Donne della Resistenza nel Grossetano e nel Senese

Fonte: ANPI Grosseto cit. infra

[…] Declinare al femminile la scelta intanto obbliga a mettere in questione l’immagine di un’adesione spontanea e irriflessa e tutta inscritta nel “naturale”, che ne offusca i caratteri forti di storicità, e restituisce all’adesione delle donne – Resistenza armata o Resistenza civile – un significato di libertà “implicito nel suo essere atto di disobbedienza” in quanto “disobbedienza a chi aveva la forza di farsi obbedire”[3]. Il valore non secondario di questo tipo di approccio si estende alla riflessione sul confine tra Resistenza civile e Resistenza armata, tra i diversi livelli dell’uso della violenza, dal rifiuto delle armi, all’uso della violenza “necessaria”, alla violenza “gratuita”. La casistica che emerge da molte nuove testimonianze e da alcune storie di vita rende ragione dell’ipotesi di attribuzione ai gesti delle donne di un significato politico, oltre la spontaneità del bisogno di cura tipicamente femminile, oltre il confine della risposta ai bisogni elementari di padri, mariti, fratelli. Dunque permette di declinare non solo ma anche come scelta politica la loro partecipazione alla lotta partigiana, in più, all’interno di un confronto accettato con l’esperienza della violenza della guerra, guerra civile, ma che contiene anche le tracce di un’adesione – pur non sempre consapevole – ad un’etica della responsabilità. Su questo aspetto scontiamo molti silenzi, di cui Anna Rossi Doria coglie implicazioni e conseguenze, quando richiama l’attenzione sul “nesso forte ancora in gran parte da indagare tra il mancato riconoscimento sociale e politico del ruolo svolto dalle donne partigiane e dalle deportate alla fine della guerra e le generali debolezze e difficoltà…della costruzione della cittadinanza delle donne”[4].
A questi oggi si corre il rischio di aggiungere altri silenzi, dettati da quell’uso politico della storia che in Italia da tempo sta condizionando il discorso pubblico sulla Resistenza.
Il caso di cui si tratta in queste brevi note è quello della Toscana meridionale, precisamente del territorio delle due province di Siena e Grosseto.
Le aree geografiche e sociali senese e grossetana hanno tra loro più di una similitudine: economie rurali e – soprattutto nel grossetano – grandi spazi extraurbani, luoghi ideali per la vita alla macchia; realtà sociali teatro di aspri conflitti che hanno attraversato la prima metà del Novecento, un fascismo robusto che attrasse ceti agrari e non privo di collegamenti tra i due territori – basta pensare alla presenza di Giorgio Alberto Chiurco nelle prime azioni squadristiche a Grosseto. Sono conflitti sociali e politici che si dispiegheranno fin dopo la fine della guerra, sul terreno delle lotte per la terra, con una consistente partecipazione femminile, e anche in questo caso una correlazione di persone, uomini e donne, come Emo Bonifazi a Wanda Parracciani, leader del Partito Comunista Italiano attivi in momenti diversi nelle due aree. Sono anche territori che hanno conosciuto una partecipazione civile alla Resistenza che ha coinvolto ampiamente la campagna: molta “Resistenza taciuta”, nessun episodio di memoria divisa, nemmeno sulla strage degli 83 minatori della Niccioleta, uccisi dai nazifascisti nel 1944.
Guardando alle donne che aderirono alla Resistenza: sulle ventidue senesi di cui conosciamo almeno in parte la storia, tre sono di estrazione piccolo-borghese, mentre la maggior parte appartiene a famiglie mezzadrili, di operai e artigiani. Sono storie mai indagate prima, come dimostra un vecchio studio del ’78 sulla Resistenza delle donne toscane, che parla di Siena come di zona quasi vuota di partecipazione femminile. Simile la condizione sociale delle grossetane, meno numerose.
Un fenomeno rimasto da sempre nella memoria locale, che la documentazione d’archivio conferma, sono le dimostrazioni di donne, nel senese e nel grossetano, tra fine ’43 e estate ’44. In molte scesero in piazza per sottrarre le famiglie dei giovani renitenti all’arresto. Chiusdino, Manciano, Massa Marittima vedono donne schierarsi contro le autorità del fascismo repubblicano e compiere un atto di rivolta, cui spesso segue, come premio al loro coraggio, la scarcerazione delle madri arrestate.
Quello che pare delinearsi rispetto alla loro scelta è un intreccio tra dimensione politica, morale e culturale.
Un’analisi comparata tra le diverse storie di vita ricostruite rivela in molti casi all’origine la presenza di un uomo. A Santa Fiora Wanda Parracciani è membro del GAP, al seguito dell’uomo che poi sposerà, il futuro parlamentare comunista Fernando Di Giulio. Con lui lavora all’inizio ad un giornale clandestino e in seguito rifornisce di viveri e armi la banda partigiana dell’Amiata.
Nara Scaloncini, adolescente di 13-14 anni, di fronte ad una condanna del fratello, scarcerato per l’intervento della madre, avverte la necessità di una solidarietà familiare totale – dice: lì o ci si salvava tutti o nessuno. Quando il fratello fa la scelta partigiana, diventa staffetta, porta borse piene di soldi, viveri, informazioni. Le saranno riconosciute due azioni; il suo nome è scolpito nel Palazzo pubblico, a Siena.
Sulle colline del Fiora, nel sud della provincia di Grosseto, la moglie del comandante della BAM, incinta, decide di condividere con il marito la vita alla macchia insieme ad un’altra donna. Tutt’e due rimarranno nella banda fino al suo scioglimento, in seguito ad un rastrellamento fascista.
Licena Boschi, grossetana, dopo aver seguito il marito antifascista al confino negli anni Trenta, rimane sola con due figli, quando lui muore, vittima di un bombardamento alleato. Sfollata con la famiglia in provincia di Lucca, partecipa lì come staffetta alla Resistenza.
Edda Servi, ebrea pitiglianese, quando i genitori vengono internati in un campo di concentramento provinciale, va alla macchia coi fratelli. Qui c’è la somma delle due condizioni: perseguitata come ebrea e ricercata per la compromissione con la Resistenza.
Vera Aldinucci Avanzati ha nel padre un esempio di impegno antifascista e matura la sua partecipazione alla Resistenza dopo l’incontro con Fortunato Avanzati, Viro, comandante della mitica banda Spartaco Lavagnini.
Sarà l’antifascismo del marito, oltre a circostanze particolari, a segnare una svolta nella vita di Lina Pianigiani Orlandini, di famiglia senese benestante e conservatrice.
Mentre per Bruna Talluri, figura di rilievo come intellettuale nell’antifascismo azionista senese durante e dopo la guerra, c’è all’origine dell’impegno ancora prima del 25 luglio ’43 una personale riflessione, sollecitata dalla condanna al confino subita dal padre.
