Ciò che ha insegnato il breve ciclo dell’autunno-inverno ’44 è che la fabbrica non è sufficiente per sviluppare la lotta partigiana a Milano

La tensione nelle fabbriche giunse al massimo con lo sciopero generale del marzo 1944 che tuttavia, nonostante il clamoroso successo politico della mobilitazione, lasciò nelle masse milanesi amarezza e delusione per il mancato ottenimento di miglioramenti economici e per le deportazioni selettive attuate dai nazisti. Ad acuire lo scoraggiamento si aggiunse inoltre la caduta dell’intera organizzazione gappista che, avvenuta nell’ultima decade del febbraio 1944, privò gli scioperanti dell’attesa copertura armata in occasione per di più di una scadenza di lotta equivocata come insurrezionale e quindi carica di aspettative liberatorie. Mentre il Cln lombardo, per la centralità dei suoi interventi politici e organizzativi, assurgeva ufficialmente al rango di Cln per l’Alta Italia investito di poteri di governo straordinario del Nord (31.1.1944), gli sforzi intrapresi da Pci e Pd’a, i primi due partiti organicamente impegnatisi nell’avvio della lotta armata, sembrarono annullati dai rastrellamenti e dalla repressione poliziesca: tra il novembre 1943 e il gennaio 1944 furono attaccati e sciolti due gruppi armati di alcune decine di uomini costituiti dal Pci nelle boscaglie lungo l’Adda e il Ticino; l’11.12.1943 Poldo Gasparotto, comandante le costituende bande Giustizia e Libertà poi assassinato a Fossoli il 22.6.1944, fu catturato insieme al comitato militare azionista; il 20.12.1943 all’Arena civica vennero fucilati 8 partigiani e altri 5 il 31 dicembre al poligono di tiro della Cagnola; tra il 18 e il 24.2.1944 caddero il comitato militare del Pci e la maggior parte dei Gap (Egisto Rubini, comandante la 3ª brigata Lombardia, sottoposto a orribili torture, si suicidò nel carcere di San Vittore il 25.2.1944) e tra la fine di aprile e gli inizi di maggio 1944 l’Ufficio politico investigativo della Gnr riuscì ad arrestare gli ultimi gappisti in circolazione.
Dopo un vuoto di circa due mesi i primi sintomi di ripresa si manifestarono in città nel giugno avanzato con l’aggressivo risveglio dell’attività gappista guidata dal nuovo comandante Giovanni Pesce, trasferito a Milano dopo aver valorosamente diretto i Gap torinesi, e in provincia tra maggio e giugno con la comparsa di squadre armate impiegate a difesa degli scioperi delle mondine e in azioni di sabotaggio alle mietitrebbiatrici per impedire la consegna del grano all’ammasso. Le nuove squadre, denominate di azione patriottica (Sap), erano frutto di una riflessione critica sviluppata dal comunista Italo Busetto sull’impostazione difensiva – e quindi contraria alle leggi della guerra partigiana – che aveva presieduto la costituzione delle vecchie squadre di difesa le quali inoltre, dipendenti da organismi politici unitari, erano anche state frenate da fenomeni di attendismo. Ristrutturate su base territoriale e con comandi militari centralizzati, in virtù anche delle incoraggianti vittorie alleate e della ripresa combattività delle formazioni di montagna, le Sap si ramificarono sempre più nei quartieri, nelle aziende e nelle campagne e, affermatesi rapidamente come modello organizzativo del partigiano urbano e di pianura nell’Italia occupata, rappresentarono il salto di qualità che conferì alla lotta armata un carattere di massa.
