È l’avvocato Pompeo Colajanni, un signore amico del popolo

Pompeo Colajanni (Caltanissetta, 4 gennaio 1906-Palermo, 8 dicembre 1987) è certamente uno dei personaggi più rilevanti e noti della Resistenza italiana. Tenente di Cavalleria a Pinerolo negli anni di guerra, già il 10 settembre 1943 sale in montagna dando vita in poco tempo ad una delle prime bande partigiane del Piemonte, significativamente intitolata a Carlo Pisacane. Alla testa delle formazioni garibaldine del Monferrato con il nome di “Nicola Barbato”, carismatica guida del movimento contadino siciliano di fine Ottocento, nell’aprile del ’45, nominato vicecomandante del CMRP (Comando Militare Regionale del Piemonte), è tra gli artefici della liberazione di Torino. Nel dopoguerra, Colajanni fa parte della delegazione comunista nei primi governi di unità nazionale come sottosegretario alla Guerra nell’esecutivo guidato da Parri (giugno-dicembre 1945) e poi nel primo governo De Gasperi (dicembre 1945-luglio 1946), ma è in Sicilia che svolge effettivamente la sua attività politica come deputato all’Assemblea Regionale Siciliana dalla I alla metà della VI Legislatura (1947-1969), lì dove, nella opposizione al regime, era maturata la sua fede comunista.
Il fascismo in Sicilia aveva tardato ad affermarsi in ragione della saturazione del mercato politico, dominato dalle vecchie élite liberali, demosociali e clerico-moderate. Il processo di penetrazione aveva visto un punto di svolta solo dopo la marcia su Roma del 28 ottobre 1922, quando il movimento – divenuto partito e, successivamente, conquistato il potere – comprese la necessità di dover abbandonare i propositi “rivoluzionari” e agevolare il processo di ralliement degli schieramenti preesistenti, prestandosi, in posizione subalterna, a fornire un campo nuovo entro cui far proseguire le antiche contese – familiari, clientelari e di gruppo – che nei decenni precedenti avevano caratterizzato la lotta politica nei municipi e nei collegi. Per tutto il Ventennio, quindi, in larga parte della regione il regime si mostra attraverso volti già noti alle popolazioni, e in questa incapacità di rinnovare la classe dirigente misura il fallimento della sua pretesa totalitaria.
Di un siffatto contesto risentono, naturalmente, anche le forme dell’opposizione. Il movimento antifascista è, infatti, una galassia composita, frammentata e con scarsi collegamenti tra le diverse province e al loro interno. Nelle città, notabili prefascisti, sinceri democratici e professionisti, tra i quali Colajanni, mantengono – per lo più indisturbati – relazioni, sviluppano dibattiti colti e cercano, come possono, di coinvolgere nella propria cerchia giovani studenti e intellettuali, ma è nelle agrotowns che si manifesta la caparbietà delle strutture repressive del regime. Qui, infatti, nella durezza della vita dei campi e delle zolfare, entro realtà di disagio e miseria, la spinta antiautoritaria delle “classi pericolose” cresciuta negli anni non si è sopita, anche in ragione della immutata condizione di vita e dell’inasprimento delle misure di controllo sociale che il fascismo promuove. In queste realtà prende forma, dunque, un antifascismo popolare che solamente nei rapporti burocratici di questure e prefetture assume coloriture politiche per l’incapacità dei funzionari di leggere le complesse motivazioni di questa avversione e per l’ostinazione interessata a ricondurre tali comportamenti entro categorie fisse e predeterminate. In realtà, l’insubordinazione che in più occasioni, nel corso degli anni Venti e Trenta, porta a spettacolari retate, arresti di massa e condanne esemplari, procede senza soluzione di continuità dal periodo precedente: erano stati, infatti, i moti del ‘19 contro il caroviveri e per l’accesso alla terra a tracciare i contorni identitari dei principali attori, i quali incontrano solo dopo, strada facendo, le fragili strutture organizzative che, nella clandestinità, i comunisti provano ad allestire e far sopravvivere quanto più possibile, e, legandovisi, molti di loro acquisiscono consapevolezza dell’importanza e della dimensione politica di quella lotta.
Con lo sbarco Alleato, il 10 luglio 1943, e il crollo del fascismo, nell’isola si apre una nuova stagione che vede al centro della scena i partiti. Le forze politiche forniranno una fisionomia unitaria alle precedenti diversificate esperienze di attivismo sociale e politico, e solo allora l’antifascismo – notevolmente più tardi che nelle regioni centrosettentrionali – diverrà valore comune e generalmente condiviso dalle risorgenti organizzazioni. A guidarle saranno in larga parte professionisti, deputati, notabili o organizzatori sindacali che prima dell’avvento del regime avevano maturato una esperienza politica e amministrativa. Costoro animeranno il dibattito per lo smantellamento del latifondo e il miglioramento dei contratti nelle campagne (temi affrontati nell’ottobre 1944 dai decreti del ministro comunista Fausto Gullo e, in modo organico, dalla riforma agraria dell’autunno 1950) e saranno i protagonisti della battaglia per l’autonomia regionale, la grande questione del lungo dopoguerra siciliano che, ben oltre l’iniziale declinazione “riparazionista”, soprattutto le sinistre individueranno quale elemento centrale di una politica tesa al superamento del divario Nord-Sud e soluzione necessaria per attirare i ceti medi nella propria orbita, tenendoli così lontani dalle tentazioni reazionarie dei separatisti.
Nell’ottobre del 2015, in ragione di un lavoro di ricerca che sto conducendo sull’antifascismo in Sicilia, ho incontrato Emanuele Macaluso nella sua casa al Testaccio, a Roma.
[…] Avviato sulla figura di Colajanni nella complessa e sfaccettata realtà dell’antifascismo nisseno e isolano, il nostro confronto si è progressivamente allargato, riuscendo ad abbracciare anche temi e questioni di natura diversa. In memoria di Emanuele Macaluso <1, scomparso sei mesi fa, si decide ora di anticipare la pubblicazione di questo dialogo, corredandola di un apparato di note che chiariscono, precisano e danno conto di persone e circostanze che nel testo vengono via via menzionate.
