Dalla guerra in Jugoslavia al lavoro forzato da prigioniero per la costruzione di V1 e V2

La testimonianza di Domenico Negro ci permette di esplorare un universo poco noto ai più, quello delle miriadi di Italiani deportati in Germania per lavorare nelle fabbriche d’armi del regime nazista. Produceva le bombe V1 e V2 Domenico, quelle che Hitler scaglierà contro l’Inghilterra.
Trattati come traditori dagli ex alleati tedeschi, questi Italiani vennero coperti d’ingiurie e infamie,
spesso disprezzati dagli stessi connazionali alla fine della guerra, perché venivano accusati di aver
collaborato con il nemico, con il demonio addirittura,

tanta fatica, quella che ha dovuto fare sia da schiavo della fabbrica militare che da contadino, da solo, tutto da solo mandare avanti i campi e la casa, senza l’aiuto di nessun altro sposarsi e mettere su famiglia.
Ma questa – dice Domenico con un sorriso – era l’unica cosa che mi piaceva. Altro non mi piaceva fare!”. Un sorriso che è speranza, speranza che l’uomo esca dalla sua barbarie, e riscopra i valori della natura e della famiglia, i valori che hanno permesso a Domenico di uscire indenne dalla guerra e tornare a casa.

<<Io non sono mai stato fascista, sono sempre stato socialista, anche mio papà. Era il maestro
Bertoni a fare il premilitare qua a Ormelle, e anche Domenico Pizzinato. Ci facevano marciare, attenti, riposo, attenti, correre, marciare, tattiche di guerra, roba del genere, tutto generico, tutto strano anche.
Io e mio papà eravamo socialisti, ma io avevo solo quindici anni quando è scoppiata la guerra d’Africa e il mio senso era socialista, ma non è che subissi molto essendo un ragazzino, ma mio padre era socialista sfegatato e volevano dargli l’olio, ma non è che l’avessero mai minacciato, invece a Roncadelle l’hanno fatto a tanti. Loro comandavano e bisognava obbedire e basta, obbedire o erano botte, li mandavano per le case a guardare cosa facevi, non potevi tenere la radio accesa su certi programmi, soprattutto durante la guerra dell’Africa, ma anche durante la seconda, mi
hanno detto i miei; eri un pazzo se ascoltavi le cose proibite, anche i giornali erano solo quelli loro, tutto il resto era censurato!>>.

<<Sono andato via nel febbraio del 1940, militare che avevo 19 anni. Sono andato a Trieste, ero del
77 fanteria, cravatte azzurre del re. Noi avevamo la cravatta azzurra, perché l’indirizzo era cravatta
azzurra e non soldato o questo o quello ecc…da Trieste siamo partiti per il campo e non siamo più ritornati in caserma, perché siamo andati sui confini della Croazia. Eravamo stati 40 giorni in caserma a Trieste, poi siamo partiti subito per il campo e poi portati vicino ai confini sul monte Rasora e sul monte Nudo. Abbiamo varcato i confini il venerdì santo del 1941, e siamo entrati a Elmesburgo un anno dopo: quello è stato il primo giorno di guerra. Per fortuna, che è stata una fortuna sennò gli Slavi ci ammazzavano tutti, pensavano che si andasse dentro per la strada bassa, e invece noi siamo andati dentro dall’alto, e quando ci siamo trovati a faccia a faccia, noi avevamo un ufficiale
con la carta in mano che dovevamo arrivare su un paese là vicino, abbiamo parlamentato con degli Slavi che cedessero le armi, ma loro hanno detto di noi e hanno aperto il fuoco sparandoci addosso. Sulla neve alta due metri avevano piazzato i mortai del 45 che avevano le bombette che si staccavano e diventavano tante; si sono messi a sparare e le bombette sono esplose sopra
a noi esploratori, e al sergente Giacconi una bomba ha portato via i pantaloni e tutta la carne della natica destra…abbiamo ripiegato e siamo tornati indietro. Noi gli avevamo detto di cedere le armi perché il loro governo si era arreso, ma loro ci hanno risposto che non avevano mai ricevuto ordini e ci hanno sparato addosso. Al sergente Drigo Davide sono entrate le pallottole nella manica sinistra della camicia e sono uscite dal gomito, gli hanno bruciato tutta la pelle e usciva sangue da tutto il braccio. Io comandavo la terza squadra del plotone esploratori; c’è stato un attacco subito e ho perso un uomo, il primo giorno di guerra si è preso una pallottola in gola, ha detto solo “Ahi, mamma, ahi…” ed è morto subito. Non abbiamo fatto addestramenti particolari, mi hanno scelto per fare questo ruolo.