La peculiarità di queste storie si rivela se le seguiamo dopo, perché mostrano forme diverse di elaborazione, ma tutte una maturazione che avviene durante e dopo quell’esperienza senza precedenti. Wanda Parracciani e Licena Boschi scelgono subito l’impegno politico comunista. Licena è la prima donna consigliera comunale ed assessore della Grosseto liberata. Di lei articoli pubblicati su un periodico locale mostrano uno straordinario attivismo nella gestione dei servizi sociali, ma anche una consapevolezza precisa dei nuovi compiti politici delle donne, dopo la conquista del diritto di voto.
Di Wanda abbiamo un intervento appassionato dell’agosto 1944 – a due mesi dalla Liberazione di Grosseto – sui compiti politici delle donne, in una conferenza di organizzazione del PCI grossetano. Lì si esprime con chiarezza a favore di un’impostazione larga, come organizzazione di tutte le donne antifasciste, da dare alla neocostituita Unione Donne Italiane, con accenti diversi da quelli che nello stesso contesto esprimeva la Direzione del PCI locale. E dichiara un’intenzionalità politica ferma, quando dice: “La donna non intende fermarsi a quello che ha fatto in circostanze eccezionali”. In seguito sarà al fianco delle mezzadre per la conquista di diritti nel lavoro e rispetto al ruolo familiare, prima tra Siena e Grosseto, poi nel Lazio, dove dice di aver fatto la sua più importante conquista cacciando i Torlonia dai loro latifondi.
Sembrano percorsi simili, forse non eccezionali, ma significativi per la capacità di coniugare una dimensione d’impegno politico generale con la maturazione di una consapevolezza di genere. Soprattutto la Parracciani, che intuisce già nelle lotte agrarie degli anni Cinquanta la necessità di una solidarietà con le donne di diverso orientamento politico (legate alla Democrazia Cristiana) della Coldiretti, su battaglie che riguardano per esempio i rapporti proprietari all’interno del nucleo familiare e la rivendicazione di un ruolo nella produzione di reddito del nucleo familiare: è il problema del lavoro “invisibile” delle donne in agricoltura, rivendicato non intermini di lotta di classe, ma rispetto a padri e mariti. Quello che ho rintracciato nella ricerca sul grossetano è un filo sotterraneo di continuità tra questa impostazione e l’emersione, decenni dopo, di una soggettività femminile più matura. È come un fiume carsico che scorre sotto le battaglie di quelle che ho chiamato donne “che lottano per gli uomini” – le lotte per i minatori, per esempio, che occupano tutti gli anni Cinquanta e buona parte dei Sessanta – per emergere negli anni Settanta, quando le donne “lottano con le donne” su contenuti propri. Come una staffetta tra generazioni.
L’incipit dell’impegno di Bruna Talluri mi è parso avere qualche similitudine con la storia di vita di Rossana Rossanda, per una spinta interiore alla riflessione e la ricerca conseguente di una guida di carattere politico. Nella sua ricostruzione sembra avere avuto idee chiarissime: “Mi interessava la lotta contro i tedeschi, la Repubblica, perché condannavo l’atteggiamento di Sua maestà Vittorio Emanuele III, e mi interessava la democrazia”. Da lì l’esperienza di animazione di un nucleo di giovani intorno al Partito d’Azione e un lavoro quotidiano e pericoloso di contatti, proselitismo, attività a fianco degli antifascisti tra città e campagna.
Ma la storia più affascinante mi è parsa quella meno “pubblica”, la storia dell’adolescente Nara Scaloncini. Finita la guerra, tenta di reinserirsi nella scuola, ma si sente “diversa”, emarginata, lei con la sua esperienza precoce. Lotta con atteggiamenti che definisce “fascisti” degli insegnanti e finisce per uscire e non mettere più piede nella scuola. Studia privatamente, diventa insegnate di biologia e vive silenziosamente, con le sue medaglie mai mostrate a nessuno. Fino a quando ci siamo incontrate – è stata lei a cercare l’Istituto storico della Resistenza di Grosseto – e ha raccontato la sua storia, i suoi pudori, le battaglie solitarie a scuola negli anni degli scontri politici con i ragazzi che esibivano croci celtiche. Un giudizio sulla madre mi ha colpito, durante un’intervista di alcuni anni fa, quando racconta il rilascio del fratello, condannato a morte per diserzione, grazie a un incontro della madre con un gerarca del fascismo repubblicano senese. Dice: “Dette qualcosa. Io no so quello che dette, ma qualunque cosa abbia dato fece bene”. Questa restituzione di memoria, possibile solo dopo una lunga elaborazione e in un contesto di mentalità e cultura lontano dal 1944, fa riflettere proprio sui percorsi della memoria e su quell’evoluzione delle storie possibili della Resistenza delle donne nel mutare dei contesti storici e culturali.
Io ho visto in queste storie una sintesi tra la risposta all’emergenza della guerra e del fascismo di tipo privato – la spinta della solidarietà familiare, la risposta naturale, spontanea ai bisogni della vita materiale – e la percezione di un nesso tra pubblico e privato, l’intuizione di un significato del loro agire che oltrepassava la sfera dei sentimenti strettamente privati. Sono donne che avevano accanto un uomo, da cui inizialmente aveva avuto origine la scelta, ma in tutte c”è alla fine un protagonismo femminile autonomo e dopo, quasi sempre, una capacità di sfidare condizioni difficili di vita, proprio grazie al valore aggiunto di una coscienza arricchitasi per aver speso in modo “eccezionale” il proprio ruolo femminile. Altra cosa la possibilità che verrà effettivamente data loro di misurarsi con il politico. Io non ho verificato la tesi dell’allontanamento immediato dalla politica, al contrario, una spinta forte all’impegno, ma poi un ripiegamento successivo, dimostrato per esempio dalla diminuzione negli anni Sessanta delle presenze nei consigli, in alcuni comuni. Certo è piuttosto singolare che Bruna Talluri, tra l’altro insegnante di storia e filosofia nei licei senesi, dica “non ricordo, perché non ho mai pensato a ricostruire questo periodo”. Ancora un silenzio, per mancanza di domanda – l’intervista a Bruna è del 1993 – ma anche per una mancata offerta di memoria – oblio/rimozione? Non le è stato chiesto.
La storia più difficile da raccontare è quella di una giovane donna medaglia d’oro al valor militare, uccisa da tedeschi e fascisti insieme nel giugno del ’44. Difficile, perché nonostante si siano sprecate lodi all’eroismo – un opuscolo UDI del 1944 è il primo documento; sono seguiti lapidi, intitolazioni di strade nella sua città (Massa Marittima) – di lei sappiamo poco. La sua morte non è stata mai completamente descritta e della sua vita abbiamo ricostruzioni abbastanza generiche. Si è parlato di rimozione della memoria di un evento che segnava la comunità: i fascisti locali ne erano corresponsabili. Ma anche di un’immagine di questa ragazza sfuggente: cattolica, diffondeva volantini con falce e martello, sposata con un figlio, vivace oltre la misura accettabile dall’ambiente, sempre pronta a rischiare senza un minimo di prudenza.
