Questura e dall’Arma hanno stabilito che in questa provincia – dall’autunno 1935, durante tutto il 1936 e fino alla primavera del 1937 – mentre la nazione era impegnata in duplice guerra militare ed economica, tesa in uno sforzo di mirabile resistenza dovuta alla fusione di animi che Governo e partito rafforzavano e aumentavano ogni giorno con opere civili e militari, mentre il popolo esultava per la conquista del suo Impero, e mentre la giovinezza fascista, seguendo la tradizione italica, versava in terra di Spagna nobile sangue in difesa della civiltà, un gruppo di senza patria tentava organizzare contadini ed operai avvelenandone lo spirito colla propaganda sovversiva, con l’esaltare il comunismo, col chiamare a raccolta i peggiori elementi politici e formare un fronte popolare di marca straniera, approfittando di un momentaneo disagio economico per indurli alla rivolta contro il Fascismo del quale si pronosticava imminente la fine, seguito da dittatura militare, durante la quale occorreva che ciascun partito avesse ripreso la propria posizione per il ritorno ai vecchi sistemi. Tal attività non era affatto culturale ma pratica e si è manifestata con contatti fra gli esponenti del sovversivismo della provincia, riunioni in abitazioni, esercizi pubblici ed in altre località della zona che, per essere quella – anzi l’unica – nella quale abbonda l’elemento operaio era considerata, come è, la più sensibile. Attività capeggiata da Costa Remo doppiamente colpevole perché appartenente a quella borghesia industriale cui maggiori doveri incombono verso il Regime in forza del quale è in vita, colpevole perché solo fanatica ambizione può averlo spinto a sfruttare tanti miserabili ed illusi, già politicamente bacati e che, sapendo essere il periodo bellico e quello delle conseguenti crisi, il più adatto alle sollevazioni popolari, lo hanno seguito credendo qualche possibilità secondo le loro idee. Troppo erano rimasti indisturbati, troppo avevano avvelenato questa sana, buona, laboriosa popolazione montanara, orgogliosa della sua italianità, pronta ad obbedire in silenzio fino al sacrificio ma che certo aveva cominciato a risentire dell’opera di costoro: prova ne sono le isolate ma frequenti manifestazioni sovversive di singoli, apparentemente slegate, sintomi invece di una propaganda spicciola, quasi innocua e scherzosa, ma non meno penetrante e pericolosissima. Bisognava stroncarla, bisognava levare dalla circolazione questa gente, bisognava soprattutto riaffermare l’autorità e finirla di parlare di comunismo come se si fosse trattato di una concezione politica tollerata, di un avvenimento possibile al primo episodio bellico meno fortunato per le nostre armi: questo dico perché parlare di comunismo fra questa buona gente stava diventando un motivo ritornante sia pure platonico, ogni qual volta ci fosse stato qualche malumore da confortare, aggravio morale o materiale da sopportare. L’azione dell’autorità – per quanto condotta con la dovuta riservatezza – è stata risaputa, valutata ed apprezzata dalla parte sana della popolazione, ha giovato a sollevare lo spirito e a disingannare quanti sapevano, vedevano l’agire di costoro e ritenevano che vi fosse, quanto meno, della tolleranza. Per tutti – eccetto De Carli Antonio ed Arlanch Luigi, che potranno essere ammoniti – propongo il rinvio alla Commissione provinciale per essere confinati: ritengo inopportuno il loro ritorno a libertà, sia pure vigilata; saranno graduati i provvedimenti secondo la vagliata pericolosità di ciascuno, ma necessita siano allontanati. Resto in attesa di conoscere le determinazioni dell’On/le Ministero” (40).