Gli Slavi attaccavano quasi ogni giorno, di continuo, noi dovevamo perlustrare il territorio con le carte
topografiche, ogni caposquadra doveva saper leggere la carta topografica, siamo stati tanto a Beljce,
Karlovac, Bukovac, che era il centro dei partigiani, ma erano dappertutto a casa loro, attaccavano la notte, uscivano dalle case, dalle grotte, non sapevi mai da dove sbucavano fuori! Tante scaramucce, tante piccole sparatorie, ma anche incendi, perché alcuni paesi venivano incendiati, soprattutto quelli più poveri.
Noi esploratori no, ma gli altri bruciavano le baracche vuote per intimidire i partigiani, dove conquistavamo venivano incendiate le case abbandonate. Una notte siamo anche andati su di rinforzo alla cavalleria, che aveva avuto grosse perdite, ma noi li abbiamo liberati e siamo tornati indietro.
Poi siamo stati diversi mesi a Zagabria, due mesi tre in caserma, che era là in piazza. Gli Slavi non
erano neanche male, a parte la lingua sono come gli Italiani. I Croati erano poco di buono, perché di giorno venivano a far finta di collaborare con noi e alla sera ti fucilavano alla schiena, e i Serbi peggio ancora, ancora più cattivi.
Siamo arrivati così all’8 settembre del 1943, quando è stata l’Italia a chiedere l’Armistizio. Facevo allora parte della 2° Armata e da là, a Verbosco dove eravamo, la telefonata dell’armistizio è arrivata a l’una di notte. Io dormivo sopra il comando del battaglione, il Colonnello nostro è arrivato a domandarci cosa succedeva. Da là siamo partiti, abbiamo mollato tutte le armi, e ci siamo
messi in viaggio verso Trieste. A Trieste i Tedeschi ci hanno fermato e imprigionato, dopo tutta quella
strada a piedi! Cinque otto giorni a piedi! A Trieste ci hanno fermato e concentrato tutti al silos di Trieste; era un capannone enorme che lo chiamavano silos; ci hanno tenuto là tre giorni, poi ci hanno caricato su una tradotta e ci hanno mandato in Germania. In Germania, io ero finito al campo di concentramento di Kustring, Stan lager 3° C. Il campo di concentramento aveva tanti capannoni, cioè baracconi più che altro, e quello era il nome di quello dove stavo io.
Da qua ci hanno spedito a Basdorf, ci hanno trasferito a fare gli operai nella fabbrica della BMW, per il tedesco si chiama BraMoWall e là abbiamo lavorato fino a quando i Russi sono venuti a liberarci. Eravamo prigionieri: maltrattati, bastonati e poco mangiare, e ci dicevano: “Schloss, schloss Badoglio!” che vuol dire, “Via, via Badoglio!” e “Badoglio traditore!”, perché Mussolini era alleato con la Germania e Badoglio era un traditore perché aveva arrestato Mussolini e si era alleato con l’America, e quando Badoglio ha preso in mano il governo e ha firmato l’armistizio, i Tedeschi
si sono arrabbiati tantissimo; quando lavoravamo, venivano a provocarci e ci chiedevano in tedesco:
“Was besser? Badoglio o Mussolini?” cioè “Chi è meglio? Badoglio o Mussolini?” se rispondevamo Badoglio ci prendevano a sprangate, botte sullo stomaco, e ci lasciavano anche senza quel poco da mangiare che ci davano.
Là nella fabbrica abbiamo lavorato a smontare apparecchi aerei, che venivano passati e ripassati
e dopo rimontavamo gli aerei sul banco di prova e facevamo le prime V1 e V2 che sono state usate per bombardare l’Inghilterra.
Quando sono stato liberato al 25 di aprile, alle ore cinque della sera dalla cavalleria cosacca, più sporchi e puzzolenti di quella gente là non ce n’erano, perché anche gli ufficiali si buttavano giù sul letto con gli stivaloni ancora sporchi della merda dei muli, dei cavalli, puoi immaginarti! Comunque mi hanno dato tre giorni di carta bianca, che provvedessi da mangiare da solo, e mi hanno portato a Buccari (Bucovas) dopo quattro giorni di cammino, e là siamo rimasti fino a quando ci hanno portato a casa. Sono arrivato a Pescantina di Verona per la contumacia, non ricordo quando, ma mi ricordo che eravamo tutti nudi con le mani in tasca, donne e uomini a fare tutti assieme la contumacia tutti nudi, con le donne che nascondevano i genitali, e noi che avevamo tolto la divisa che era
buttata nei forni. Noi abbiamo fatto il bagno, ci hanno disinfettato e poi mandati a casa. Io per fortuna non avevo neanche pidocchi, altri sì.
Sono anche tornato a casa Caporale maggiore, ma ho rifiutato il grado. Ma la terza volta ho dovuto metterli su per forza: la prima li ho rifiutati, la seconda anche, la terza mi è toccato prenderli perché sono stato anche vice comandate del plotone, l’ho comandato anche per un mese intero perché mancavano gli ufficiali, ma non volevo saperne dei gradi…>>.

da Anni di guerra e di fame (Storie di reduci, storie di vita) a cura di Simone Menegaldo, Sismondi Editore