Carmelo Albanese (C.A.): Onorevole Macaluso, il 4 gennaio 1986, in occasione dell’ottantesimo compleanno di Pompeo Colajanni, venne organizzata a Palermo, a Palazzo Steri, una importante celebrazione alla quale parteciparono varie personalità della politica siciliana e non solo. Tra gli altri, intervenne anche l’on. Giuseppe Alessi <3 che, ripercorrendo l’antico rapporto di amicizia e di collaborazione politica che lo legava a Colajanni, affermò: «in fondo io ero fedele alla mia Chiesa, la Chiesa cattolica; Pompeo nel suo partito vedeva una “chiesa”, la sua “chiesa”, onde se ne fece sacerdote, apostolo, missionario, al punto da ritenere incompatibile l’esercizio o la professione forense con la sua missione politica!» <4. Anche lei portò allora il suo personale contributo di memoria, ricordando, dalle colonne de «l’Unità», di cui era direttore, il suo primo incontro con il futuro comandante partigiano: «quando ero ancora fanciullo – scrisse –, mio padre che era ferroviere e conosceva Pompeo, passeggiando per la piazza grande di Caltanissetta mi indicava un giovane trentenne di taglia corta, con pochi capelli e folti baffi, spiegandomi: “È l’avvocato Pompeo Colajanni: un signore amico del popolo”» <5. Colajanni, in realtà, svolse la professione per un breve periodo. In ogni caso, che cosa ricorda di quegli anni? Può raccontarmi del Colajanni avvocato?
Emanuele Macaluso (E.M.): Pompeo non aveva uno studio attrezzato, ma si appoggiava a quello del padre, Luigi, che era avvocato civilista; ricordo che camminava sempre con delle caramelle in tasca e ogni volta che mi incontrava me ne dava una. Pompeo era certamente considerato un bravo avvocato a Caltanissetta, ma svolgeva prevalentemente una intensa attività culturale. Era un uomo che leggeva molto, e tra le cose più varie, dalla rivista «Problemi del lavoro» <6 agli «Acta diurna» di Guido Gonella <7. Insomma, letture non sempre compatibili con il regime. Diversamente da Colajanni, Alessi coltivò la professione legale anche durante i mandati parlamentari, divenendo un grande penalista. Ma non era come gli altri avvocati – anche molto bravi – della provincia, dotati di vaste clientele sparse sul territorio, non di rado appartenenti a strati malavitosi. Io ho un ricordo molto vago perché ero ancora un ragazzo, ma certo era considerato un avvocato di grande stile, un oratore efficace, ma non appunto un “avvocato di clientele”.
C.A.: Colajanni scrisse abbastanza poco della sua militanza antifascista in Sicilia come anche della sua vicenda partigiana. Il testo di un intervento tenuto al Circolo della Stampa di Palermo in occasione di una lezione di Pietro Secchia (che poi, rielaborato ed arricchito, venne pubblicato su alcuni organi di partito nel trentesimo anniversario della Resistenza <8) costituì una sorta di canovaccio cui attinse per interventi pubblici o articoli commemorativi, e raramente fornì elementi nuovi oltre quel racconto. Le volte in cui si trovò a ripercorrere gli anni della sua formazione giovanile affermò di essere stato “mazziniano nel metodo ma non nel merito”, seguace delle idee di Cattaneo e vicino alle posizioni di Pisacane <9. Come intende lei questa autodefinizione?
E.M.: Prima di approdare al Partito Comunista d’Italia, Colajanni aveva militato nel Partito Repubblicano, ovvero il partito di riferimento del prozio, l’intellettuale meridionalista e deputato per oltre un trentennio Napoleone Colajanni. Pompeo era un uomo dotato di una grande apertura e di una straordinaria capacità di parlare, di conquistare e di portare la gente al ragionamento. Immagino che intendesse questo definendosi “mazziniano”. A Caltanissetta tutti sapevano che era antifascista, come tutti del resto lo sapevano di Alessi, eppure i fascisti non si permettevano di toccarlo. Nei primi anni Quaranta arrivò un nuovo segretario federale del PNF, l’emiliano Fernando Feliciani <10. Questi convocò Colajanni, lo minacciò e provò anche a schiaffeggiarlo, ma alla fine non prese alcun provvedimento perché tutta la città – compresi i fascisti – si ribellò11. Perché? Perché era considerato da tutti una persona perbene, un “mazziniano” nel senso di un “idealista”, profondamente “idealista”, fermo nelle sue convinzioni.
C.A.: Altri antifascisti però venivano arrestati: perché lui no? È possibile che la sua attività fosse considerata innocua, non pericolosa per la tenuta del regime?
E.M.: No, no. I fascisti ritenevano che l’arresto di Colajanni avrebbe potuto arrecare danno al fascismo. Se lo avessero arrestato la gente avrebbe detto “perché proprio Colajanni?”, e non solo per il nome o per la storia della sua famiglia, ma anche per la sua personalità. Del resto, la sua esperienza resistenziale dimostra chiaramente come egli avesse sì questo carattere espansivo, questa forma che poteva essere scambiata per bonomìa, eppure si rivelò sempre molto efficace nelle cose che fece, nelle battaglie. Non c’è dubbio che nella vita politica – nei suoi interventi, nei suoi discorsi, nella sua attività parlamentare – Pompeo abbia avuto sempre un comportamento affabile e abbia goduto di una grande rispettabilità, anche perché considerato un uomo straordinariamente idealista, fuori da ogni possibile congrega, fuori da ogni possibile personalismo, fuori da ogni possibile intrigo: la lealtà di Pompeo Colajanni era indiscutibile da questo punto di vista. Quindi anche le battaglie che lui ha fatto, che potevano sembrare un po’ fuori dal concreto, in realtà avevano l’eccezionale concretezza di incidere nella formazione dell’opinione pubblica a vantaggio del Partito Comunista, nel senso che veniva fuori l’immagine che nel Partito Comunista c’era anche Colajanni, ovvero un uomo che aveva questa qualità, questa ispirazione, questo modo di far politica diverso da come la facevano altri, anche nel PCI. Io credo che il contributo che lui ha dato al Partito Comunista sia straordinario proprio per questo, perché una parte dell’opinione pubblica, non solo del ceto medio ma anche dei ceti popolari, considerava Colajanni una persona talmente limpida, talmente estranea a qualsiasi intrigo, da dire “beh, il Partito Comunista ha queste persone”.
[…] C.A.: Che personalità era Nicola Piave?
E.M.: Piave era un calzolaio. Durante il fascismo fu arrestato. Io lo conobbi la prima volta in casa di Boccadutri. Era un uomo molto intelligente, con una linea politica, una propensione molto riformista, tutt’altro che settario. Anche per questo, altro che “socialfascismo”. E difatti uscì dal Partito Comunista e aderì al PSI, anche se rimase sempre legato a me e ad altri. Dopo la Liberazione Piave, e non Boccadutri, venne chiamato a fare il segretario della Federazione. Nel 1944, quando a Caltanissetta si tenne la prima riunione per costituire l’unità sindacale, per la DC partecipò Alessi e Piave per i comunisti. Poi io fui mandato a dirigere la Camera del Lavoro.