La creazione nel mese di giugno del comando provinciale retto da Italo Busetto (Franco), da Alessio Lamprati (Nino), vicecomandante e da Giuliano Pajetta (Monti) – a ottobre sostituito da Amerigo Clocchiatti(Ugo) -, accelerò lo sviluppo del movimento sappista e alla 110ª brigata Garibaldi Sap, costituita in agosto, si aggiunsero a settembre in Milano la 111ª, la 112ª, la 113ª, la 114ª, la 117ª e la 120ª, mentre nelle fabbriche sestesi, roccaforte del movimento, nacquero la 107ª (Pirelli), la 108ª (Breda), la 109ª (Ercole e Magneti Marelli) e la 184ª (Falck), per un totale di circa 3000 uomini il 10-15% dei quali, capaci anche di azioni di stampo gappista, rappresentò il nerbo delle cosiddette squadre di punta mentre il rimanente, riluttante ad un vero e proprio impegno armato, venne impiegato nel sabotaggio in fabbrica, in azioni di propaganda, disarmi e semine di chiodi squarciagomme, azioni di minore rilievo militare ma che, moltiplicandosi sempre più nel tempo e sul territorio, concorsero a preparare e ad alimentare il clima insurrezionale. Anche in provincia, divisa in 5 zone, il movimento dilagò a macchia d’olio e, a partire dalla valle Olona, dove sulla base della forte e combattiva organizzazione comunista dissidente dei fratelli Venegoni nacque la 101ª brigata, diede vita alla 103ª e alla 104ª nel Vimercatese, alla 119ª nella Brianza centrale, alla 165ª e alla 166ª nel Lodigiano e alla 168ª nel Magentino, brigate madri dalle quali per dilatazione delle forze e per necessità logistico-operative derivarono tra il settembre e il dicembre 1944 altre 9 formazioni con una forza che, pur soggetta a più o meno accentuate oscillazioni causate dalla repressione nazifascista, è comunque realisticamente valutabile attorno ai 3500 uomini.
L’avanzata angloamericana sul fronte italiano e le conseguenti aspettative di una rapida conclusione del conflitto nella penisola, nonché la costituzione del comando generale del movimento partigiano unificato nel Corpo Volontari della Libertà, cui seguì a Milano la nascita del comando piazza (18.8.1944), diedero nei mesi successivi impulso anche alla nascita di formazioni di altro colore politico, la cui consistenza e attività dichiarate nel tardo autunno 1944, non trovano, al di là di inverosimili ricostruzioni a posteriori, adeguati riscontri nella documentazione ufficiale del comando piazza e diedero adito, all’interno dello stesso comando, a più di una confutazione polemica tra il rappresentante delle Garibaldi e quelli delle Matteotti e delle brigate del popolo mentre, in rapporto alla esiguità (dichiarata) delle forze, i distaccamenti Giustizia e Libertà, diretti da Sergio Kasman e poi da Giuseppe Signorelli, si segnalarono per il generoso e sanguinoso contribuito di lotta.
Ai rovesci militari e all’intensificata attività gappista e sappista i nazifascisti risposero nell’estate del 1944 riprendendo e accentuando provvedimenti terroristici. La polizia di sicurezza germanica, servendosi quasi sempre di plotoni della legione Muti, fece fucilare il 16.7.1944 tre ferrovieri allo scalo di Greco, il 21.7.1944 cinque civili a Robecco sul Naviglio – dove alcune case vennero bruciate e 56 uomini deportati -, il 31.7.1944 sei gappisti all’aeroporto Forlanini e il 10.8.1944 quindici partigiani in piazzale Loreto. La Gnr il 26 luglio a Galgagnano fucilò 5 partigiani di un gruppo alla macchia lungo l’Adda e 4 agricoltori sospettati di favoreggiamento, e il 22.8.1944 cinque sappisti della 174ª Garibaldi al poligono di tiro di Lodi (all’epoca provincia di Milano), mentre la Muti, solitamente usa ad assassinare nottetempo e in periferia i propri arrestati, il 28.8.1944 fucilò in piena città 4 garibaldini della 113ª.
Per contrastare il terrorismo nazifascista, e convinti dell’imminente sfondamento alleato delle difese tedesche, i comandi intensificarono le azioni gappiste e sappiste e il Pci, attraverso i Comitati d’agitazione clandestina, cercò di rivitalizzare la combattività in fabbrica avviando con lo sciopero del 21.9.1944 un nuovo ciclo di lotte che avrebbe dovuto infiammare il clima insurrezionale ridando al contempo contenuti di classe alla lotta operaia alla vigilia della fase conclusiva.