Le poche informazioni contenute nelle pubblicazioni locali e le memorie raccolte però suscitano suggestioni di carattere simbolico. L’ultima provocazione a fascisti e tedeschi di Massa Marittima fu il tentativo di dare sepoltura a partigiani uccisi, nonostante il divieto imposto. Impossibile non evocare la disobbedienza di Antigone e la legge del cuore che sfida il tiranno di Tebe. Una delle più ricche tra le testimonianze di donne della sua città ha raccontato la notte del ritrovamento del cadavere di Norma Parenti, la pietas delle donne che silenziosamente lo vanno a recuperare e il funerale: solo donne e bambini, che attraversano veloci le strade di Massa. La testimone era allora una bambina: ricorda le gambe che si muovevano svelte e il silenzio, rotto dal rumore dei passi. Prima la sepoltura dei partigiani, poi quella di Norma Parenti: il rito del funerale che si fa evento di significato pubblico. Il tema metastorico del culto dei morti si congiunge col tema politico del contrasto con un potere tirannico che calpesta il dovere della pietà umana, interpretato da queste donne.
Le donne di Massa Marittima sono state nell’immediato dopoguerra protagoniste vivacissime di una stagione politica: l’UDI, gli incarichi amministrativi, le lotte a fianco dei minatori. È soprattutto qui che ho verificato un iniziale entusiasmo e poi una caduta, misurabile attraverso una scomparsa delle donne dall’amministrazione locale, un apparente paradosso, se misurato con i caratteri originari del movimento
Non era stata solo la storia di Norma a mobilitarle, ma nei racconti di queste donne che ho ascoltato ho avvertito la percezione da parte loro di una scelta che era ricaduta su tutte. La sfida di Norma è la sfida anche di altre (Sartre parlava di scelta dell’individuo che è sempre “scelta per tutti”): la vedova del partigiano che scende in strada, dopo il funerale del marito, con una grembiule rosso fiamma: “La Resistenza si faceva anche così” – mi dice una testimone. Di un’altra categoria di donne ho trovato una traccia interessante: quelle in cui l’impegno concreto sul fronte antifascista si accompagna ad uno spessore culturale che produce riflessioni e giudizi di valore significativi. Una in particolare, che ha lasciato un diario, pubblicato in Inghilterra e poi tradotto dopo molti anni, con un’introduzione di Piero Calamandrei. È Iris Origo, inglese, sposata ad un italiano, intellettuale raffinata. Ha vissuto in Val d’Orcia, nella provincia di Siena, nella fattoria La Foce, che fu rifugio per sbandati, donne e bambini, ebrei e partigiani fino al passaggio del fronte. Il diario comincia il 30 gennaio del ’43 e si conclude il 5 luglio ’44. Da una condizione di privilegio economico e sociale, la Origo insieme al marito comincia con un’opera di assistenza per l’emergenza bellica e passa poi con naturalezza al sostegno alla Resistenza e a tutti i perseguitati. La scrittura del diario è motivata nell’introduzione dal desiderio “di lasciare alle nostre bambine, qualora io fossi stata arrestata o deportata in Germania” la vita di quei mesi, quindi una spiegazione tutta privata, ma anche dalla necessità di far conoscere fuori d’Italia la guerra e la Resistenza italiane. C’è un giudizio “a caldo” sull’uccisione di Gentile, giudicata spregevole e “degn[a] di quell[e] commess[e] sull’altro fronte”. Subito dopo, nella stessa pagina, la descrizione di una mattinata passata a tentare “di alterare la data di nascita sulla carta d’identità d’un giovane disertore”. C’è la condanna dei bombardamenti alleati, accompagnata da una meditazione malinconica sulle ragioni opposte dei fascisti e degli alleati. Già nel maggio del ’43, prima della caduta del regime e dell’inizio della Resistenza c’è lo sguardo dall’esterno sugli italiani, vittime della guerra fascista: “Nella gran massa della nazione la nota dominante rimane sempre un’abulia sorda, fatalistica, l’accettazione della sciagura che cade dal cielo, come la gente che vive all’ombra del Vesuvio o del Fujiyama accetta i fiumi di lava infuocata. Tutto questo – secondo loro – fa parte della guerra, la guerra che non vogliono e non hanno mai voluto. Ma non sono pronti ad agire, o per lo meno, non lo sono ancora”.
C’è un precorrimento dell’esplosione della lotta partigiana. Insieme una lucida denuncia di quella che oggi chiamiamo la vasta zona grigia. Anche qui, con il valore aggiunto di una sottile elaborazione intellettuale, nessun vero diaframma tra pubblico e privato, tra sfera dei sentimenti e intenzione politica. Nella estrema diversità degli strumenti e del vissuto precedente, e anche della condizione sociale, c’è qualche analogia nelle aspettative. Le ultime parole del diario sono: “Siamo stati visitati dalla distruzione e dalla morte, ma ora c’è una speranza nell’aria”[5]. La speranza delle donne di Massa Marittima, quella di Wanda Parracciani e delle mezzadre di cui condivide le lotte, quella della giovane studentessa, che rifiuta il “fascismo esistenziale” degli insegnanti di fine anni Quaranta, formulano una richiesta di politica.
Ulteriore riflessione, che investe i caratteri della scelta: quasi sempre in queste storie si esprime un’adesione morale all’uso della violenza necessaria. Bruna Talluri dice “non ho sparato nemmeno una fucilata”, ma le obiezioni di un “benpensante cattolico” perché “i partigiani avevano ucciso” le ricorda così: “A me mi cascarono le braccia. Dico: ma che credono che la Resistenza si faccia con le avemarie?” In Iris Origo, dopo la severa condanna dell’uccisione di Gentile e dei bombardamenti alleati, quell’espressione di un’impazienza personale, che si oppone al fatalismo di chi guarda alla guerra come a una catastrofe naturale e la piena accettazione della necessità di agire, evidentemente con un’opposizione concreta al fascismo. La Origo non è una partigiana, ma la sua è una scelta netta e consapevole fuori dalla zona dell’attendismo, esercitata con l’azione prima e poi con il contributo della testimonianza.Una testimone mi parla di un giorno, appena liberata la città, in cui fu linciato un repubblichino che aveva commesso atrocità in una guerra partigiana che a Massa Marittima fu la più intensa di tutta la provincia. La sua mamma e le altre donne, le stesse che poi saranno il nucleo forte dell’UDI, contestarono aspramente la vendetta dei loro uomini. Un’altra donna mi ha raccontato il suo pianto per la bastonatura di un repubblichino: sono queste rappresentazioni di un invito a collocarsi dalla parte giusta, come dice Anna Bravo, a “non ridursi come loro”[6]. È qui che io credo si possa intravedere un esercizio spontaneo di un’etica della responsabilità, non il ritrarsi della violenza tout court, ma il rifiuto della violenza “gratuita”, di quel sovrappiù di conservazione della categoria di “nemico” che si ha dove e quando la guerra civile non finisce con la conclusione ufficiale della guerra. Un dato di cui tener conto è che la Resistenza della Toscana meridionale è stata relativamente più breve. La popolazione si è dovuta misurare con la violenza delle stragi soprattutto nell’inizio dell’estate del ’44, ma altri territori sono stati devastati molto di più e hanno conservato ferite e rancori più profondi, oltre la fine della guerra.