Quando arrivò Gino Cortese <18 alla guida della Federazione, e successivamente gli altri dirigenti mandati dal Nord, quando cioè il partito iniziò ad avere un’ampiezza di un certo livello, Piave venne ridimensionato. Appresi che era passato al PSI quando non ero già più a Caltanissetta, perché nel 1947 ero andato a dirigere a Palermo la CGIL siciliana.
C.A.: In questa nostra discussione stiamo parlando del movimento clandestino antifascista in Sicilia, o meglio, dei ripetuti tentativi – in una situazione difficilissima – di costruire e consolidare una rete di collegamenti. Tuttavia dalla documentazione d’archivio di questa attività traspare poco; anzi, nella sua città, Caltanissetta, alla metà degli anni Trenta le fonti di polizia evidenziano la debolezza del «movimento sovversivo» e a un certo punto ne individuano la guida in tale “Vito Sferrazza” <19.
E.M.: Sferrazza lo ricordo bene, anche fisicamente. Era un maestro elementare comunista, ma non era certo lui a dirigere l’attività. Il punto di riferimento era Boccadutri. Questi nel 1928 venne arrestato non per motivi politici, ma perché, ancora ragazzo, a Favara fu coinvolto in affari illeciti da persone poco raccomandabili e, investito dall’ondata di arresti del prefetto Mori <20, fu portato in carcere a Civitavecchia. Qui frequentò Umberto Terracini e anche un medico di Caltagirone, Giambattista Fanalis, che anche io poi ho conosciuto. Costoro fecero di lui un comunista, e quando, sul finire degli anni Trenta, uscì di galera, gli dissero di prendere contatti con la rete clandestina. Il collegamento principale che Boccadutri trovò fu con Salvatore Di Benedetto <21, che tra arresti e confini si trovava a Milano. Attraverso Di Benedetto poté quindi collegarsi con il Centro del partito, che aveva sede proprio nel capoluogo lombardo. Quando Vittorini venne in Sicilia andò a casa di Boccadutri, e fu lui ad organizzare il convegno del partito a Lentini <22. C’era Franco Grasso <23 a Palermo, Tignino <24 a Catania ecc., ma quello che aveva e che manteneva i contatti con il Centro era Boccadutri. L’attività antifascista da un certo periodo in poi divenne veramente molto intensa. A Caltanissetta arrivava «l’Unità» clandestina e nel 1941, quando entrai nel movimento, io ed altri ci occupavamo dei volantini ove venivano riprodotti alcuni articoli. Ci recavamo da un tipografo a Campobello di Licata che li stampava per noi così da poterli diffondere. Altre importanti realtà del movimento erano quelle di Sommatino, dove c’era Vendra <25, poi confinato, e soprattutto Riesi: ricordo tra gli altri Pesce <26, un minatore, e Filippo De Bilio <27.
C.A.: De Bilio è una figura estremamente interessante. La sua biografia rivela un antifascismo esistenziale che, dalla delinquenza comune indotta dalla miseria nell’adolescenza, giunge agli anni del fascismo, nelle cui maglie repressive finisce ripetutamente per incagliarsi per tutto il Ventennio. Nel mezzo, però, due snodi cruciali indirizzano e connotano le scelte del dopo: la partecipazione al primo conflitto mondiale, di cui tra l’altro porta irrimediabilmente i segni sul corpo, e quella alle agitazioni del dopoguerra nelle campagne e all’esperienza della cosiddetta “repubblica riesina” <28.
Colajanni racconta che con De Bilio aveva contatti camuffati dal rapporto avvocato-cliente29. Lei che ricordi ha?
E.M.: De Bilio era un uomo straordinario. Era un bracciante che viveva da solo in un basso. Io sono stato a casa sua più di una volta. Dopo la Liberazione, assieme a Boccadutri andammo a piedi, da Caltanissetta a Riesi, per inaugurare la sezione comunista. Lì tenni un comizio con De Bilio, il quale, quando prese la parola, affermò che c’erano bombe per tutti, anche per i compagni socialisti. Era un personaggio. Nel 1948, quando ci fu l’attentato a Togliatti, a Riesi si organizzò una rivolta. Braccianti e zolfatari andarono nella caserma dei carabinieri e buttarono tutti fuori. In quella occasione De Bilio si andò a sedere sulla sedia del maresciallo: fu così arrestato e trascorse un periodo in carcere.
C.A.: Dallo studio di questi temi, come pure da questo confronto, emerge il quadro di un antifascismo bifronte, animato da un lato – soprattutto nei centri periferici – da una gamma di soggetti di provenienza popolare (contadini e zolfatari) – ma non di rado anche sottoproletaria – che in maggioranza finiscono per incappare nelle strutture del sistema repressivo fascista, e da un altro da figure della piccola e media borghesia delle professioni e da esponenti della vecchia classe dirigente liberale decaduti o dimostratisi incapaci di ricollocarsi nelle nuove strutture politiche del regime. In una simile configurazione, però, si fa fatica ad individuare momenti di relazione tra le due parti e, anche quando vengono trovati, non è quasi mai del tutto chiaro il grado di stabilità e gli effetti concreti che tali contatti producono. Dagli stessi scritti di Colajanni si trae l’impressione che, in definitiva, i rapporti più intensi e continuativi egli li intrattenga con i settori alti della società.
E.M.: Indubbiamente lui aveva relazioni con questi, e del resto anch’egli proveniva da quel mondo, ovvero da una famiglia dell’élite locale di matrice riformista. Però aveva legami anche con questi compagni che ho prima nominato. Poi, dopo il fascismo, i rapporti con i ceti popolari sono stati straordinari. Racconto un episodio. Nei primi anni Cinquanta a Lercara, in provincia di Palermo, entrarono in sciopero per un lungo periodo i minatori. Un giorno si recarono a trovarli Pompeo e un compagno del Centro che lavorava con Paolo Bufalini (allora vicesegretario regionale), Giorgio Formiggini, un intellettuale napoletano molto scrupoloso. Quest’ultimo chiese a Colajanni di custodirgli la borsa che era piena di documenti ma a fine giornata, quando Formiggini la volle indietro, Colajanni, dimentico di dove l’avesse potuta lasciare, rispose che l’aveva affidata al popolo! Fortunatamente poi la borsa si trovò: Pompeo l’aveva consegnata ad una donna incontrata per strada.
C.A.: Colajanni racconta che era molto amico del podestà di Caltanissetta, Giovanni Ayala <30, e che grazie a questo rapporto poté riuscire a far costruire un campo da tennis nel parco Regina Margherita, dove poi incontrava i giovani per portarli alla causa antifascista <31. È molto curioso questo aneddoto perché, assieme a quanto detto in precedenza, ci riferisce della singolarità di un ambiente. Sembra, infatti, che Caltanissetta costituisca una sorta di enclave in uno Stato autoritario, con un personaggio della buona società notoriamente antifascista inserito in un contesto estremamente eterogeneo di relazioni sociali e politiche che includono anche quadri del regime.