Le richieste del Prefetto furono esaudite alla lettera. Gli arrestati non furono sottoposti ad un processo il cui esito poteva comportare qualche incertezza, per l’esiguità degli elementi di prova raccolti contro molti di loro, ma condannati a lunghi periodi di confino (4l). Per uno degli arrestati non ci fu bisogno di nuove pene: Mario Springa, giovane contadino di Nomi, fu trovato impiccato e orribilmente insanguinato in cella presso la Questura di Trento, nella notte tra il 21 e il 22 maggio. Nacque da subito l’interrogativo se davvero di un suicidio per disperazione si trattasse, o piuttosto di una messa in scena per mascherare una morte sotto tortura. Il processo celebrato a Trento nel 1947, che vedeva per imputati il commissario di P.S. e due agenti, negò il suicidio ma non individuò i responsabili dell’asserito omicidio, assolvendo i due poliziotti per non aver commesso il fatto ed il commissario per insufficienza di prove. Diego Leoni, che ha dedicato alla vicenda pagine penetranti, commenta così:
“E il tutto si chiude con un’improbabile vittoria della verità: l’omicidio c’è, l’omicida no. Ciò che sta in mezzo a questi due estremi, che quasi si annullano – la responsabilità politica e morale, quella gerarchica, persino la possibilità che qualcuno abbia indotto il giovane di Nomi a procurarsi la morte – sembra non aver valore” (42).
(35) Cfr. G. GEROLA, Alverio Raffaelli. Un uomo, gli altri, uno scrittore, in «Letture trentine e altoatesine», n. 53, 1986, pp. 3-38. Il fascicolo della rivista, a cura di Nives Fedrigotti, è interamente dedicato a Raffaelli.
(36) ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Div. Affari Generali e Riservati, Relazioni Prefetti 1925-1938, b. 220, «Trento», rela zione del Prefetto, Trento 7 settembre 1925.
(37) D. LEONI, Storie di ordinario antifascismo, in Rovereto 1940-45, cit., p. 343.
(38) Leoni, nel testo citato alla nota precedente, ricostruisce la vicenda attraverso i documenti che riguardano Silvio Baldessarini. Notizie e documenti anche in G. PAROLARI, Dall’interventismo al fascismo nel Trentino (1914-1943). Le due sentenze del Tribunale Speciale, la n. 69 del 10 luglio 1928 e la n. 134 del 20 novembre dello stesso anno, sono riassunte in A. DAL PONT, A. LEONETTI, F. MAIELLO, L. ZOCCHI, Aula IV. Tutti i processi del tribunale speciale fascista, Milano 1976, pp. 87 e 114.
(40) ACS, Ministero dell’Interno, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza, Div. Polizia Politica (1927-’44), b. 8, «Trento comunismo», relazione del Prefetto di Trento al Ministero dell’Interno, Trento 31 luglio 1937, oggetto: attività sovversiva in Trento-Riva-Rovereto.
(41) Elenchiamo quelli che rientrano nella delimitazione locale di questo scritto. A Silvio Baldessarini, di Villa, furono assegnati 5 anni; 3 a Giovanni Rossaro, di Pomarolo; 1 a Giuseppe Perghem, di Nomi. Tra i roveretani, 2 anni furono assegnati all’operaio tipografo Mario Schir (poi commutati in ammonizione); 2 a Giovanni Marsilli, manovale, con analoga mitigazione; 5 a Enrico Andreatta, tipografo, come al suo collega di lavoro Lionello Buffato; 5 a Giovanni Calmasini, negoziante; 5 a Remo Costa; 3 a Secondo Boschetti, manovale; 2 al tornitore Michele Roat, che al confino morì; 4 a Pio Omenigrandi, commesso disoccupato; 2 a Mario Dorighelli, pasticcere, che ottenne un proscioglimento condizionale nel dicembre 1937. Ad Agostino Spagnolli, falegname, furono assegnati 3 anni; a Giacomo Dusatti, commerciante, 5. Cfr. G. PAROLARI, Dall’in terventismo all’antifascismo, cit., pp. 173-174, dov’è riportato l’elenco completo.
(42) D. LEONI, Storie di ordinario antifascismo, cit., p. 364.
Fabrizio Rasera, Fascisti ed antifascisti. Appunti per molte storie da scrivere, in (a cura di Mario Allegri), Rovereto in Italia dall’irredentismo agli anni del fascismo (1890-1939), vol. V Tomo I, Accademia Roveretana degli Agiati di Scienze Lettere e Arti, Rovereto 2002, pp. 85-130