Nel clima difficile dei nostri anni hanno avuto grande risonanza le riflessioni su donne e violenza negli anni Settanta, sollecitate qualche tempo fa da Anna Bravo: non sono un tema facile. E non possono non toccare l’inizio del percorso dell’Italia repubblicana, dunque coinvolgere la lettura della Resistenza. Le donne negli anni Settanta, le donne nella Resistenza. Anche se sono esperienze lontane e profondamente diverse. C’è un passaggio nel saggio di Anna Bravo su Genesis in cui è adombrata la ricostruzione di una genealogia dell’accettazione della violenza. Vale la pena citarlo: “È stata maschile anche la rilettura del passato… Rosa Luxemburg in qualità di teorica, Dolores Ibarruri di capopopolo, e la splendida ragazza col fucile del manifesto sulla liberazione di Milano in veste di icona da appendere formato poster alle nostre pareti. Se la “Resistenza taciuta”, con le sue vite di partigiane comuniste, 10 su 12 disarmate, fosse uscita un anno prima, forse non ce ne saremmo accorte”[7].
Si può osservare che il riconoscimento della storicità degli eventi di cui le donne citate furono protagoniste impone quella forma particolare di strabismo, cui gli storici sono abituati. Da domande intimamente connotate dai caratteri del presente all’immersione totale nel clima che connota il passato. Con la consapevolezza che l’intervallo che ce ne separa produce effetti a volte dirompenti. Voglio dire che la comprensione della Resistenza, della Resistenza civile o armata, della Resistenza degli uomini e delle donne, non può assumere la lente dei problemi che la cultura attuale pone rispetto agli anni Settanta.
Certo non è facile misurarsi oggi con la retorica dell’eroismo per la patria e con gli stereotipi del ’44 e ’45. Due immagini prodotte dalla cultura di allora fanno riflettere. La prima: Norma Parenti in opuscoli e poesie del ’44:
“mentre sul litorale maremmano infieriva la rabbia tedesca e fascista…piegò la sua volontà di soccorritrice di animatrice di combattente di martire…donò coraggio ai timorosi e accrebbe audacia ai forti e fu martoriata dalla feroce bestialità dei suoi carnefici”.
Seconda: il partigiano raccontato da una mostra del ’45 come l’eroe della stagione resistenziale…. colui che dopo la tempesta ha consentito ai “primi lembi di terra” di “risvegliarsi al sole della libertà”. La figura materiale del partigiano è gigantesca, “avanza riconoscibile a qualsiasi sguardo come un vero soldato: il volto severo, lo sten e al collo il fazzoletto colorato, simbolica mostrina di questo nuovo esercito di popolo”. È la retorica dell’eroismo per la patria che è nelle lapidi o nei cippi ottocenteschi, come nei monumenti ai caduti della Grande guerra, ma quello che dobbiamo capire è che lì ha un sovrappiù di senso perché l’immagine del partigiano o della partigiana si deve liberare prepotentemente della definizione di “bandito” per assumere quella opposta di eroe o di eroina. […]
[NOTE]
[3] C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991: 25.
[4] A. Rossi Doria, Intervento, in Resistenze. Soggettività delle donne tra passato e presente, a cura di L. Ronchetti, V. Serafini e M. Tola, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento delle Pari Opportunità, Roma 2001: 85.
[5] I. Origo, Guerra in Val d’Orcia, Vallecchi, Firenze 1968, passim.
[6] A. Bravo, Donne e uomini nelle guerre mondiali, Laterza, Roma-Bari 1991: 114.
[7] A. Bravo, Noi e la violenza. Trent’anni per pensarci,”Genesis” II, 2004: 17-56.
Luciana Rocchi, “Donne e Resistenza nel Grossetano e nel Senese”, La Clé des Langues [en ligne], Lyon, ENS de LYON/DGESCO (ISSN 2107-7029), mars 2008. URL: http://cle.ens-lyon.fr/italien/civilisation/xxe-xxie/seconde-guerre-mondiale/donne-e-resistenza-nel-grossetano-e-nel-senese

Il testo che segue, pubblicato qui con l’autorizzazione dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, è il paragrafo Resistenza al femminile del capitolo Tempo di guerra, tratto da: L. Rocchi, S. Ulivieri, Voci, silenzi, immagini. Memoria e storia di donne grossetane (1940-1980), Carocci, Roma 2004. Il volume è risultato di una ricerca sulla storia delle donne grossetane, condotta dall’ISGREC, con la collaborazione della Commissione PP. OO. della Provincia di Grosseto. che ha prodotto anche una seconda pubblicazione: Luciana Rocchi,Cinzia Pieraccini, Barbara Solari, Stefania Ulivieri (a cura di) Voci, silenzi, immagini. Fonti per una storia delle donne grossetane tra gli anni Quaranta e Ottanta,C&P, Arcidosso 2005.
Nell’ambito delle ricerche sull’impegno sociale e politico delle donne grossetane tra guerra e dopoguerra, segnaliamo anche: Barbara Solari Presenze femminili. “le amiche della miniera” di Ribolla” (1951-1954), Edizioni Effigi, Arcidosso 2007.
Non c’è ragione di dubitare del significato politico della Resistenza delle donne, senza dimenticare che in quella stagione politica il significato di “politicità” è complesso, e non solo per le donne. Rimangono importanti le parole “di rottura” di Franca Pieroni Bortolotti: «Le “donne della Resistenza “ erano sempre “mamme e spose” di casa, capaci di un doppio lavoro, di un doppio dovere, e se non si parlava di una doppia morte, era proprio soltanto perché al mondo si muore – perfino le donne – una volta sola» <1. Cui si deve aggiungere la presa d’atto di una grande varietà di condizioni di scelta e di atteggiamenti successivi.
E’ documentata addirittura una presenza femminile di un certo rilievo nell’antifascismo grossetano degli anni Venti: un’insegnante di matematica e fisica di prima nomina nel Liceo Ginnasio di Grosseto nell’anno scolastico 1926/27, di origine torinese, Battistina Pizzardo, comunista, la cui storia di vita è stata ricostruita da Giovanni De Luna <2. La sua vicenda si è intrecciata con quella di Cesare Pavese – Tina è «la donna dalla voce rauca» – e successivamente con quella di Altiero Spinelli. La sua breve permanenza a Grosseto è descritta sommariamente da De Luna, ma è tale da farci intendere che il suo fu un passaggio importante in Maremma, come fiduciaria del PCI, di cui riuscì a ritessere le fila, dopo lo sgretolamento degli anni di affermazione del regime fascista. In questo compito fu affiancata da Assunto Aira (un «carichino» di carbone grossetano) <3 e lo svolse con uno straordinario attivismo. Fu scoperta ed arrestata, come era inevitabile, in capo a meno di un anno, e condannata. La sua è dunque una presenza breve ed esterna, importante sul momento, ma priva di un seguito e di legami con il primo femminismo grossetano, attestato da articoli comparsi su “Il Risveglio”, settimanale della provincia di Grosseto, stampato tra 1909 e 1921, in cui si parla di voto alle donne, di divorzio, ed è presente in alcuni numeri una “Rubrica delle donne”.