E.M.: Sì, perché bisogna vedere questo fascismo alla Brancati, cioè come lo racconta il grande romanziere <32. Era un fascismo, appunto, un po’ così, insignificante. Io ho conosciuto il segretario fascista prima di Feliciani, Campanile <33, che era zoppo: un uomo espressione di questo sistema locale, tutt’altro che sanguinario <34. Si trattava di personaggi, sorta di semi-intellettuali di provincia che si erano messi col fascismo per ottenere dei ruoli; insomma, la piccola e media borghesia che si ricicla continuamente in tutto.
C.A.: Nel periodo in cui risiedette a Caltanissetta, Vitaliano Brancati ebbe una assidua ed intensa frequentazione con Pompeo Colajanni, e la loro amicizia si consolidò nel corso degli anni. Colajanni addirittura si vantava di aver contribuito a portare lo scrittore di Pachino all’antifascismo <35. Sappiamo che non è così, perché la “conversione” di Brancati era avvenuta prima del suo trasferimento a Caltanissetta; è indubbio tuttavia che su di lui quello che sarebbe diventato il “comandante Barbato” esercitò una grande fascinazione, come si evince chiaramente dagli scritti e dai racconti in cui lo stesso compare <36.
E.M.: Brancati scrisse di Pompeo in un elzeviro sul «Corriere della Sera» in cui raccontava che voleva portarlo al comunismo <37. In realtà lui era solo uno dei tanti divenuti oggetto dei tentativi di persuasione di Colajanni perché su questo Pompeo non si poneva limiti e non aveva inibizioni. Alessi ha raccontato di quella volta in cui andarono insieme a Palermo e sul treno finirono nello scompartimento con un seniore della Milizia. Questi era anche una brava persona che quando poteva cercava di distrarsi da Colajanni che lo assillava con i suoi discorsi critici verso il fascismo, e quando Alessi gli faceva cenno di smetterla perché altrimenti sarebbero finiti in galera Pompeo rispondeva «no, stai tranquillo, questo è un seniore democratico» <38.
Si, Brancati subì certamente il fascino della personalità di Colajanni. Era difficile anche per uno come lui non essere conquistati da Pompeo. Colajanni era un uomo così tanto limpido, cordiale, disponibile che disarmava le persone, rompeva loro, diciamo così, l’armatura, anche politica e ideologica.
C.A.: L’unico documento di polizia esistente su Colajanni è una “Nota riservatissima” del prefetto di Caltanissetta, Renato Pascucci, dell’inizio del 1943. In gennaio Colajanni era tornato da Pinerolo per un breve periodo di licenza, prima di essere trasferito con il suo reparto in Africa, e in questa circostanza, riferisce il prefetto alla Direzione Generale di Pubblica Sicurezza, «avrebbe fatto propaganda rivoluzionaria e contro la guerra» e dato incarico a Calogero Geraci «di procedere alla raccolta di somme in questo capoluogo, onde meglio potenziare l’opera propagandistica del movimento filo-bolscevico» <39. Lei ha ricordi di Geraci?
E.M.: Sì, certamente. Aveva una grande dolceria nel centro di Caltanissetta, il torronificio più importante della Sicilia che riforniva persino la Casa Reale. Aveva delle lenti spesse, era un comunista di ferro che non si iscrisse mai al Fascio. Venne con me ad accompagnare Li Causi a Villalba nel 1944, quando fu ferito dalla mafia <40.
Le informazioni del prefetto sono verosimili. Geraci fu sempre un finanziatore del partito, anche dopo la Liberazione. In generale comunque a Caltanissetta c’era un vasto gruppo di figure di questo tipo: c’era ad esempio uno che aveva una rilegatoria e un orologiaio, tale Mercurio, antifascista molto simpatico e spiritoso, da cui Pompeo andava sempre perché aveva il negozio vicino a casa sua.
[…] C.A.: Nel PCI figure come quella di “Barbato”, comandanti partigiani che hanno avuto un ruolo di primo piano nella Resistenza, nel dopoguerra hanno ricoperto spesso incarichi importanti, non solo istituzionali ma anche politici, negli organismi del partito. Per Colajanni è però diverso. È vero, dopo la Liberazione diventa sottosegretario alla Guerra nel governo Parri e viene confermato nel primo governo De Gasperi, ma in fondo lì termina la sua esperienza nella “grande politica” nazionale perché dal 1946 si stabilisce in Sicilia e fa il deputato regionale per oltre vent’anni (oltreché il consigliere comunale a Palermo, dal 1947 al 1951, e a Enna, dal 1960 al 1967). E nel partito il percorso non è dissimile: in una prima fase fa parte del Comitato Centrale, poi viene stabilmente assegnato alla Commissione Centrale di Controllo (non esattamente un ruolo di responsabilità) ma è comunque localmente che esercita l’attività politica e ricopre incarichi, come quello di segretario di Federazione43. Si ha l’impressione che il partito nazionale non punti su Colajanni e che piuttosto opti per relegarlo a rappresentare l’icona della propria narrazione della Resistenza. È possibile che ciò dipenda proprio dalle caratteristiche della sua personalità e dunque del suo modo di fare politica, così come qui stanno emergendo?
E.M.: In parte sì. Colajanni aveva fatto grandi cose nella guerra di Liberazione, era visto come un grande militante, una personalità, ma non si pensava che potesse essere in grado di dirigere un’organizzazione. Non credo però che Togliatti lo conoscesse così tanto, diversamente da Longo e Pajetta, che gli volevano anche molto bene. Con Longo non ho mai avuto una discussione su questo; credo che lo apprezzasse come comandante per tutto quello che aveva fatto nella Resistenza, però immagino non lo considerasse in altro modo.
C.A.: Lei è stato uno dei principali artefici della cosiddetta “operazione Milazzo”, l’originale esperimento politico che nell’ottobre 1958 portò alla formazione di un governo autonomista della Regione Siciliana presieduto da Silvio Milazzo e sostenuto da un arco di forze eterogeneo (dissidenti democristiani, socialisti, comunisti, monarchici e missini) <44. Colajanni la sostenne con grande entusiasmo, individuando in quella esperienza politica la possibilità di rilanciare la formula autonomista <45.
E.M.: Lui era grande amico di Milazzo. Fu un sostenitore convinto di quella operazione, posso dire che fu “milazziano” fino in fondo. Pompeo è stato sempre un uomo politicamente molto aperto. Il settarismo per Colajanni non era nemmeno pensabile.