Luigi Borgomaneri, La Resistenza a Milano, in Dizionario della Resistenza, Einaudi, Torino, 2001

Come già accennato, una reazione molto dura si abbatte sugli scioperanti [di Milano]: oltre 300 famiglie vengono colpite; si intensifica la militarizzazione non solo delle fabbriche, ma anche del territorio; l’attendismo che faticosamente i comunisti, assieme a un’ala di azionisti e socialisti, provano a rompere nella classe operaia, viene rinnovato a causa della delusione dei lavoratori in seguito ai fallimenti dello sciopero di marzo. Sono molto lunghi i mesi estivi e, ancora di più, quelli invernali dove alla faticosa riorganizzazione della Resistenza urbana si unisce la situazione generale della guerra, soprattutto quando i nazifascisti lanciano una controffensiva militare in Europa e contro il movimento partigiano in Italia.
Le parole d’ordine della lotta urbana, sia essa armata che sindacale, sono ‘la lotta contro fame, freddo e terrore nazifascista’. I nuovi nuclei gappisti, sebbene destinati progressivamente a una posizione secondaria rispetto al processo insurrezionale, conoscono una nuova intensa fase di attività nell’estate e poi, dopo la seconda crisi di settembre, nell’inverno ’44-’45, nonostante le condizioni estreme; sono invece le Squadre di azione patriottica a rappresentare d’ora in avanti il vero strumento insurrezionale e la reale connessione tra lotta di massa e lotta armata, grazie alla composizione, ai principi organizzativi che le ispirano, al loro legame con la realtà esterna alla fabbrica. Tuttavia, perché l’azione delle SAP risulti efficace è necessario che ci sia un contesto favorevole attorno e le difficoltà non saranno poche, soprattutto a causa dei numeri ridotti e del persistente attendismo di lavoratori e quartieri popolari.
L’estate-inverno ’44 è infatti generalmente caratterizzato dall’’assordante silenzio delle fabbriche’: alle bombe e agli attentati dei GAP, all’organizzazione sappista, all’estensione dei CLN ad ogni livello da parte del fronte antifascista, non fa seguito una risposta operaia, nemmeno di fronte al peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro. Gli episodi di questa fase bassa di conflitto sono sporadici e comunque isolati:

  • l’11 agosto si prova a convocare uno sciopero di protesta contro l’eccidio di piazzale Loreto, ma solo la Pirelli risponde con alte adesioni all’appello;
  • a fine mese si verificano proteste pacifiche interne alla Breda, la Borletti e la Pirelli sulla base di alcune richieste relative a viveri e ferie;
  • il 21 settembre un tentativo di nuovo sciopero generale si risolve in un fallimento (a conferma della persistenza degli effetti negativi della sconfitta di marzo): due interi settori strategici della città (sud-est e ovest) e il fortilizio operaio di Sesto San Giovanni non sono coinvolti;
  • il 19 ottobre è la Breda sestese a inaugurare uno sciopero che dura due giorni;
  • infine il 23 novembre si prova a lanciare un nuovo sciopero generale, l’ultimo prima della ripresa del febbraio ’45, la cui estensione risulta piuttosto limitata.
    Le mobilitazioni, in parte spontanee, in parte guidate dai militanti comunisti (e socialisti, nel caso della Pirelli), hanno avuto il merito di tenere in agitazione una classe operaia altrimenti lasciata preda della depressione politica. Ma le agitazioni risultano incapaci di superare il carattere economico, l’effetto politico del terrore è ancora molto forte.
    Da fine settembre si sono susseguiti fermate di protesta e scioperi brevi per strappare aumenti e anticipi salariali, generi alimentari, vestiario, carbone, copertoni di biciclette e generi ormai irreperibili, ma il potere contrattuale della classe operaia è scemato con il venire meno delle materie prime dalla Germania. Manca tutto, si patisce fame e freddo, ma organizzare la protesta si fa sempre più difficile e, quando avviene, la sua capitalizzazione politica è tutt’altro che certa. <285
    Nonostante ciò, l’attesa insurrezionale è rimasta radicata nell’immaginario operaio di molte fabbriche milanesi, dove piccoli e tenaci nuclei proseguono il lento e delicato lavoro di organizzazione e politicizzazione:
    Fra tanti, tre esempi: alle Acciaierie Redaelli di Rogoredo ‘esiste molto entusiasmo fra la massa’ – scrive ‘Sergio’ – ‘ma poca volontà di fare subito qualche cosa. Tutti aspettano “el Barbisùn”. […] La massa vede l’insurrezione come una liberazione e [è] quasi totalmente disposta a battersi quando verrà il momento buono’.