Mentre tra le protagoniste della Resistenza c’è anche una donna che abbiamo già citato: la staffetta partigiana grossetana Licena Rosi Boschi, attiva però in provincia di Lucca. A San Vito, frazione di Lucca, qualche volta anche durante le passeggiate con il figlio, incontrava partigiani da cui riceveva ed a cui consegnava messaggi <4.
Altre figure femminili, che ritroveremo successivamente nella storia politica locale, avevano fatto parte di formazioni partigiane, con il tradizionale ruolo di staffette, ma non solo. Come Wanda Parracciani, di cui si è parlato molto poco, forse perché ha lasciato presto Grosseto e nella memoria locale – ma solo in quella! –, successivamente è vissuta all’ombra di una figura maschile di rilievo, Fernando Di Giulio <5, fondatore insieme ad Aldo D’Alfonso di un Gruppo d’Azione Patriottica a Santa Fiora (Grosseto), poi protagonista di una brillante carriera politica non solo locale, ricordato con grande affetto e stima da padre Ernesto Balducci, anche lui santafiorese.
La Parracciani fece parte fin dall’inizio nel GAP di Santa Fiora, insieme a Di Giulio ed a Aldo D’Alfonso. Nella relazione firmata dal comandante D’Alfonso, è indicata la sua presenza attiva:
“Nel maggio si stabilì sul Monte Amiata la formazione “Ovidio Sabatini” e ci mettemmo subito in collegamento con questa allo scopo di ricevere ordini e di stabilire un servizio informazioni.
Ricevemmo da questa l’ordine di non presentarci alla formazione per parteciparvi come era nostra volontà, ma di restare in paese allo scopo di controllare le attività dei gruppi fascisti e di poter dare informazioni alla formazione che, in caso contrario, si sarebbe potuta trovare isolata in quella zona.
Cominciammo, insieme al partigiano Di Giulio e a Wanda Parracciani, a stampare un giornale clandestino, “Il comunista dell’Amiata”, a diffonderlo come bollettino preparatorio all’insurrezione che si credeva prossima, oltre a stampare un gran numero di manifesti, circolari, ecc, per conto dei CLN clandestini e delle organizzazioni esistenti” <6.
In un libro di memorie dello stesso D’Alfonso, torna Wanda Parracciani:
“Le frasi smozzicate di Wanda di quel triste pomeriggio di Santa Fiora gli avevano riportato alla mente due episodi per lui fondamentali. “Eravamo l’undicesima cellula di Santa Fiora, dieci di minatori e una di intellettuali, noi tre”, aveva detto Wanda. Già, ma come era potuto accadere? Per la conoscenza di Nando, ma fondamentalmente per Fausto Pizzetti. […] Con Nando erano stati incaricati di pubblicare un giornale. Il termine era un po’ grosso, se si pensa che il giornale era composto da una decina di fogli scritti a macchina, su una vecchia Underwood, con la carta carbone, sei sette copie alla volta, e le ultime erano parecchio schiarite, anche se con due dita picchiava forte sui tasti, trenta quaranta copie in tutto che poi spillavano, non con una spillatrice, perché non l’avevano, ma con degli spilli veri e propri, ripiegati con una pinza e battuti con il martello. La testata era Il comunista dell’Amiata” <7.
Il ruolo di Wanda oltrepassa dunque quello tradizionale di staffetta: è un’intellettuale. L’abbiamo intervistata nella sua casa romana, circondata da scaffali zeppi di libri e da fotografie, che ritraggono Fernando Di Giulio accanto a personaggi illustri della vita politica italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. I suoi ricordi cominciano dall’ascolto collettivo di “Radio Londra”, che «ci faceva scoprire un mondo» e proseguono con la descrizione delle prime azioni: falsificavano luogo e data di nascita dai documenti d’identità dei giovani, per sottrarli alla leva. Quando fu scoperto Di Giulio, lo accompagnarono in montagna, dove si unì ai partigiani della Spartaco Lavagnini. A Santa Fiora Wanda Parracciani continuò a tenere i collegamenti con la banda e ad operare insieme ad altri giovani, di orientamenti politici diversi, che poi sarebbero diventati democristiani, repubblicani, altro; in quel momento era un gruppo di antifascisti. Ricorda con particolare intensità «l’estrema generosità delle donne, che si toglievano anche quel poco che avevano o che ottenevano con le tessere annonarie per darlo ai partigiani»8. Poi la Liberazione, la consegna dei prigionieri tedeschi all’esercito alleato e la scarcerazione degli antifascisti, fino all’apertura della prima sezione del Partito Comunista Italiano – primo segretario Fernando Di Giulio.
Di lei è ancora viva la memoria tra le donne che hanno militato nel PCI grossetano degli anni Cinquanta.
Altra figura femminile della Resistenza locale è la moglie del comandante della BAM, (Banda Armata Maremmana o, secondo un’altra lettura, Banda Arancio Montauto, definita “apolitica”, che dovette sciogliersi prima della Liberazione, in seguito ad un massiccio rastrellamento nazifascista, il 20 maggio 1944) che operò nella zona di Manciano. Virginia Cerquetti, moglie del comandante Arancio, è una sorta di icona della fedeltà ai valori familiari e civili insieme; viveva nella macchia con il marito e lì fece nascere una figlia e rimase fino alla Liberazione, come documenta una foto scattata nei boschi mancianesi. Erano due le donne della BAM: oltre a lei Mariella Gori, come si legge nella relazione del comandante. Mariella Gori compare come colei che «non esitò offrire la sua casa perché si potesse tenere in essa le prime riunioni, da cui sfociò l’accordo per la costituzione della banda» <9. Informatrice, propagandista, cooperatrice, ma soprattutto «ancella della moglie del capobanda [che] seppe con lei dividere le ansie ed i pericoli della lotta». E’ poi ricordata nello stesso testo per aver confezionato pane per i partigiani e per non aver mai giudicato troppo duro qualunque lavoro le venisse proposto. La conclusione così recita:
“Dopo il rastrellamento del 20/5/44, fu costretta a rimanere nascosta, e le fu possibile rientrare in Manciano solo a Liberazione avvenuta paga che la sua modesta opera abbia contribuito alla santa causa della libertà” <10
Non è strano provare disagio di fronte ad una così evidente retorica paternalistica, e non solo da un punto di vista linguistico; i confini del ruolo riconosciuto a questa donna, che aveva condiviso con la banda tutti i rischi fino allo scioglimento, sono tutti in quel «paga della sua modesta opera». L’altra donna ha vissuto con la banda, insieme al marito e ad un figlio di otto anni e, dalla fine del febbraio, con la bambina – Annabella – che nacque nella macchia. Il tono della descrizione delle sue azioni è ancora più alto: «riconfermò, ancora una volta, le doti patriottiche della Donna Italiana, che nei momenti più cruciali della storia nazionale non era mai voluta stare seconda di fronte agli uomini» <11. Segue la descrizione analitica della sua vita alla macchia, con la nascita della bambina senza assistenza e condizioni igieniche adeguate, per concludere così:
“In sintesi la sua opera può essere paragonata a quella di un cappellano militare o di una crocerossina assegnata ad un reparto operante”. <12
Una figura maschile, come nel caso di Wanda Parracciani e di Virginia Cerquetti, troviamo accanto a Nara Scaloncini, ma stavolta è un fratello. Nel 1944 Nara aveva tredici anni ed ha vissuto l’ultimo anno di guerra tra Siena e Chiusdino, un paese a pochi chilometri da Grosseto. Staffetta partigiana per il Raggruppamento Monte Amiata, comandata dal colonnello Croci prima, per la Spartaco Lavagnini, che operava tra Siena e Grosseto, poi. All’origine di questa esperienza adolescenziale c’è una storia familiare: il padre antifascista, il fratello ufficiale dell’esercito, accusato di un attentato dopo l’otto settembre e condannato a morte. Ricorda così la vicenda familiare che precedette e segnò la sua scelta: “Le prime sofferenze in casa mia io le vidi con la mia mamma quando presero mio fratello. Casa mia diventò…diventò un inferno la casa mia…sapere che ti fucilano un figliolo, insomma…io…non è mica una cosa da scherzarci sopra…poi quelli…insomma mia madre a spinta l’ha fatte tutte le scale dove interrogavano i prigionieri…buttata lì fuori a spinte…erano italiani, mica tedeschi eh! Mia mamma quando seppe che l’avevano arrestato andò subito dove li portavano solitamente per gli interrogatori […] io la vidi tutta questa sofferenza tutto questo darsi da fare della mia mamma, tutto questo…la mia mamma diceva sempre: “Avrei dato la vita figurati se non avrei dato qualche altra cosa pur di rivederlo fuori!” Io cosa dette non lo so, perché non l’ha mai detto quello che dette…se dette fece bene, perché mio fratello uscì e quindi…però insomma, si racconta in un minuto ma lì erano settimane e c’era questa condanna a morte…e c’era poco da fare […] io penso di sì…era tanto logico…” <13
Una volta liberato, Vasco Scaloncini scelse la macchia e dette inizio alla sua esperienza di partigiano combattente, riconosciuto poi medaglia d’argento al valor militare. La sorella lo definisce «un idealista». Aveva fatto l’Accademia militare, sempre “impulsivo, generoso…e poi Vasco ha riflettuto molto…ha riflettuto sui Savoia, sull’armistizio, su tutto quello che era stato fatto e siccome Vasco non era uno sciocco ha visto che aveva sbagliato …era stato molto idealista, ma la realtà era molto diversa, aveva sprecato…veramente aveva sprecato la vita fino allora. Allora non aveva più intenzione di sprecarla…disse: “Basta, ‘sta gente non mi sta più bene, basta!” e Vasco ci credeva nel socialismo, era un socialista puro”.
Così Nara descrive il momento della sua scelta: “sentirsi dare una condanna in quel modo insomma francamente…e lì cominciò questa solidarietà. Questa solidarietà totale…quello che si doveva fare si doveva fare, ma si doveva finire la guerra insieme, scampare la pelle tutti in qualche modo, e quindi io aiutavo, io ero consapevole di quello che stavo facendo…e come! E m’avevano a dire qualcosa!”
Da allora cominciò a portare messaggi e soldi, tanti soldi, da riempire il sottofondo di una borsa, a Siena, facendo la staffetta tra il fratello e il colonnello Croci, senza sapere da dove venivano e dove sarebbero arrivati. Dopoché il fratello fu riconosciuto e minacciato, tutta la famiglia si rifugiò a Chiusdino, Vasco entrò nella banda Spartaco Lavagnini (la più grossa formazione dell’area senese-grossetana), e lì Nara faceva la spola tra il paese e la macchia, ma accompagnata dal padre.
L’ha vissuta come una sfida: “La Resistenza in sé per sé era una sfida e quando vinci sei contenta perché io ogni cosa che arrivavo a dare al colonnello Croci, siano messaggi, siano soldi, o che, per me era una vittoria. Ogni volta che andavo a cercare Vasco, a portargli gli ordini, a portargli qualcosa da mangiare eccetera…che cercavo, perché non stavano tutti insieme quelli della Lavagnini, stavano in due o in tre in un fienile, in due o tre in un altro. Per non farsi imboscare ovviamente, no? Per me era una vittoria”.
E’ necessario annotare che Nara Scaloncini, che dopo la guerra ha sempre vissuto a Grosseto, insegnante in una scuola media superiore, ha spontaneamente cercato l‘Istituto storico della Resistenza di Grosseto, chiedendo di associarsi, e spontaneamente, con molta naturalezza ha rilasciato la sua testimonianza. Ma della sua storia non aveva mai parlato con nessuno. Aveva solo scritto poche righe, insieme al fratello, spinta da lui, per una pubblicazione della Associazione Volontari della Libertà, nel 1984 <14, rompendo un silenzio di quarant’anni, per tacere ancora quasi vent’anni. Ne ha spiegate le ragioni, con la frustrazione del dopoguerra, quando, rientrata a scuola dopo due anni di sfollamento e di vita semiclandestina, dopo essere stata insignita della Croce al merito, si era sentita emarginata, addirittura perseguitata da insegnanti, che non accettavano la sua “diversità”: “feci questa terza fra sospensioni, ma sospensioni! Per un nonnulla […] poi gli toccò passarmi. Passai e allora dove si va? Io ero grande. Ma dove si va? Io a scuola non ci vado più! “E che fai?”. Studio, ma a scuola non ci vado più. Allora studiai, a quell’epoca eravamo però vincolati, secondo l’età potevi dare gli esami da privatista alla terza superiore, faccio per dire, non alla quarta…io avevo l’età per darli alla terza, non avevo l’età per prendere il diploma. Allora studiai da me, andai e saltai due anni. E tornai un anno a scuola e ci stetti tre mesi. Dopo tre mesi rivenni via e non ci sono più tornata. Ho dato gli esami di maturità e poi…”
Il nome di Nara Scaloncini si legge a Siena, nell’elenco dei partigiani insigniti di un riconoscimento, ma lei aveva deciso, dopo le prime esperienze di contatto con la società postfascista, che «era meglio non dirle perché non portavano bono». E’ un caso di azzeramento della memoria; l’opposto di chi ha elaborato una versione dei fatti, l’ha fissata e raccontata più volte, sempre uguale. Ma ora parla con piacere e con un linguaggio che non rivela asprezze o rancori, come se avesse voglia finalmente di rompere l’involucro, che nascondeva i suoi ricordi, e si sentisse liberata. Non c’è traccia di retorica della Resistenza eroica, ma molto semplicemente la certezza di «aver fatto quello che andava fatto». Nei numerosi episodi di cui sono protagonisti lei ed il fratello, si avverte un sentimento di profonda ammirazione per lui, oltre ad un fortissimo vincolo di solidarietà familiare. L’età non le concedeva la possibilità di una scelta politicamente matura, ma aveva piena consapevolezza che non fosse un gioco – le è stata riconosciuta la partecipazione a due campagne di guerra – e tuttavia nemmeno la maturazione politica, intervenuta successivamente, l’aveva spinta fino ad ora a rompere il silenzio.