C.A.: Sottolinea spesso questa sua indole. Possiamo dire però che “apertura” e “antisettarismo” non sempre hanno caratterizzato l’atteggiamento del PCI. Vorrei chiederle, quindi, su quali ragioni profonde ritiene che poggiasse l’adesione di Colajanni al Partito Comunista?
E.M.: Io credo che il suo forte legame – come quello di altri in fondo – derivasse dal fatto di aver trovato in quel partito il più fermo oppositore del fascismo, e difatti per questa stessa ragione negli anni del regime il PCI legò tutto un mondo di persone che non avevano una formazione, diciamo così, dottrinaria (penso ad Antonio Giolitti). Successivamente la guerra di Liberazione fece di lui un “funzionario di partito”, nel senso che, divenendo comandante, il rapporto con il PCI diventò più organico di quanto non lo fosse stato nel periodo clandestino. E poi Colajanni aveva un profondo senso della giustizia, della giustizia sociale. Lui era un uomo che frequentava l’aristocrazia, la borghesia, però quando c’erano gli scioperi, quando c’erano le battaglie dei contadini e dei minatori era sempre in prima linea. Colajanni era profondamente avversario delle ingiustizie sociali e come tanti riteneva che il Partito Comunista fosse più di ogni altro impegnato nella difesa dei lavoratori. Diventò comunista per questo, e durante il fascismo molti aderirono al PCI per la stessa ragione: Leonardo Sciascia, ad esempio, non si iscrisse mai al partito, eppure fece parte della cellula comunista di Caltanissetta, perché se voleva combattere il fascismo, con chi poteva farlo? Lo fece con Gino Cortese soprattutto, e poi con altri <46. […]
[NOTE]
1 Emanuele Macaluso (Caltanissetta, 21 marzo 1924-Roma, 19 gennaio 2021) aderisce al PCI clandestino nel 1941. Nel 1944 diventa segretario della Camera del Lavoro di Caltanissetta e dal 1947 al 1956 guida la CGIL siciliana. Deputato regionale dalla II alla IV Legislatura (1951-1963), nel 1956 lascia il sindacato per dirigere il PCI in Sicilia ed entra nel Comitato Centrale. Dal 1960 è membro della Direzione e successivamente fa parte della Segreteria e dell’Ufficio Politico. Deputato nazionale dal 1963 al 1976, poi senatore fino al 1992, dal 1982 al 1986 è direttore de l’Unità.
3 Giuseppe Alessi (San Cataldo, 29 ottobre 1905-Palermo, 13 luglio 2009), avvocato. Militante dell’Azione Cattolica, nel 1919 aderisce al Partito Popolare di Luigi Sturzo, alle cui attività partecipa alacremente fino allo scioglimento imposto dal fascismo. Il 16 dicembre 1943 nel suo studio di Caltanissetta, presenti Salvatore Aldisio, Bernardo Mattarella e Pasquale Cortese, viene fondata la Democrazia Cristiana in Sicilia. Deputato per quattro legislature, dal 1947 al 1963, all’Assemblea Regionale Siciliana (di cui è eletto all’unanimità presidente nel novembre 1956), guida il primo, il secondo e il quinto governo della Regione Sicilia (maggio 1947, marzo 1948 e luglio 1955). Eletto al Senato per la IV Legislatura (maggio 1963-giugno 1968) e alla Camera per la V (giugno 1968-maggio 1972), presiede l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana dal 1973 al 1992, anno delle sue dimissioni dall’incarico. Cfr. PACI, Deborah, PIETRANCOSTA, Fausto, «Il diacono e il celebrante. Giuseppe Alessi e Salvatore Aldisio: una pagina di storia siciliana attraverso la vita e l’esperienza dei due protagonisti dell’autonomia regionale», in Diacronie. Studi di Storia Contemporanea. Dossier : Luoghi e non luoghi della Sicilia contemporanea: istituzioni, culture politiche e potere mafioso, 3, 2/2010, URL: < http://www.studistorici.com/2010/07/30/paci-pietrancosta_diacono_dossier_3/ > [consultato il 27 marzo 2021].
4 ALESSI, Giuseppe, «Gettò via la toga per la sua fede politica», in L’Ora, 9 dicembre 1987, pp. 8-9. Il dattiloscritto integrale dell’intervento è in Archivio dell’Istituto Gramsci Siciliano, fondo Pompeo Colajanni (d’ora in poi AIGS, PC), b. 119, f. 29.
5 MACALUSO, Emanuele, «Gli 80 anni di Colajanni, il comandante “Barbato”», in l’Unità, 4 gennaio 1986.
6 Dopo lo scioglimento della Confederazione Generale del Lavoro, nel 1926, da parte del fascismo, il socialista riformista Rinaldo Rigola (Biella, 2 febbraio 1968-Milano, 10 gennaio 1954), che della CGdL era stato il primo segretario, assieme ad un gruppo di altri ex dirigenti confederali fondò a Milano, nel 1927, l’Associazione Nazionale Studi Problemi del Lavoro, che pubblicava l’omonima rivista, inizialmente con lo scopo di interloquire con l’orientamento corporativista del regime ma divenendone via via aperta sostenitrice. Attiratosi le feroci critiche del mondo antifascista, chiusa la rivista dal regime con l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale, Rigola si ritirò dalla politica attiva. Su queste vicende cfr. il profilo biografico di Rigola curato da ANDREASI, Annamaria, in ANDREUCCI, Franco, DETTI, Tommaso (a cura di), Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, vol. IV, Roma, Editori Riuniti, 1978, pp. 350-356; ALBERTARO, Marco, s.v. «Rinaldo Rigola», in Dizionario biografico degli italiani, URL: < https://www.treccani.it/enciclopedia/rinaldo-rigola_(Dizionario-Biografico)/ > [consultato il 28 marzo 2021]; ma per uno sguardo più ampio cfr. MATTERA, Paolo, Rinaldo Rigola. Una biografia politica, Roma, Ediesse, 2011.
7 «Acta diurna» era una rubrica de L’Osservatore Romano nella quale venivano commentati gli avvenimenti internazionali demistificando i messaggi del regime. Affidata da Monsignor Giovanni Battista Montini (futuro Papa Paolo VI) nel maggio 1933 a Guido Gonella (Verona, 18 settembre 1905-Nettuno, 19 agosto 1982), la rubrica divenne una lettura abituale degli antifascisti italiani, anche di area laica, a partire da Calamandrei, ma le sue pubblicazioni furono soppresse dal regime con lo scoppio della guerra. Gonella, che nel 1939 era stato arrestato e presto rilasciato grazie all’interessamento delle autorità vaticane, continuò la sua attività di redattore di politica estera per «L’Osservatore Romano», divenendo il commentatore ufficiale dei discorsi di Pio XII negli anni di guerra. Cfr. il profilo biografico di Gonella redatto da CAMPANINI, Giorgio, in Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995, Genova, Marietti, 1997, pp. 335-339.