    Alla Lagomarsino ‘la massa vede con piacere e attende con impazienza l’avvicinarsi del momento insurrezionale, con poca tendenza però a prenderne parte’. Alla Borletti ‘non viene sufficientemente valutato lo sviluppo della lotta di tutti i giorni come sviluppo della lotta insurrezionale […] questo modo di ragionare non è molto lontano da quello di diversi compagni […] e li porta più a fare progetti per il domani che azioni oggi’. <286
    Ciò che ha insegnato il breve ciclo dell’autunno-inverno ’44 è che la fabbrica non è sufficiente, perché all’interno di essa gli operai resteranno concentrati sul terreno strettamente economico-salariale e soprattutto diventano facile bersaglio della repressione. Se la lotta deve essere ‘contro il freddo, la fame e il terrore’ allora gli strumenti principali devono tutti riguardare una lotta armata che sia di tutela e autodifesa, da una parte, e di contrattacco, dall’altra. Dunque, le SAP cominciano a funzionare sempre di più come squadre di difesa nelle azioni di rifornimento di carbone e legna, oltre che di viveri, contrastando il mercato nero alimentato anche dai nazifascisti; mentre i GAP devono intensificare i loro attacchi, da orientarsi su ‘grandi e clamorosi colpi’ (fino all’ordine di cessazione del terrorismo nei luoghi di ritrovo pubblici, verso febbraio). Una lotta armata dunque che non faccia più da detonatore della mobilitazione e dell’insurrezione, come era all’inizio, ma che sia ispirata al principio dell’avanguardia armata dei moti popolari e dell’azione sindacale.
    Su l’Unità del 10 gennaio 1945 compare un articolo, attribuito a Eugenio Curiel (fondatore del Fronte della gioventù), dove si esprime chiaramente la svolta anche teorica del processo insurrezionale: “Organizzare la lotta significa raccogliersi nei Comitati di liberazione di rione e di villaggio, di fabbrica e di categoria, consolidare ed estendere la rete dei Comitati di agitazione e dei Comitati contadini, vuol dire riunire le donne e i giovani nelle organizzazioni unitarie di massa dei Gruppi di difesa e del Fronte della gioventù”. <287
    Non è possibile ignorare le tracce di una cultura rivoluzionaria di antica data, che va oltre e per certi versi supera la svolta ciellenistica e unitaria che il movimento antifascista ha attuato negli ultimi mesi di guerra civile. Beninteso, cultura rivoluzionaria propria non solo della base e dei ceti subalterni, ma insita anche nella strategia togliattiana sancita dalla ‘svolta di Salerno’ e che prevedeva una ramificazione dell’organizzazione comunista a tutti i livelli della società. Sulle SAP, sul proliferare di comitati di base e insurrezionale, si incontreranno in modo spesso contraddittorio aspirazioni rivoluzionarie e tatticismo della dirigenza comunista. Sono numerose le occasioni in cui
    Togliatti tenta di correggere il rivoluzionarismo, di cui in particolare accusa la Direzione del partito nell’Alta Italia: “[Togliatti invita l’intero partito a] ricordarsi sempre che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista o comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo […] In conformità con questa linea generale dovete risolvere i problemi di organizzazione del fronte armato del popolo e dell’insurrezione […]”. <288
    [NOTE]
    285 L. Borgomaneri, Li chiamavano terroristi. Storia dei Gap milanesi (1943-1945), p. 304, Unicopli 2016
    286 Ibidem, p. 304-05
    287 E. Curiel cit. in S. Peli, op. cit., p. 117
    288 Appello di Ercoli in La nostra lotta, II (agosto 1944), n. 13, p. 15 cit. in S. Peli, op. cit., p. 116
    Elio Catania, Il conflitto sociale: “motore della Storia” o “tabù” storico-politico. Il caso di Milano nel secondo dopoguerra, Tesi di laurea magistrale, Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, Anno Accademico 2016-2017

Ci sono state donne che hanno rischiato con coraggio, nonostante quel che avveniva intorno. Ad esempio durante gli scioperi del marzo 1944 a Milano, alla fabbrica Borletti, dove le maestranze erano prevalentemente femminili, lo sciopero riuscì molto bene. Ma diverse operaie furono arrestate. Fu organizzato un altro sciopero di protesta per farle rilasciare. Vennero liberate quasi tutte. Purtroppo Carlotta Bassis, 24 anni, trattenuta per cinque mesi nel carcere di San Vittore, finì deportata nel campo di concentramento di Bergen-Belsen dove perse la vita.