Nell’unica descrizione che possediamo di Resistenza femminile nella provincia di Grosseto <15, sono del tutto assenti dati quantitativi <16; le donne vengono citate soprattutto per una partecipazione di tipo “materno”, comunque assistenziale: oltre a portare ordini, comunicazioni e denaro, si occupavano dei viveri, del vestiario, di ripulire e rasare i partigiani prima dell’ingresso nei paesi, per non farli identificare. Solo in due casi si parla di donne con un’appartenenza politica: Uliana Marliani, a Massa Marittima ed Emma Mattioli, comunista di Roccatederighi, con un’esperienza di militanza clandestina in Francia. In una sua testimonianza leggiamo: “Quando incominciai in Italia avevo l’incarico di fare collegamento dei tenenti antifascisti che non volevano presentarsi alle armi. Ho militato poi nella sezione del PCI: quando arrivavano le direttive della Federazione di Grosseto cercavo di elaborarle per la mia sezione. Diffondevo anche un periodico “Le amiche dei minatori”. Dopo il fronte divenni segretaria del Partito a Roccatederighi”. <17.
Di Uliana Marliani sappiamo solo che era stata staffetta e dopo la Liberazione fu l’animatrice del gruppo di donne UDI a Massa Marittima, consigliera comunale ed assessore nella prima giunta comunale.
Di una massetana è anche il nome più celebrato della Resistenza in provincia di Grosseto: Norma Pratelli Parenti, seviziata ed uccisa in circostanze ancora non del tutto chiarite dai nazifascisti, il 22 giugno 1944, medaglia d’oro al valor militare. La fotografia di Norma, che compare in tutte le pubblicazioni locali sulla Resistenza, mostra un sorriso luminoso e dolce, che non sembra accordarsi con l’immagine dell’eroina sofferente o della martire. Manca ancora uno studio accurato sulla vicenda di questa donna <18, sulla cui fine si è steso a lungo un silenzio, forse motivato dalla consapevolezza di quanto sarebbe stato difficile gestire nel dopoguerra le lacerazioni provocate da un’azione tanto brutale, cui non dovette essere estranea la responsabilità di fascisti repubblicani locali. D’altra parte, non le si attribuiva nessuna appartenenza politica definita, tale da sollecitare i gruppi e poi i partiti antifascisti a voler fare propria la sua memoria. Un episodio di linciaggio di una fascista, dopo la Liberazione, narrato da una delle testimoni intervistate <19, dà conto del clima infuocato, che seguì le lotte resistenziali più diffuse e cruente della provincia di Grosseto. In più, in questa città, a rendere particolarmente difficile il recupero di un clima di normalità, negli anni del dopoguerra la “memoria divisa” non ha riguardato solo ex fascisti ed antifascisti, è stata anche quella della Resistenza: antifascisti e partigiani di tradizione repubblicana da una parte, comunisti dall’altra <20.
Ha prevalso, nei primi scritti che ricordano Norma, la retorica del sacrificio, l’immagine della giovane sposa e madre, come in una poesia anonima, datata giugno 1944 <21, o in un opuscolo diffuso dall’UDI, il cui linguaggio è lo stesso della pubblicistica locale sugli episodi luttuosi di stragi ed eccidi («fu avviata al suo doloroso calvario. Percossa e ingiuriata, martoriata nel corpo e nell’anima») <22 e dunque appare fortemente connotato dal clima di una guerra ancora in corso, molto lontano da noi, dalla nostra sensibilità e dai nostri registri linguistici, ma non specchio deformante del clima del momento. Tutta la prima pubblicistica e le memorie più lontane da noi ricordano l’ episodio della disobbedienza di Norma al divieto di dare sepoltura al corpo del partigiano Guido Radi, trascinato dai nazifascisti per le strade di Massa Marittima, con una descrizione che evoca più l’archetipo femminile della legge del cuore – il sacrificio di Antigone – che non un’appartenenza o una adesione pienamente consapevole alla lotta antifascista.
Il testo più significativo per le informazioni che contiene, anche perché risalente a trent’anni fa, dunque scritto con il contributo di memorie oggi non più disponibili, rimane quello di Marcella Vignali, che ne parla, comunque, in poche pagine, nel saggio su: Clero e Resistenza nella provincia di Grosseto. Dopo la Liberazione, secondo quanto riferisce la Vignali, il vescovo di Massa Marittima pronunciò al teatro Mazzini un’orazione in memoria di Norma, che sembra «essere stata una delle più belle e attendibili testimonianze sulla personalità di Norma Parenti, […] introvabile». Ma le notizie raccolte dalla Vignali appaiono a lei stessa incerte: è attestata la partecipazione di Norma al Circolo Giovanna d’Arco dell’Azione Cattolica, ma anche ricordata la distribuzione di volantini alle porte dei massetani, anche fascisti, «con il segno della falce e martello». L’unico dato presente in tutte le testimonianze è la descrizione di un carattere esuberante, «della sua insofferenza a regole e schemi; di una intraprendenza vigorosa aliena da ogni forma di paura o di dipendenza da chicchessia» <23. Con questa attitudine al gesto temerario svolgeva azione di propaganda, incoraggiava la diserzione dei prigionieri dei tedeschi, riforniva di viveri ed armi i partigiani. Così viene descritta la sua uccisione: “…una sera che era tornata da una ennesima spedizione alle soglie della macchia per convogliare un gruppo di mongoli verso i partigiani. Fu chiamata dal basso da un gruppo di nazifascisti; devastata la piccola trattoria con una bomba, essi trascinarono via lei e la mamma Rosa; lo scoppio di una bomba di cannone alleato che cadde vicino al gruppo salvò la mamma creduta morta; Norma riuscì a fuggire e a rifugiarsi in un podere vicino di un tale Meschini; ma qui fu rintracciata e orribilmente uccisa insieme al contadino che le aveva dato rifugio. Aveva appena ventitré anni”. <24 […]
[NOTE]
1 F. Pieroni Bortolotti, Le donne nella Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia (1943-45), in: AA. VV., Donne e Resistenza in Emilia Romagna, vol. II,Vangelista, Milano 1978.
2 Cfr.: G. De Luna, Donne in oggetto. L’antifascismo nella società italiana 1922-1939, Bollati Boringhieri, Torino 1995. A Battistina Pizzardo fa riferimento anche: A. Banchi, Si va pel mondo. Il partito comunista a Grosseto dalle origini al 1944, cit, pp. 41, 51.
3 A. Banchi, Si va pel mondo, cit., pp. 117-118. Esiste una testimonianza scritta della vedova di Assunto Aira, datata 1954 , che ricostruisce brevemente la biografia del marito, morto prematuramente in seguito ad una malattia provocata o aggravata da percosse e maltrattamenti subiti; vi è citato l’arresto della Pizzardo, il 21 luglio 1927 (in: AISGREC, fondo Resistenza, b. V,5).