8 Si fa riferimento a COLAJANNI, Pompeo, «I comunisti e l’organizzazione militare clandestina antifascista», in Quaderni Siciliani, 3-4, 1973, pp. 72-94, ma si veda anche ID., «Nord e Sud: cospirazioni parallele», in Il Contemporaneo, supplemento mensile di Rinascita, 35, 7 settembre 1973, pp. 31-33.
9 Cfr. AIGS, PC, b. 16, f. 2, Biografia, Roma 8 aprile 1946, e l’intervista pubblicata in VITALE, Francesca Paola, La memoria dei comunisti nisseni, Palermo, Istituto Gramsci Siciliano, 1988, pp. 53-72, p. 54.
10 Fernando Feliciani (Assisi, 15 maggio 1912) proveniva da Gorizia, dove era stato ispettore federale. Fu segretario del PNF di Caltanissetta dal 31 marzo 1940 al 1° giugno 1941. Il suo invio in Sicilia in sostituzione di Francesco Campanile, che aveva ricoperto l’incarico negli ultimi tre anni e mezzo, rientrava nel piano di profondo stravolgimento degli organigrammi provinciali voluto da Ettore Muti, divenuto segretario nazionale del PNF nel novembre 1939 dopo la liquidazione di Achille Starace. Tra la fine del 1939 e l’inizio del 1940 tutte le province siciliane (con l’eccezione di Siracusa) furono interessate da questo rinnovamento caratterizzato dalla sostituzione dei funzionari locali con elementi provenienti dalle regioni del Nord, ciò che rifletteva la diffidenza del duce e dei vertici del regime nei confronti dei siciliani, ritenuti poco affidabili. Cfr.: MISSORI, Mario, Gerarchie e statuti del P.N.F., Roma, Bonacci Editore, 1986, pp. 101, 205; BAGLIO, Antonio, Il Partito nazionale fascista in Sicilia. Politica, organizzazione di massa e mito totalitario (1921-1943), Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2005, p. 65.
11 La vicenda vide coinvolto anche Alessi. Per lui si dispose la sorveglianza speciale, malgrado il federale avesse proposto il confino. Cfr. ALESSI, Giuseppe, Incontri nella Chiesa nissena, San Cataldo, Centro studi sulla cooperazione “A. Cammarata”, 1986, p. 86.
18 Luigi Cortese (Caltanissetta, 4 luglio 1920-Palermo, 4 giugno 1989), studente universitario. Entra giovanissimo tra le file del PCd’I, partecipando all’organizzazione della rete clandestina nissena. Chiamato alle armi nell’agosto 1942, viene assegnato al 19° Reggimento “Cavalleggeri Guide” di stanza a Cittadella, in provincia di Parma. Dopo l’8 settembre, con il nome di battaglia “Ilio”, si pone alla testa dei primi gruppi partigiani della Val d’Enza e nel marzo ‘45 diviene commissario politico della 47a Brigata Garibaldi e poi della Divisione “Ottavio Ricci” che, al comando di Leonardo Tarantini “Nando”, partecipa alla liberazione di Parma. Rientrato a Caltanissetta, è tra i fondatori della Federazione provinciale del PCI, che guida come segretario dal 1945 al 1947. Candidato alla Costituente, consigliere comunale, diviene una delle figure di spicco del partito nell’isola: nel 1950 entra nella segreteria regionale ed è deputato all’Assemblea Regionale Siciliana per cinque legislature (dal 1947 al 1967). Cfr. Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. I, Milano, La Pietra, 1968, p. 689; FALCONE, Filippo, Sovversivi. Figure dell’antifascismo siciliano. La provincia nissena, Caltanissetta-Roma, S. Sciascia Editore, 2020, pp. 34-37, 193.
19 «Né in questo Capoluogo né in Provincia esiste un vero movimento sovversivo o un risveglio dell’attività comunista; non vi è neppure un’organizzazione antifascista che possa nuocere effettivamente al Regime. Sparutissimi avanzi di tramontati partiti, illusi che vivono nell’ombra, cautamente ed ininterrottamente vigilati, spiati e controllati nelle mosse e nello svolgimento della loro vita dai dipendenti organi di polizia, ricordano la loro origine politica e si mostrano riservatamente insoddisfatti e malcontenti dell’attuale situazione politica; però nulla operano che possa anche lontanamente turbare o compromettere l’ordine sociale e la pubblica tranquillità. […] Qui la persona che fra gli individui che costituiscono il gruppo suddetto, emerge quasi a capeggiatore è Sferrazza Vito fu Vincenzo e di Terrana Maria nato a Licata (Agrigento) il 26 gennaio 1897, dimorante a Caltanissetta, maestro elementare, già appartenente al partito socialista». ACS, Ministero dell’Interno (d’ora in poi MI), Dir. Gen. P.S., Div. Polizia Politica, Fascicoli per materia, categoria B. 19/2, b. 2, f. 15, Il prefetto di Caltanissetta al ministero dell’Interno, 7 novembre 1935.
20 Cesare Mori (Pavia, 1° gennaio 1872-Udine, 5 luglio 1942) divenne prefetto di Palermo con pieni poteri il 23 ottobre 1925. Le sue operazioni antimafia si protrassero fino al 1928; alla fine di quell’anno, dichiarata dal fascismo conclusa e vinta la campagna contro la mafia, fu nominato senatore del Regno e pochi mesi dopo, il 24 giugno 1929, collocato a riposo. L’iniziativa di Mori si contraddistinse per la durezza dei metodi utilizzati e per la grande quantità di arresti, spesso indiscriminati (donde il soprannome di “prefetto di ferro”), ma limitato fu il risultato in termini di repressione del fenomeno mafioso, soprattutto nelle aree interne dell’isola, dove l’organizzazione criminale aderiva strettamente al potere politico e sociale. Per una ricostruzione cfr. LUPO, Salvatore, L’utopia totalitaria del fascismo, in AYMARD, Maurice, GIARRIZZO, Giuseppe (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. La Sicilia, Torino, Einaudi, 1987, pp. 371-482, pp. 394-410.
21 Su Salvatore Di Benedetto (Raffadali, 19 novembre 1911-1° maggio 2006), figura centrale del movimento clandestino comunista in Sicilia e successivamente a Milano, partigiano e, nel dopoguerra, a lungo parlamentare e sindaco di Raffadali, cfr. ACS, CPC, b. 1770, f. “Di Benedetto Salvatore”, CARBONE, Salvatore, GRIMALDI, Laura, op. cit., pp. 196-197, e la sua autobiografia, Dalla Sicilia alla Sicilia. Reportage di mezzo secolo, Palermo-São Paulo, Ila Palma, 1977.