Atti del Convegno “Noi compagne di combattimento”. I Gruppi di Difesa della Donna (1943-1945), Torino, 14 novembre 2015, ANPI

L’autunno e l’inverno 1944-1945 furono inoltre contrassegnati da una catena di arresti e omicidi che colpirono gravemente le diverse formazioni e il cuore degli organismi dirigenti allo smembramento della brigata del Fronte della Gioventù, di alcune brigate Sap urbane e foranee e della 3ª Gap, si aggiunsero l’arresto dell’intero comando regionale lombardo, caduto insieme al suo comandante Giulio Alonzi, di Giuliano Pajetta, rappresentante garibaldino nel comando piazza e di altri membri, nonché quello di Ferruccio Parri, l’eliminazione nottetempo di numerosi quadri e militanti e l’assassinio di Mauro Venegoni, Sergio Kasman e Eugenio Curiel; sia in città che in provincia ripresero inoltre le fucilazioni: 5 sappisti il 13.10.1944 a Turbigo, 5 partigiani a Merlate il 16.12.1944, altri 5, tra i quali l’intero comando della 167ª Garibaldi, il 31.12.1945 a Lodi, un matteottino e tre garibaldini il 6.1.1945 a Milano, 9 appartenenti al Fronte della Gioventù il 14.1.1945 e 5 gappisti il 2.2.1945 al campo Giurati, 5 sappisti il 2.2.1945 a Arcore, 7 il 9.3.1945 a Pessano e il 31.3.1945 a Cassano d’Adda.
Nell’infuriare della reazione, nel gennaio 1945, Giovanni Pesce, allontanato da Milano nel settembre 1944 perché individuato, venne richiamato a ricostituire la 3ª Gap, mentre il movimento sappista fu incaricato di compensare la perdita della centralità operaia spostando la lotta dalle fabbriche alla strada per dare applicazione e sostegno alla parola d’ordine della “lotta contro il freddo, la fame e il terrore nazifascista”. Accanto alle azioni armate si moltiplicarono, in stretta collaborazione con i Cln aziendali e rionali e i comitati clandestini d’agitazione, gli interventi per guidare e proteggere la popolazione durante il taglio degli alberi di diversi viali milanesi e sestesi, negli assalti ai treni carichi di carbone, nelle manifestazioni di protesta organizzate dai Gruppi di difesa della donna e nei comizi volanti in fabbrica che rappresentarono la risposta all’effimera euforia fascista dell’ultimo discorso pubblico di Mussolini al teatro Lirico (16.12.1944).
Tra il dicembre e il febbraio 1945 i comandi partigiani, primo fra tutti quello garibaldino, iniziarono la ristrutturazione delle forze dando vita a nuove brigate poste agli ordini di comandi divisionali che consentirono un pronto assorbimento del volontariato preinsurrezionale e un più efficace coordinamento operativo. Nello stesso torno di tempo, dopo che anche le brigate Matteotti erano riuscite dal tardo autunno a darsi una più efficiente struttura organizzativa sotto il comando di Corrado Bonfantini, si registrarono i primi segnali di una inversione di tendenza con il rilancio dell’attività gappista e con il più alto livello di combattività e affidabilità operativa espresso dalle Sap, la cui capacità offensiva si evidenziò la sera del 6.2.1945 con il simultaneo assalto contro 22 caserme, comandi e sedi nazifasciste attaccate a raffiche di mitra e lanci di bombe a mano.
Luigi Borgomaneri, Op. cit.