4 Intervista a Ilio Boschi, cit.
5 Fernando Di Giulio, eletto nel collegio dell’Amiata deputato in Parlamento nelle liste del PCI, ha ricoperto incarichi di rilievo nazionale e non ha più vissuto a Grosseto, mantenendo un debole legame con la Federazione Provinciale del Partito. E’ descritto come politico di grande intelligenza: «Noi eravamo abituati a parlare seguendo gli appunti; lui aveva una scatola di cerini su cui faceva solo finta di leggere gli appunti. In realtà non aveva niente»(intervista a Renato Pollini, 17 luglio 2001, rilevatori Antonio D’Agnelli e Luciana Rocchi, in : AISGREC).
6 Centro studi Fernando Di Giulio, Resistenza e Liberazione.Documenti e testimonianze dell’area amiatina, Arcidosso, 1995, p. 25..
7 Ibidem, p. 32.
8 Intervista a Wanda Parracciani,
9 Relazione del comandante della BAM alla Commissione regionale per il riconoscimento dei partigiani del Lazio, in AISGREC, b. V 4.
10 Ibidem
11 Ibidem
12 Ibidem.
13 Intervista a Nara Scaloncini, 21 marzo 2003.
14 Associazione toscana volontari della libertà, sezione di Grosseto, Monumento al fascismo, Tipolito Europa, Grosseto 1984.
15 Comitato Femminile Antifascista per il XXX della Resistenza e della Liberazione in Toscana, Donne e Resistenza in Toscana, Tipografia Giuntina, Firenze 1978 (testo in cui l’intenzione celebrativa prevale sulla consistenza della ricostruzione storica),
16 «Le cifre ufficiali sulla partecipazione femminile alla Resistenza italiana sono, con qualche variazione in fonti diverse, di 70.000 partecipanti ai Gruppi di difesa della donna, 35.000 partigiane combattenti, 4.600 arrestate, torturate, condannate, 2.750 deportate in Germania, 623 fucilate o cadute in combattimento, 512 commissarie di formazioni prtigiane, 16 medaglie d’oro, 17 d’argento», in: A. Rossi Doria, Le donne sulla scena politica, cit., p.781.
17 Testimonianza raccolta da Luciana Batoni e trascritta in piccola parte in: L. Batoni, Provincia di Grosseto, in: Comitato Femminile Antifascista, Donne e Resistenza in Toscana, cit., pp. 127.
18 Sono molte le citazioni di Norma Parenti nella letteratura sulla Resistenza, ma poche le pubblicazioni contenenti informazioni di qualche interesse; ricordiamo: M. Vignali, Clero e Resistenza nella provincia di Grosseto, in: Comitato Regionale per le celebrazioni del XXX della Resistenza e della Liberazione in Toscana, Il clero toscano nella Resistenza, Tipografia Giuntina, Firenze 1975; Comitato Femminile Antifascista per il XXX della Resistenza e della Liberazione in Toscana, Donne e Resistenza in Toscana, cit.; C. Groppi, La piccola banda di Ariano, Il Chiassino, Castenuovo Val di Cecina, 2003, lavoro solo in piccola parte dedicato a fare maggior luce sulla vicenda di Norma Parenti, ma che contiene testimonianze inedite sulla sua morte (pp.236-43).
19 Intervista a Gabriella Cerchiai, 24 novembre 1999.
20 E’ una conclusione cui si giunge facilmente, dopo la lettura delle carte che documentano i rapporti tra CPLN (Comitato Provinciale di Liberazione Nazionale) di Grosseto ed il CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) di Massa Marittima. Si giunse addirittura alla stesura di due diverse relazioni sull’attività della Banda Chirici, una da parte del Comandante, l’altra da parte del commissario politico, il primo repubblicano, il secondo comunista , in: N. Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazifascismo, Tipolito La Commerciale, Grosseto 1985, p. 6. Anche le memorie lo attestano: «Dire che io capissi le ragioni della conflittualità direi una balla, però io sentivo le discussioni in casa, o da Uliana o dall’UDI o da qualche parte e recepivo questo: noi siamo qui e loro là» (intervista a Gabriella Cerchiai, 24 novembre 1999).
21 «Giovane sposa e madre, fra le stragi/ e le persecuzioni, mentre sul litorale maremmano/ infieriva la rabbia tedesca e fascista, non/ accordò riposo al suo corpo né piegò la sua volontà di soccorritrice, di animatrice/ di combattente e di martire Diede alle vittime la sepoltura vietata, provvide/ ospitalità ai fuggiaschi, libertà e salvezza ai/ prigionieri munizioni e viveri ai partigiani…», in: N. Capitini Maccabruni (a cura di), La Maremma contro il nazifascismo, Tipolito La Commerciale, Grosseto 1985, p. 6.
22 Unione Donne Italiane, Eroine del secondo risorgimento d’Italia, edizione “Noi donne”, Roma 1944. Sono questi gli anni in cui le commemorazioni accomunano retorica resistenziale e risorgimentale;, di cui è specchio l’impianto di un libro, scritto da Camilla Ravera nel 1950: C. Ravera, La donna italiana dal primo al secondo Risorgimento, Edizioni di cultura sociale, Roma 1951
23 M. Vignali, Clero e Resistenza nella provincia di Grosseto, cit., p. 125.
24 Ibidem, p. 26.
Redazione, Resistenza al femminile, ANPI Grosseto Comitato Provinciale “Norma Parenti”, maggio 2006

Un momento fondante del nostro Paese, sul quale è ancora possibile fare nuova luce. È uscito in libreria ‘Storia della Resistenza senese’ (Betti Editrice). Una pubblicazione nata per l’Istituto storico della Resistenza senese Vittorio Meoni, curata da Alessandro Orlandini, Riccardo Bardotti, Michelangelo Borri, Pietro Clemente e Laura Mattei, con un saggio di Nicola Labanca. Personaggi, fatti, piccole storie, che sono storie di scelte. Scelte sbagliate, anche.
[…] “Lo studio ci è apparso necessario – spiega Orlandini – perché l’ultimo tentativo di raccontare l’argomento risale a 40 anni fa. Nel frattempo si sono accumulati materiali, testimonianze, fonti d’archivio. Per cui abbiamo tentato una nuova sintesi, cercando di affrontare questa storia da una prospettiva diversa”.
[…] Grande importanza viene finalmente riconosciuta anche al ruolo delle donne…
“Spesso erano madri, figlie, fidanzate dei partigiani che si erano dati alla macchia. Offrirono un aiuto per il cibo, i nascondigli, le cure mediche. Ma ci fu anche un’altra funzione che abbiamo voluto mettere in luce. L’impegno a difendere la propria comunità anche dalle conseguenze di errori, tattici, che i partigiani potevano commettere”. […]
Riccardo Bruni, La Resistenza vista da una nuova prospettiva, La Nazione, Siena, 7 aprile 2021