22 Nella primavera del 1943 a Lentini si svolse il congresso clandestino dei comunisti siciliani cui parteciparono una ventina di delegati provenienti da tutta l’isola. In quell’assise Boccadutri informò i compagni delle ultime disposizioni della direzione comunista relative alla necessaria collaborazione tra le forze antifasciste in vista dello sbarco degli Alleati, apprese da Elio Vittorini in un incontro svoltosi segretamente a Caltanissetta. Su questo episodio si veda il racconto romanzato (con una densa prefazione di Emanuele Macaluso) che ne ha fatto il figlio, BOCCADUTRI, Franco, Vittorini nella città degli angeli, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2019.
23 Franco Grasso (Palermo, 26 ottobre 1913-30 novembre 2007), studente universitario. Nella metà degli anni Trenta a Palermo è tra i promotori del “Fronte unitario antifascista”, per il quale intrattiene relazioni in varie province siciliane. Arrestato assieme a Salvatore Di Benedetto e altri il 12 febbraio 1935, trascorre due anni e quattro mesi al confino, prima a Ventotene e poi a Palmi. Dopo la guerra svolge a lungo l’attività di giornalista e critico d’arte. Cfr. ACS, CPC, b. 2512, f. “Grasso Francesco”, CARBONE, Salvatore, GRIMALDI, Laura, op. cit., pp. 261-262, e in generale il suo libro di memorie Le radici del presente. Racconti degli anni difficili, Palermo, Kalós, 2003.
24 Michelangelo Tignino (Gela, 1903-Catania, 6 ottobre 1983), agente assicuratore. A 16 anni si iscrive alla Gioventù Socialista, poi passa al movimento anarchico per approdare, infine, al Partito Comunista. Impegnato nella riorganizzazione delle cellule comuniste nella provincia di Catania, il 14 maggio 1932 viene arrestato assieme ad una trentina di compagni e subisce l’ammonizione. Dall’agosto 1943 lavora, con Agatino Maugeri, Simone Schicchi, Concetto Lo Presti e altri, alla ricostruzione della Federazione comunista, e in dicembre entra a far parte dell’Amministrazione provinciale guidata dal democratico del lavoro Roberto Giuffrida. Nel luglio 1945 subentra all’azionista Ciro Fiore nella Commissione Provinciale di Epurazione. Cfr. ACS, CPC, b. 5096, f. “Tignino Michelangelo”, e PEZZINO, Franco, D’ANTONE, Leandra, GENTILE, Sara, Catania tra guerra e dopoguerra (1939-1947), Catania, Edizioni Del Prisma, 1983, passim.
25 Giovanni Vendra (Sommatino, 11 settembre 1904-23 giugno 1987), aiuto contabile. Nel 1921 partecipa ai disordini contro il carovita e per l’occupazione che si svolgono a Sommatino. Emigrato a Grenoble nel 1928, svolge saltuariamente l’attività di muratore, imbianchino e operaio, in una situazione di estrema difficoltà poiché stabilmente controllato dalle autorità francesi e italiane. Tornato a Sommatino nel 1932, stringe un legame con Benedetto Auria e partecipa alle riunioni di segno antifascista che si tengono nella bottega di vino della moglie. Con Auria nell’agosto 1936 tenta di espatriare in Francia ma i due vengono individuati: Auria è arrestato alla stazione di Torino; Vendra, invece, a Modane, dopo essere riuscito a passare la frontiera di Bardonecchia nascosto sotto il sedile di un vagone. Fatti rientrare in Sicilia i due sono condannati a cinque anni di confino, che Vendra trascorre alle Tremiti e a Ventotene, mentre Auria tra le Tremiti, Ponza, Pisticci e Irsina. In quella stessa circostanza vengono tratti in arresto e confinati i maggiori esponenti locali della cellula clandestina comunista. Vendra rientra a Sommatino nel giugno 1941. Nel dopoguerra amministra la piccola azienda agricola familiare ed è dirigente della locale sezione del PCI. Cfr.: ACS, CPC, b. 5348, f. “Vendra Giovanni”; CARBONE, Salvatore, GRIMALDI, Laura, op. cit., pp. 524-525; FALCONE, Filippo, Antifascisti nisseni, cit., pp. 61-65.
26 Giuseppe Pesce (Riesi, 30 ottobre 1907), zolfataro. Arrestato nella operazione di polizia del febbraio ‘37 che sgomina la rete clandestina di Riesi, è tra le 16 persone condannate al confino, ma la pena viene poi commutata in ammonizione. Cfr.: ACS, CPC, b. 3889, f. “Pesce Giuseppe”; CARBONE, Salvatore, GRIMALDI, Laura, op. cit., pp. 406-407.
27 Filippo De Bilio (Riesi, 22 marzo 1894), contadino. Ha già diversi precedenti penali quando, nel 1919, partecipa alle agitazioni del dopoguerra guidate da Giuseppe Butera (è stato arrestato nel 1913 per minacce e nel 1916 per rapina). Durante il fascismo diviene un punto di riferimento dell’organizzazione clandestina comunista locale, assieme a Giuseppe Buffone, Pietro De Bilio, Antonio e Ferdinando Di Legami e altri. Tra il 1924 e il 1926 viene fermato per tre volte per attività sovversiva; nel 1927 è ammonito e iscritto nello “schedario dei sovversivi”. Nel febbraio 1937 finisce nella retata che sgomina la rete clandestina di Riesi ed è tra le 16 persone confinate: gli vengono comminati cinque anni, che sconta tra le Tremiti, Gizzeria e Lauro. Cfr. ACS, CPC, b. 1642, f. “Debilio Filippo”; CARBONE, Salvatore, GRIMALDI, Laura, op. cit., pp. 181-182.
28 Nell’autunno del 1919 Riesi fu teatro di robuste mobilitazioni per il miglioramento dei patti agrari e l’accesso alla terra in applicazione del decreto Visocchi. L’8 ottobre la forza pubblica sparò sui lavoratori uccidendone dieci, una cinquantina rimasero feriti e parecchie decine di loro furono arrestati. La folla inferocita costrinse i militari – che lamentarono un morto e due feriti – a fuggire dal paese e proclamò la “repubblica di Riesi”. Pochi giorni dopo, però, il 12 ottobre, tremila soldati, al comando di un generale, rioccuparono militarmente il paese. Cfr. in proposito la testimonianza dello stesso De Bilio alla voce Caltanissetta in Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, cit., pp. 427-428.
29 Cfr. VITALE, Francesca Paola, op. cit., pp. 67-69.
30 Giovanni Ayala, proprietario terriero, nel maggio 1929 succede al clerico-moderato Ernesto Vassallo, primo podestà di Caltanissetta (dal 1927). Rimane in carica fino all’ottobre 1932.
31 Cfr. VITALE, Francesca Paola, op. cit., p. 64.
32 Il riferimento è a BRANCATI, Vitaliano, Il vecchio con gli stivali [ed. or.: 1946] e La noia nel ‘937 [ed. or.: 1945], in ID., Il vecchio con gli stivali e i racconti, Milano, Bompiani, 1958, pp. 141-180, 221-232.
33 Francesco Campanile (Caltanissetta, 19 luglio 1900), commerciante. Fascista della prima ora, è membro del Direttorio federale dei fasci di combattimento dal 1922 al 1926. Nel settembre 1935 diviene presidente dell’Amministrazione provinciale e nel settembre successivo è nominato segretario federale del PNF di Caltanissetta in sostituzione del padovano Angelo Rossi, mantenendo l’incarico fino al 31 marzo 1940. Cfr. MISSORI, Mario, op. cit., p. 181.
34 Campanile aveva subìto la menomazione di una gamba nei moti di piazza della primavera del 1921 durante i quali era stato ucciso il giovane fascista Gigino Gattuso. Il federale era in rapporti stretti con Vitaliano Brancati poiché la moglie, Cassandra Calogero, era cugina della madre dello scrittore, Antonietta Ciavola. Nonostante ciò, Brancati non esitò ad annoverarlo tra le espressioni caratteristiche di quella sonnolente città, metafora della noia («il mantello del federale zoppo nella nebbia del tramonto»). Cfr. BRANCATI, Vitaliano, La noia nel ‘937, cit., p. 228.
35 Cfr. ad esempio la sua orazione funebre pronunciata, alla morte di Brancati, nella seduta dell’Assemblea Regionale Siciliana del 29 settembre 1954, riportata in COLAJANNI, Pompeo, «Ricordo di Brancati», in L’Unità della Sicilia, 1° ottobre 1954.
36 A Caltanissetta Brancati trascorse quasi due anni, tra il 1937 e il 1938, insegnando italiano e storia all’Istituto magistrale “IX Maggio”. La città diventò il palcoscenico di alcuni suoi testi e racconti, tra i quali, oltre ai già citati Il vecchio con gli stivali e La noia nel ‘937, si veda la “Lettera al direttore” su «Gli amici di Nissa», in Omnibus, 5 marzo 1938, p. 7, «Argomento preferito», cit., e «Sogno di un valzer», in ID., Sogno di un valzer e altri racconti, SICILIANO, Enzo (a cura di), Milano, Bompiani, 1982 (uscito in undici puntate su Quadrivio tra giugno e agosto 1938), pp. 3-69, ove il personaggio dell’avvocato Edoardo Lorena è chiaramente ispirato a Colajanni.
37 Si tratta di BRANCATI, Vitaliano, «Diario», in Corriere della Sera, settembre 1951, ora in ID., Diario romano, Milano, Bompiani, 1994 [ed. or.: 1961], pp. 302-304.
38 «[Pompeo] parlava ed operava come se non fossimo in regime dittatoriale: non trascurava nessuna occasione per predicare l’avvento del comunismo, con la euforica entusiasta predicazione dell’imminente suo trionfo in Italia! Un entusiasmo che […] lo portava a tentare di convincere persino i Consoli della Milizia, si che veniva da dubitare che Pompeo fosse nel pieno possesso di un normale equilibrio». ALESSI, Giuseppe, «Gettò via la toga per la sua fede politica», cit., p. 8.
39 ACS, MI, Dir. Gen. P.S., Div. Aff. Gen. Ris., 1943, categoria K1-B, b. 74, Il prefetto di Caltanissetta alla Direzione Generale di PS, 19 febbraio 1943. Calogero Geraci (Caltanissetta, 31 agosto 1901), esercente di una pasticceria, era già da tempo vigilato. Nel settembre 1940, accusato di essersi «compiaciuto dell’avvenuto bombardamento di Torino che, a suo dire, non sarebbe stato né l’ultimo né il più grave», era stato ammonito, assegnato al campo di concentramento di Monteforte Irpino e successivamente internato nel comune di Forino. Ibidem, 1941, categoria K1-B n. 15, b. 50, Relazione del questore di Caltanissetta alla Direzione Generale di PS, 31 dicembre 1940.
40 Il 16 settembre 1944, durante un comizio a Villalba, Girolamo Li Causi e il gruppo di nisseni che lo accompagnavano, assieme al segretario della locale sezione socialista, Michele Pantaleone, furono oggetto di colpi d’arma da fuoco e lancio di bombe a mano da parte degli uomini del boss mafioso Calogero Vizzini. Rimasero ferite quattordici persone, tra le quali lo stesso leader comunista.
44 L’inedita coalizione suscitò grande clamore nel Paese e la vicenda venne seguita dai maggiori organi di stampa, ma entrò presto in crisi, concludendosi nel febbraio 1960. Per una ricostruzione cfr. BASILE, Pierluigi, «Per l’Autonomia, contro la partitocrazia. L’autonomismo sicilianista di Silvio Milazzo», in Diacronie : Luoghi e non luoghi della Sicilia contemporanea: istituzioni, culture politiche e potere mafioso, 3, 2/2010, URL: < http://www.studistorici.com/2010/07/30/basile_milazzo_dossier_3/ > [consultato il 29 marzo 2021].
45 Sulla visione di Colajanni di questa particolare fase della vita politica siciliana, interpretata come sbocco naturale del processo resistenziale, mi permetto di rinviare al mio: ALBANESE, Carmelo, Una «Resistenza perfetta» per l’unità autonomista. Il discorso pubblico di Pompeo Colajanni «Barbato» (1955-1960), in BARIS, Tommaso, VERRI, Carlo (a cura di), I siciliani nella Resistenza, Palermo, Sellerio Editore, 2019, pp. 372-393.
46 Sciascia parla di quella fase così importante della sua vita («A pensare oggi a quegli anni mi pare che mai più avrò nella mia vita sentimenti così intensi, così puri. Mai più ritroverò così tersa misura di amore e di odio; né l’amicizia la sincerità la fiducia avranno così viva luce nel mio cuore») ne Le parrocchie di Regalpetra, Milano, Adelphi, 2011 [ed. or.: 1956], pp. 52-58, p. 54.
Carmelo Albanese, Pompeo Colajanni e l’antifascismo in Sicilia. Un dialogo con Emanuele Macaluso, Diacronie. Studi di Storia Contemporanea, 46, 2/2021